Intrighi e morte sull'Adda: Il commissario Albani e i misteri del liceo
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Antonio G. D’Errico, autore prolifico che spazia nei vari campi della cultura. Poeta, scrittore e sceneggiatore. Premio Grinzane Pavese, nel 1998 e nel 2000. Nel 2008 con il noir ispirato alle attività delle sette sataniche, Il Discepolo (Fratelli Frilli Editori), ha conquistato il podio della giuria popolare al Premio Scerbanenco. Nel 2018 sempre con un noir, Morte a Milano. Ernest (Macchione editore), ha vinto il Premio Nazionale Rende. Intrighi e morte sull’Adda è il suo quarto noir. Ha scritto numerosi testi di argomento musicale. Nel 2011 pubblica la biografia di Eugenio Finardi, Spostare l’orizzonte (Rizzoli), scritta insieme al cantautore milanese e, nel 2015, esce presso Mondadori con la biografia di Pino Daniele, Je sto vicino a te. Sempre nel 2015 con l’editrice Arcana pubblica Per rabbia e per amore, neapolitan power e dintorni: una conversazione con i protagonisti dell’ondata creativa della neapolitan power, con le testimonianze di James Senese, Enzo Gragnaniello, Eugenio Bennato, Tony Esposito, Beppe Barra. Ha scritto inoltre la biografia di Marco Pannella, nel 2012, dal titolo Segnali di distensione. Ha scritto per il teatro insieme a Donato Placido, fratello di Michele, del quale ha redatto nel 2019 la biografia, dal titolo Dio e il cinema. Nel 2020 ha scritto il saggio di divulgazione scientifica Il virus delle verità (Santelli editore).
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Intrighi e morte sull'Adda - Antonio G. D'Errico
1
La morte l’ho vissuta sempre con estrema difficoltà, un tremore insopportabile dell’anima e del corpo. Un’ossessione della mente.
So che c’è chi la vive come una semplice interruzione della vita, la sua fine, un punto di arrivo.
In me ha sempre scatenato pensieri scioccanti, un atroce sgomento, un orrore misterioso e sconfinato che mi ha fatto torcere per lo spavento e mi ha reso fragile nei pensieri e nella volontà. Alla morte ho sempre associato il dolore e il pianto, quasi una febbrile impossibilità di sopravviverle.
Una sensazione simile mi capitava da bambino per un abbandono inatteso, un restare solo inaspettato, mentre appena qualche attimo prima avevo la certezza di sapermi in mezzo a tanta gente. Ma all’improvviso qualcosa si spezzava, e tutta la solidità del mondo circostante si faceva vuoto, buio e assenza. L’ansia mi assaliva all’istante e mi toglieva l’equilibrio, la dimensione della realtà. Venivo avvolto da un’oscurità impenetrabile, senza una via d’uscita, chiuso all’interno di un tunnel spessissimo che mi isolava da tutte le cose. Restavo paralizzato, con le mani che cercavano una via di fuga da quella realtà che mi faceva gemere di dolore. E meno male che da bambini c’è sempre la mano di qualcuno che ci viene a salvare, mamma o papà, che ci prendono in braccio e ci sussurrano parole che sconfiggono tutti i mali e tutte le paure. Basta solo aprire gli occhi, poco dopo, per trovare quel mondo di presenze che ci era sfuggito per qualche incomprensibile stratagemma della realtà.
Quel letto che aveva contenuto il corpo freddo di mia moglie non riuscivo neanche a guardarlo. Ora era spoglio di ogni cosa, anche la stanza era priva di forma. Tutto era rimasto abbandonato a se stesso. Eppure nell’aria vibrava un’essenza che rendeva grave quello spazio chiuso. Di colpo mi sembrava che si accendesse la luce riflessa dei ceri infilati nelle corone dei candelabri dorati. Il peso del corpo di Emma vestito di nero contrastava con il bianco candido delle lenzuola fregiate di petali celesti di gladioli, ricamati a mano. Tutto odorava di incenso e di oscurità. Mi veniva da piangere pensando all’inutilità della vita.
Avevo amato mia moglie più di me stesso. Avevo vissuto per lei nel tempo che ci era stato concesso di vivere insieme. Poco, per la verità. Volevo che fosse felice più di quanto potessi renderla io con la mia sola presenza. Mi prodigavo con tutte le cure per farla sentire al sicuro da ogni dubbio, sollevandola da qualsiasi insicurezza.
Appariva in una specie di contemplazione, sotto le trasparenze del velo di pizzo nero che le copriva completamente il viso fino al collo: le mani giunte sul petto reggevano il rosario, le scarpe con la suola lucida. Gli occhi seppur chiusi e fissi pareva si muovessero e anche il collo mi sembrava s’ingrossasse come se respirasse. Non riuscivo a trattenere le lacrime, mi sentivo dentro quel tunnel nero, abbandonato, senza che la mano di nessuno potesse intervenire per ridarmi la pace che avevo perduto.
Erano passati troppi anni da quel giorno, mia figlia Caterina era cresciuta. Da tempo si era ritirata nella sua stanza, come se non volesse mostrarsi più al mondo. Era una bambina diligente e sentimentale; ma anche a lei la morte della mamma l’aveva segnata definitivamente.
Lo spazio che da tempo occupavo nella casa era il salotto. Ero divenuto stanziale in quel quadrato tappezzato da pareti bianche, col pavimento lucido di gres e il soffitto a cassettoni. Non mi ricordava nulla di essenziale, però perdevo del tutto la dimensione della realtà al suo interno e sentivo la mia mente entrare in una condizione di completa leggerezza, come se si svestisse di ogni consistenza. Nella stanza da letto non vi entravo quasi più. Solo quando la nostalgia di Emma prendeva il sopravvento su ogni altro pensiero, mi affacciavo un attimo appena, il tempo necessario perché la bellezza del suo sorriso mi cogliesse di soprassalto ancora una volta; nonostante sapessi che quella gioia sarebbe durata un istante, perché l’orrore della sua morte si sarebbe impossessato immediatamente di me, della mia vista, della mia memoria, del mio bisogno di vederla come mi era stato concesso in quel breve tempo della nostra vita vissuta insieme.
Mi ripeteva spesso di non fare progetti: «Perché nella nostra esistenza non si può mai sapere che cosa ci possa accadere.»
Parlava come se conoscesse il suo destino. Lo dico adesso che il tempo mi ha dato modo di comprendere quanto allora mi pareva pressoché eccessivo.
Ci eravamo conosciuti sul treno, nel tragitto da Treviglio e Cassano D’Adda verso Milano. Lei saliva alla stazione di Cassano. Era di una bellezza struggente, come mi suggerirono i sensi quando la vidi per la prima volta. Da allora ci incontrammo tutte le mattine. Studiava ingegneria al Politecnico, io frequentavo i corsi di teologia alla Facoltà Teologica.
Mi chiedeva spesso della mia vocazione, con una curiosità insolita e non sostenuta da vero interesse: «Hai sentito la chiamata di una voce distinta provenire dal cielo oppure è stato un richiamo viscerale dei sensi, dell’anima se preferisci?»
Rideva, qualsiasi risposta le dessi. Anche se la sostanza delle mie spiegazioni non cambiava, lei spalancava la bocca e brillava nello sguardo, scossa da un piacere che le muoveva un ciuffo di capelli chiari ramati sulla fronte, trattenendo un poco il respiro, ispirata da immagini fantasiose che le attraversavano la mente.
Era esile nelle sue forme, ma odorava di gioia e di soavità. La sua femminilità era dono divino, come io verificavo dentro di me, nonostante lei continuasse a ridere delle mie disposizioni d’animo.
Nel pomeriggio, ci ritrovavamo sul treno, per fare ritorno a casa. Lei scendeva alla stazione di Cassano, mentre io proseguivo ancora per un’altra fermata, fino a Treviglio.
I suoi genitori gestivano un bar proprio di fronte alla piazza del Municipio. Era orgogliosa che il sindaco della cittadina andasse a consumare la sua colazione nel locale della sua famiglia: «Si sente a suo agio» sottolineava, variando il tono della voce. «Il sindaco dice che è arredato con molto gusto. E la resumada al caffè della mamma lo fa sentire a casa.»
La domenica andavamo in bici lungo i sentieri che costeggiano l’Adda, salendo verso Pontirolo e Fara Gera D’Adda. La sera andavamo a casa dei miei, per la cena: Emma si preparava tutte le volte con una cura minuziosa per esaltare la grazia della sua figura. Mia madre l’aspettava con grande ansia per ricevere quell’abbraccio che le catturava i sensi, dove ritrovava una parte di sé, dell’aspetto di un tempo, non ancora completamente svanito.
Fu una disperazione la morte prematura di Emma, colpì ognuno di noi con una violenza da cui non ci si risolleva, anche se è avvenuta nel modo meno tragico possibile. Ha chiuso gli occhi una notte per non riaprirli mai più. E il dolore ha trovato solo il modo di rimbalzare di cuore in cuore, togliendo le forze a chi ha dovuto subire il lutto oltraggioso della notizia che Emma non c’era più. Sono entrato nella stanza di mia figlia, per cercare una consolazione, un legame tra quanto rimaneva di noi e quanto avevamo perso senza poter fare niente per recuperarlo. Ho chiamato mia madre, dopo aver meditato a lungo, perché sapevo che quella morte l’avrebbe colpita nella parte più profonda delle sue resistenze. Ha evitato che aprissi la bocca, dal tono della mia voce ha capito subito. È arrivata poco dopo con mio papà. È entrata nella stanza da sola, non permettendo a nessuno di entrare insieme a lei. Poco dopo è uscita, cadendo di peso tra le braccia di mio papà che l’ha sorretta. Ho chiamato i genitori di Emma, che erano già a lavoro nel bar di fronte al Municipio di Cassano. Il dolore si è moltiplicato tra amici e parenti in un tempo brevissimo.
2
Mia figlia è cresciuta in questi anni. Non mi sono neanche accorto di lei, talmente sono rimasto prigioniero del dolore per la morte di Emma: un male che non mi ha mai abbandonato, che non ho cercato di alleggerire aprendomi in confidenze di qualsiasi genere con nessuno.
Caterina è vissuta più con mia mamma che con me. Dopo la scuola andava da lei, a casa sua, a Treviglio, restava a pranzo e il più delle volte anche a cena, poi tornava a casa a Cassano. D’inverno restava a dormire con lei, soprattutto dopo che è venuto a mancare mio padre. Si sono fatte compagnia, a modo loro, come verifico quando le vedo insieme. Rimangono in silenzio, ciascuna immersa nelle proprie occupazioni mentali, eppure quando si incrociano con lo sguardo qualcosa le scuote, un avviso dell’anima, una raccomandazione dei sensi.
Per quanto mi riguarda, invece, non ho mai cambiato casa. Sono rimasto nella stessa abitazione che ho scelto e comprato insieme a mia moglie. Non mi sono trasferito neanche dopo la sua morte. Si trova di fianco all’abitato dei miei suoceri, in un angolo in mezzo a un viale alberato di platani. Dopo che ho terminato gli studi ho iniziato a insegnare religione in un liceo di Treviglio, che da qualche anno frequenta anche mia figlia. Mia mamma manifesta ancora tanta energia nel fisico, nonostante il viso mostri i segni evidenti di una serie di preoccupazioni rivolte a sé, a me, e soprattutto a Caterina.
Anche se mia figlia ha trascorso buona parte del tempo con la nonna, non sono mancati momenti di apertura tra me e lei. Da piccola continuava a chiedermi come fosse morta sua mamma.
Non c’era una risposta vera e propria che potevo darle, in realtà era morta accidentalmente, come disse il medico che aveva compilato il suo certificato di morte: «Nel sonno, senza una causa certa. Si è arrestato il cuore e ha spento gli occhi.»
«Non mi sembra una grande ragione» controbatteva, con il suo visino contratto dal pianto che voleva farsi largo in mezzo alla bocca chiusa a stento.
«Hai ragione, Caterina» le dicevo con serietà, abbracciandola a me. «L’ho sempre creduto anch’io che non fosse accettabile una verità tanto assurda.»
«E perché non hai chiesto una spiegazione più vera?»
«L’ho fatto» sussurravo piano, trattenendo il respiro che s’ingrossava. «Ma non avevano una verità da offrirmi diversa da quella.»
Certe sere la sentivo piangere, ma smetteva subito se udiva i miei passi che si avvicinavano alla porta chiusa. «Non entrare, papà! Ti prego, lasciami stare da sola. Ho bisogno di restare così, in silenzio.»
Rimanevo assorto, pensando al suo dolore e al mio che non sopportava quella sua sofferenza e la mia.
Certi giorni la guardavo con sorpresa, notando quasi per la prima volta che stesse crescendo, che fosse cresciuta soprattutto.
La mattina andavamo insieme a scuola, con la nostra macchina. Mi chiedeva di lasciarla sulla circonvallazione, poco prima del portone dell’istituto. Non voleva che i suoi compagni la vedessero arrivare insieme con me.
La guardavo allontanarsi, così piccola, benché fosse cresciuta, così fragile in mezzo a quella scia di anime che dovevano farsi spazio per realizzare un futuro possibile. Mi sembrava proprio che non fosse una bella prospettiva da inseguire dove ognuno aveva cura per sé, ignorando il bene di ogni altro. Provavo un delicato senso di tenerezza per la mia bambina che andava incontro al suo avvenire di cui non riuscivo a immaginare gli orizzonti umani.
3
Dopo la scuola, quando terminavo presto, nell’attesa che Caterina facesse ritorno a casa per il pranzo, passavo dal bar dei miei suoceri per un saluto, prima di rientrare. Rimanevano sempre molto soddisfatti delle mie visite, come se vedessero confermata in quell’attenzione per loro una delicatezza rivolta alla memoria della figlia. A volte incontravo il vecchio sindaco, delle passate amministrazioni, che mi salutava con un movimento grave della mano: lo sguardo avvolto entro un’ombra di dispiacere, quasi per voler fare mostra di un disagio vero e profondo che la morte di Emma aveva provocato anche in lui. Sotto la sua amministrazione mia moglie aveva sostenuto e vinto il concorso per ricoprire il ruolo di responsabile dell’ufficio tecnico del Comune.
Rispondevo a quel cenno della mano con un sorriso compiuto e misurato, che voleva essere un segno di riconoscenza e gratitudine per la sua vicinanza e il suo affetto rivolti alla nostra famiglia, anche se come segno di stima che aveva riservato a mia moglie, da viva allora e da morta adesso, nella sua funzione di ingegnere del Comune.
Rimanevo il tempo necessario per alleggerire i pensieri, poi rientravo a casa.
In quei giorni, Caterina era particolarmente turbata, mostrando tutta una serie di atteggiamenti di insofferenza, di cui non riuscivo a capire la necessità. Era piuttosto evasiva anche nelle risposte che dava alle mie domande. Un pomeriggio, la vidi arrivare nel salotto, mentre ero intento nelle mie letture. Mi chiese quale fosse il motivo per cui nella nostra casa avessimo lasciato vuota la stanza da letto.
Non mi sembrava che dovessi dare una risposta a una domanda tanto impegnativa, anche perché avrei dovuto rendere conto di tutte le ferite che rinnovava in me la vista di quelle pareti e quel letto disadorni. Come avrei potuto spiegare le paure e le fragilità che quell’angolo di casa riaccendeva in me?
«Papà, hai capito che cosa ti ho chiesto?» insisté, con lo sguardo fisso.
«Certo che ho capito, Caterina. Ma ti chiedo di chiudere l’argomento, perché non ho parole efficaci per risponderti.»
«Perché? Mi nascondi qualcosa?»
«Caterina, stai esagerando» dissi in maniera più che opportuna, dal mio punto di vista. «Non ti nascondo niente. Non l’ho mai fatto!»
«Va bene!» replicò, con un’altra decisione: «Allora, se a te non serve più quella stanza la occupo io!»
Venni colto da un forte spavento che mi bloccò il respiro, mentre negli occhi si ripresentò l’immagine di Emma sul letto di morte.
«Che cos’hai?» chiese mia figlia, con la