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Interludio d'inverno n.68: L’ affresco di un paese della Valle del Belice
Interludio d'inverno n.68: L’ affresco di un paese della Valle del Belice
Interludio d'inverno n.68: L’ affresco di un paese della Valle del Belice
E-book157 pagine2 ore

Interludio d'inverno n.68: L’ affresco di un paese della Valle del Belice

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Info su questo ebook

Interludio d'inverno n.68 narra le vicende di un immaginario paese della Valle del Belice dentro un arco temporale che va dal dicembre del 1967 al gennaio del 1968. Leonardo è un quattordicenne vivace e curiosissimo, a tratti ingenuo, sospeso sul crinale che separa l'infanzia dall'adolescenza. Attraverso lo sguardo di un ragazzo e attraverso la memoria di un uomo ormai adulto si schiudono avvenimenti in grado di tessere la quotidianità di un'epoca. Il risultato è un racconto di umori, tradizioni, vicissitudini nel quale si intersecano voci differenti che consentono di cesellare in maniera corale l'affresco di un paese dell'entroterra siciliano che sta per essere sconvolto dal terremoto del 1968.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2023
ISBN9791221457339
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    Anteprima del libro

    Interludio d'inverno n.68 - Donatella Marinello

    Capitolo primo

    Il vento

    Come da calendario il mese di gennaio era arrivato portando con sé un freddo pungente e senza donare alle nostre vite nessuna novità.

    Fin dal primo giorno dell’anno, il vento aveva iniziato a regnare sul paese alla stregua di un sovrano assoluto. Una dittatura rumorosa ci costringeva ad imbacuccarci quando uscivamo. Come ombre rigonfie e tondeggianti stratificate di lana ci aggiravamo per le strade, come bozzoli vaganti di gommapiuma rotolavamo da un marciapiede all’altro e facevamo forza sui nostri piedi per non farci trascinare, come baricentro sceglievamo le nostre gambe per resistere alla furia che rischiava di avvolgerci in un turbine che superando la forza di gravità sarebbe riuscito a risucchiarti sempre più su, fino a farti svolazzare nell’aria come delle mongolfiere che prendono il volo.

    Il vento si infiltrava tra i pensieri, li confondeva, si insinuava dentro le nostre cellule agitandole tutte.

    Mia madre lamentava di sentire la testa in fiamme, un continuo pulsare alle tempie le impediva di riposare. All’improvviso la vedevi interrompere una faccenda domestica che la impegnava per alzare le mani al cielo in attesa di un soccorso divino per poi posarle con forza sulla nuca e premendo le nocche sulla fronte esordiva con un: Non ne posso più, sto impazzendo! Dopo cinque minuti pareva calmarsi e riprendeva quel che aveva interrotto come se non fosse successo nulla, lasciandoci sbigottiti e in attesa di una nuova sfuriata di dolore che solo il rumore del vento avrebbe innescato all’improvviso, cogliendoci di sorpresa e facendoci sobbalzare al trillare acuto della sofferenza. L’evento che mi impensierì per anni - per poi sfumare nella nostalgia - accadde a pranzo nel giorno della befana. Eravamo già seduti a tavola e mia madre stava scodellando degli spaghetti con il sugo di stufato che aveva fatto cuocere con religiosa lentezza per tutta la serata della vigilia. Improvvisamente una raffica scosse la porta con forza, noi sobbalzammo e mia madre, presa dalla violenza dell’ennesima nevralgia, indecisa se alzare le palme al cielo per placare le pulsazioni accoccolandole sulla nuca o sorreggere la pentola di coccio, optò per la prima salvifica soluzione. Rovesciò a terra la pentola con dentro il sugo pronto per inondare la pasta e per avvolgerla in un trionfo di colori, odori e profumi, degno di celebrare un giorno di festa. Il tonfo ci colse tutti di sorpresa, lasciandoci ammutoliti per qualche istante, poi scatenò un tripudio di voci, grida, confusione. Il sugo scendeva a rivoli sul pavimento e pezzi di carne rotolavano dappertutto. Mia madre si mise a piangere costernata come se fosse morta una persona a lei cara, mio padre si mise ad imprecare contro il vento contro la persiana contro gennaio e contro lo stufato; noi sconcertati assistevamo come imbambolati a quello che mi sembrò un indizio di quanto le reazioni delle persone a volte siano oscure e spropositate. Vidi mia madre aprire le finestre e far entrare raffiche di vento gelido; vidi mio padre rinchiuderle prendendola per pazza perché così rischiava di farci ammalare tutti; vidi me andare nello sgabuzzino per prendere una scopa e uno straccio con un secchio d’acqua; vidi mio fratello prono sul pavimento raccattare pezzi di stufato, perché invece di buttarli li avrebbe portati ad Ulisse, il cane lupo che tenevamo nella casa di campagna e intanto sentivo mia nonna, la più tranquilla tra tutti noi, immersa com’era ormai da anni in un mondo parallelo al nostro - corpo animato tra corpi da cui era ormai distante con lo spirito - , che quieta schiudeva una cantilena. Aveva un sorriso beato stampato sul viso. Le rughe le incidevano la pelle di crepe come terra arsa dal sole e assetata d’acqua mentre ripeteva: Bon tempu e malu tempu non dura sempri un tempu. Ad un certo punto si era alzata e, sfuggendo ad ogni controllo, distratti come eravamo dal trambusto, si era stesa a terra e aveva iniziato a sbocconcellare un pezzo di stufato, subito mio fratello si era fiondato su di lei per strapparglielo dalla mani:

    - Nonnò, nonnò, lordu è! A terra cadì!

    Ma lei, incurante delle esortazioni igienico-sanitarie, aveva prontamente infilato in bocca la carne dopo aver scacciato il nipote come una mosca fastidiosa che gironzola insolente sul tuo pasto preferito. Più tardi mia madre si accorse che aveva nascosto pezzi di stufato sotto il letto, avvolgendoli dentro lo scialle color aragosta che metteva sempre sopra le spalle per scaldarsi e per proteggersi dal freddo. Mia nonna sapeva cos’era la fame. Era poco più di una bambina quando scoppiò la guerra e con suo padre al fronte le difficoltà per la famiglia erano aumentate a dismisura. Insieme alla madre aveva raccolto le spighe lasciate sui campi dopo l’aratura per racimolare un po’di farina con la quale preparare pane e pasta e così affrontare l’inverno. Da adulta non tollerava sprechi di cibo né contemplava la possibilità di gettar via gli avanzi. Da vecchia qualche cellula continuava a custodire l’oscuro timore di morire di fame che l’aveva perseguitata durante l’infanzia e le aveva regalato l’abitudine di nascondere resti di cibo che sbocconcellava di notte o finiva per far ammuffire dentro una vecchia borsa di cuoio nero da cui non si separava mai e dove teneva una spazzola, un cambio per la notte, fazzoletti di tessuto ricamato a fiorellini blu e gialli, una falda di cotone - che non si sa mai - e la foto che ritraeva mio padre immerso in un campo di lavanda all’epoca in cui era emigrato in Francia. A distanza di anni il ricordo di quel sei di gennaio del 1968 è ancora vivo: mia madre che alza le mani al cielo, le finestre spalancate e offerte alla furia del vento che penetra prepotente dentro casa, gli scatti nervosi di mio padre, mia nonna con il viso imbrattato di sugo, mio fratello che si aggira sconsolato per raccattare dentro un piatto bocconi di stufato da mettere da parte per sfamare Ulisse. Il cane di carne fresca ne vedeva raramente, doveva accontentarsi di uno spartano piano alimentare costituito da rimasugli di pasta in bianco o con il sugo che quotidianamente gli forniva mio padre e che spesso lasciandolo insoddisfatto lo aveva indotto a celebrare un rituale di caccia con le galline di don Totò. Un pomeriggio l’uomo si era presentato davanti la porta di casa nostra con in mano due galline decapitate: - Con il cane che dobbiamo fare? - aveva detto con la voce incrinata dalla rabbia. - Ha ucciso le mie due galline padovane!

    Mia madre era rimasta zitta mentre mio padre si era profuso in scuse e aveva rassicurato don Totò che avrebbe provveduto pagando il danno subito; promise infine sul proprio onore che Ulisse non si sarebbe più avvicinato al pollaio. Il bottino della caccia aveva fatto riflettere mio padre sull’opportunità di cedere il cane a qualche pecoraio, ma la sua decisione venne troncata dalle urla di mio fratello che aveva con Ulisse un rapporto di complicità simbiotica dal quale erano estromessi tutti i componenti della famiglia.

    Odori, volti, gesti di quel giorno così lontano ancora mi accompagnano e riescono a strappare un sorriso alla nostalgia di un momento di vita vissuta che ritorna vivido attraverso il ricordo non appena l’alba di un giorno di gennaio lo estrae ogni anno puntuale dal cassetto della memoria soltanto finché avrò io memoria.

    Tutto quel tramestio furioso che agitava la nostra vita mi divertiva. Mi incantava la potenza delle raffiche nello sbattere con violenza improvvisa gli scuri delle persiane, nel far rotolare sui marciapiedi i vasi con gli arbusti di rosa rampicante posti davanti alla porta di ingresso di qualche casa, nello spargere cumuli di terra sulle strade, nell’inclinare con violenza i rami del gelso che cresceva nel giardino dietro casa, insieme al mandorlo e al noce, perché, secondo mio padre, bisognava piantare solo alberi da frutto, gli unici indispensabili alla vita e all’uomo. Quel che non serviva e non era necessario o assolveva all’unica funzione di estetica e di decoro veniva degradato alla condizione di inutilità che svaporava nell’indifferenza. Per mio padre, la bellezza che non diventava servizio e che non ispirava al fare era solo strumento di contemplazione sterile. Un giorno mia madre aveva proposto di piantare un roseto ma aveva ricevuto come risposta la brusca concessione di coltivare lavanda perché gli ricordava il periodo in cui era vissuto nella Francia meridionale, quando era emigrato all’estero nei primi anni Sessanta in cerca di lavoro; inoltre era un arbusto che teneva lontani gli insetti, oltre a dare colore e a inondare di profumo il piccolo triangolo di giardino che avevamo sul retro della casa. E lavanda fu.

    D’estate mio padre prendeva un ramoscello violetto, aveva il vezzo di inserirlo nella tasca della camicia e così dar bella mostra di sé. Spesso osservavo il gelso dalla finestra della cucina e vederlo così ricurvo su se stesso mi immalinconiva perché nel piegarsi mi sembrava intravedere una richiesta di aiuto se non di pietà, mentre tentava di difendersi dalle percosse e dalle sferzate del vento. Durante la giornata le raffiche venivano placate momentaneamente da una pioggia che cadeva a singhiozzo, gocciolava come rugiada schizzata da un imbuto, attraversava la pelle per raggiungere le ossa, ti penetrava tutto e rivestiva l’anima di una umidità fastidiosa. Di notte il vento si inaspriva, sentivo cigolare le imposte, qualcosa in terrazza rotolava, i cani abbaiavano; mi rannicchiavo e mi accoccolavo sotto le lenzuola, ascoltavo la furia delle raffiche, calcolandone intensità e pause, poi stanco mi tiravo su le coperte fino a coprirmi le orecchie per attutire i rumori e così mi abbandonavo al sonno.

    Capitolo secondo

    Arrivano le feste

    Le lunghe festività natalizie erano accompagnate da un torpore indolente provocato dalle vacanze, dai dolci così zuccherini, lussureggianti di fichi secchi e di mandorle, dalle serate trascorse a giocare a carte fino a notte fonda. Già con l’ingresso di dicembre risuonavano tra le pareti di casa mia liste della spesa e programmi di menu: Si fa arrosto come secondo? Anelletti al forno con ragù? Bisogna comprare la carne macinata. Lo zio Masi mi ha detto che per la vigilia ci darà un quarto di maialino da latte. Lo serviremo il giorno di Natale. Bisogna comprare le mandorle e la sugna per fare i dolci.

    La sera del sette dicembre mia madre, mia nonna, mia zia occupavano la cucina, prendevano una larga spianatoia e la riponevano su quattro sedie, quindi si sedevano attorno e iniziavano a preparare i cucciddata. Dappertutto si diffondeva un profumo che sapeva di scorze d’arancia, di frutta secca, di sugna e di ammoniaca. Mia madre e mia zia spianavano i dischetti di frolla, la prima li riempiva di confettura di fichi e mandorle macinate, la seconda di marmellata di arancia e cioccolato a scaglie. I dischetti venivano ripiegati a mezzaluna e passati a mia nonna che compiva il miracolo artistico. Sebbene con la testa non ci stesse più granché, le sue mani mantenevano una memoria indelebile su come realizzare intrecci sopraffini per mezzo di impasti dolciari. Con una precisione chirurgica utilizzava una lima da rasoio per incidere la pasta in modo naif: galletti, conchiglie, anelli prendevano forma attraverso le sue mani. Modellava l’impasto anche a forma di bastone ricurvo che doveva riprodurre a suo dire quello che San Giuseppe teneva in mano nel ritratto che dominava la camera da letto dei miei genitori. Il quadro era posto di fronte allo specchio del comò, cosicché quando mi capitava di specchiarmi e di alzare lo sguardo incrociavo quello del santo che sembrava mi scrutasse con un misto di dolcezza e serietà. L’intreccio che realizzava mia nonna a me ricordava tanto una biscia e una volta che anni prima glielo avevo fatto notare si era messa a gridare dandomi dell’indemoniato perché guardavo le sue creazioni artistiche con occhi malvagi, poi aveva iniziato a piangere dicendo che dalle sue mani erano sempre uscite cose sante e solo chi ha dentro di sé la cattiveria la vede poi negli altri e nelle cose. La sua reazione mi sembrò veramente esagerata, inoltre il mio commento suscitò rimproveri aspri da parte di mio padre, dovetti perciò chiedere scusa, impegnarmi da quel momento a guardare le cose gli altri e le cose degli altri con occhi limpidi e puri, e mostrarmi seriamente pentito, benché fossi certo che tutti la pensassero come me soltanto tacessero per rispetto e per non irritare nonna. La catena di montaggio prevedeva che io mi occupassi dell’allustrata, una glassa lattiginosa che

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