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Ti Lovvo
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E-book196 pagine2 ore

Ti Lovvo

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Info su questo ebook

Roma, anno scolastico 2004/05.

Samantha “Ghetta” Ghettari, un’adolescente timida e introversa, ama follemente il suo compagno di liceo Davide “David” Puccini, dal carattere inquieto e ribelle. Mentre le settimane si susseguono alla scoperta l’uno dell’altra, la loro storia d’amore viene bruscamente interrotta dall’inconfessabile segreto che David porta con sé. D’improvviso, i due protagonisti saranno messi di fronte a un inevitabile confronto, che li porterà a scontrarsi con la domanda più difficile per tutti gli amanti di ogni epoca: siamo veramente capaci di amare e di lasciarci amare per quello che siamo?
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2016
ISBN9788822864314
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    Anteprima del libro

    Ti Lovvo - Loris Daitona

    Loris Daitona

    Ti Lovvo

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    .

    CAPITOLO PRIMO

    Ecco, arriva la notte. La sento.

    È una di quelle notti che odora di tutte le notti. Dagli alberi fronduti, che si stagliano in lontananza su un tramonto silenzioso, appare una luna pallida. Percepisco l'eco del nulla. L'aria è sottile e sa di vetro. L'ultima luce mi avvolge in un tutto lucente. Io non credo negli astri, nel fato o negli oroscopi, eppure credo che ci sia c'è sempre un filo che unisce, un qualcosa che ci indica la strada. Lo dice anche Lui e se lo dice Lui non può essere poi tanto sbagliato.

    Posso sentirlo nel tuo bacio / o vederlo nelle stelle / Io non credo nella magia / ma conosco solo chi sei tu / e non ti lascerò andare / perché tu mi hai dato una ragione per restare, restare, restare...

    Restare non è scontato. Restare non è automatico.

    Restare non è un gioco. Mi dicono sempre che sono una sognatrice, che non sto mai con i piedi per terra, che non sono concreta o concentrata. Ma la verità è che questo posto non è fatto per me. Io vorrei andarmene via di qui, vivere nelle Sue canzoni e lasciarmi dietro tutto… questo come un incubo, nell'oblio del rumore bianco.

    Via dai compiti della domenica sera.

    Via da mia madre che sa solo dirmi cosa non va e cosa non devo fare.

    Via da tutte quelle oche invidiose, piene di livore e veleno.

    Via dal senso di vomito, dal chiasso e dalla nausea.

    Via da questo mio corpo che non riesco a controllare.

    Via dalla mia testa che mi riempie di ansie, di aspettative e paure.

    Via da questa scuola che ha la pretesa di insegnare

    qualcosa, ma che invece ha ancora tanto da imparare.

    Via dalle restrizioni il sabato sera, quando Snody e Fox mi dicono di uscire e io col cazzo che posso uscire.

    Via da questo buco di mondo che chiamano Acilia, e via pure da Riano, periferia dimenticata da Dio, in cui vive mio padre.

    Via dai sensi di colpa, dalle repressioni e da questo mondo

    che gira senza sosta e non tiene in considerazione me...

    Eppure dopo aver visto lui non voglio far altro che restare. E pensare che basterebbe così poco affinché tutto potesse andare bene. Basterebbe che quei suoi occhi incrociassero il mio sguardo almeno una volta, che quel sorriso sorridesse per me anche solo per sbaglio, che quelle sue mani si posassero sulle mie anche solamente per un istante.

    È stato improvviso e inaspettato, è stato un fulmine a ciel sereno. Ero appena scesa dal treno e stavo superando i cancelli del Liceo quando lo vidi tagliarmi la strada con quel suo passo felpato, con quella sua andatura lievemente piegata in avanti, con quei suoi capelli disordinati che cadevano sui suoi occhi verdi a ciocche scomposte, con la sua giacca di pelle nera sopra una maglietta un po' sgualcita dei Metallica. Ho saputo soltanto che fa il quinto, che è appena arrivato a Roma, che gli piace il metal e che il suo nome è Davide. E questa potrebbe essere solo una coincidenza, un gioco astrale e nulla di più, eppure credo che ci sia qualcos'altro. Lui, Davide, dagli amici detto David, ed io, Samantha Ghettari, dagli amici chiamata Ghetta. Il fatto che i nostri soprannomi messi insieme formino il nome del mio artista preferito di sempre non può essere solo un caso: è un segno del Destino... Io e lui, David e Ghetta... Sarebbe un sogno e sarebbe bellissimo... Dentro di me io so / che noi ci apparteniamo.

    Il tramonto aveva lasciato il posto a una luna piena, di quelle così luminose che non lasciano vedere le altre stelle nel cielo. Samantha, nella sua tana al riparo dal mondo, rileggeva con attenzione le ultime frasi che aveva appena scritto nel suo blog, chiamato da lei con tanto orgoglio: Blog ergo sum, dopo che l'anno precedente si era appassionata alle lezioni di filosofia della Prof. Domenici, l'unica prof. che avesse mai stimato e che, come tutte le cose belle della sua vita, era rimasta giusto il tempo necessario affinché lei si affezionasse per poi cambiare scuola l'anno successivo. L'abbandono... Ecco la cosa di cui avrebbe dovuto scrivere nella lista del suo blog. Quello che le faceva più paura in assoluto era la sensazione di essere abbandonata dalle persone care, tanto che il suo sogno ricorrente era di trovarsi da sola nel mezzo di una città fantasma e le scene dei film in cui si metteva sempre a piangere erano quelle in cui i protagonisti sono costretti a salutarsi in aeroporto.

    Proprio lei, Samantha, che si sentiva brutta e inadeguata nei confronti del mondo, ma che in realtà nascondeva un potenziale forte in quelle sue mani piccole ma affusolate che la nonna diceva erano adatte a suonare il pianoforte, in quei suoi occhi da cerbiatto che tanto piacevano al papà, il quale sosteneva fossero un dono di famiglia, in quella sua determinazione e caparbietà che l'aveva sempre resa una rompiscatole a detta sia della mamma che della matrigna, in quelle lentiggini sparse tra le guance e il naso che l'avevano sempre fatta sentire una diversa tra i suoi coetanei. La sua vita era sempre stata segnata dall'abbandono, a partire proprio dalla sua infanzia quando, a soli tre anni dalla sua nascita, i genitori avevano deciso che il loro amore era finito e che era meglio allontanarsi il prima possibile, prima che il loro rapporto si incancrenisse e facesse del male a quella piccola creatura nata dalla loro unione, che all'improvviso si sentì sballottata da una parte all'altra di Roma come un pacco postale, il primo e il terzo week-end del mese dal padre a Riano, paese a nord della Capitale, dove ad accoglierla c'era stata subito un surrogato della mamma con dei marmocchi - che suo padre diceva fossero i suoi fratelli - ma con cui lei non aveva assolutamente nulla con cui spartire, mentre il resto dei giorni stava ad Acilia, da una mamma sempre più nevrotica e isterica che doveva badare a lei e alla sua piccola sorellina, nata da una relazione di dubbia chiarezza, e contemporaneamente portare a casa lo stipendio.

    Papà non è mai puntuale con gli alimenti. Era la frase che la piccola Ghetta si sentiva ripetere in continuazione dalla mamma, anche se per lei la parola ‘alimento’ era semplicemente il Flauto Mulino Bianco o i vasetti colorati del Fruttolo. E come se non bastasse l'unica nonna a lei rimasta - proprio la stessa che sognava per la nipotina un futuro da pianista - era morta una sera di gennaio, rendendo quell'inverno ancora più rigido. E Samantha era venuta su così, cresciuta con molte figure parentali attorno - ma tutte distratte o non adeguate - più matura della sua età, ma anche più fragile e più sola. E così la decisione di aprire quel dannato Blog Ergo Sum, più per sfogare i suoi turbamenti che per un bisogno egocentrico o narcisistico, tanto che nessuno dei suoi amici ne era a conoscenza, nemmeno Fox e Snody. Le piaceva quella sensazione di scrivere parole sul web che chiunque avrebbe potuto leggere, ma che nessuno avrebbe potuto ricondurre a lei. Poteva insomma gridare quello che voleva senza che nessuno le dicesse di stare zitta... E tutto questo la eccitava, la divertiva. Senza contare che quello era indubbiamente un buon esercizio, mentre aspettava il momento in cui avrebbe scritto il primo romanzo che l'avrebbe fatta diventare una vera scrittrice...

    Ghetta buttò un occhio fuori dalla finestra mordendosi l'unghia dell'indice, un brutto vizio che non riusciva proprio a togliersi. Rilesse le poche frasi che aveva appena scritto e scuotendo la testa iniziò a cancellare una serie di parole... alberi fronduti, l'eco del nulla, rumore bianco, tutto lucente. Perché aveva scritto quelle stronzate? Che cosa significavano quelle espressioni? Erano vuote e prive di anima, non comunicavano assolutamente nulla e lei odiava le cose che non riuscivano a comunicare. Certo, forse voleva mostrare a se stessa e ai suoi potenziali lettori quanto lei fosse brava, ma a quel punto era tutto una menzogna... Come poteva esprimere le emozioni con le parole, così inadeguate per raccontare le sfumature dei suoi sentimenti? Forse si doveva dare alla fotografia come Fox, o alla danza come Snody? O forse certe inclinazioni non sono traducibili in alcuna forma d'arte?

    Non riusciva a capirlo. Sapeva soltanto che si era innamorata. Sì, forse la parola corretta era proprio quella: semplice, essenziale, pulita. Non aveva bisogno di ulteriori aggettivi o spiegazioni per comprenderla. Aveva visto quel ragazzo quella mattina e il suo cuore aveva iniziato a battere così forte, che per la prima volta nella sua vita Ghetta sapeva cosa volesse dire avere un cuore.

    David e Ghetta, Ghetta e David...

    Distrattamente chiuse la finestra del suo blog, non aveva più voglia di mettersi a scrivere o a correggere. Ormai si era fatta ora di cena, ma la mamma aveva il turno di notte e la sorellina al momento era con quello che, almeno in teoria, sarebbe dovuto essere il padre. Sarebbe dovuta scendere in cucina e mettere il piatto a scaldare nel forno a microonde; tuttavia prima doveva ancora finire di studiare un paragrafo di storia. Ma proprio non le andava: né di mangiare, né di studiare. Così si distese sul suo letto a una piazza e mezzo e rimase a fissare le pareti della sua tana, come a lei piaceva chiamare la sua cameretta, una specie di tempio pagano in cui spiccavano reliquie pop alle pareti, tra cui il poster di Ryan della serie TV O.C., un cartonato di Britney Spears, una lunga fila ordinata di scarpe, foto ricordo sparse ovunque, una modella di Guess mezza rovinata, una maschera di plastica raffigurante Leonardo Di Caprio, un adesivo del film Titanic e soprattutto quel CD,

    Guetta Blaster, comprato a Lione soltanto qualche mese prima, in un luglio che sembrava distante anni luce, quando per la prima volta aveva scoperto cosa volesse dire scatenarsi a ritmo di musica, sulla spiaggia a piedi nudi. E quel ragazzotto francese, DJ improvvisato, che le aveva detto che tutte quelle canzoni, sulle quali lei aveva ballato, sognato e riso per l'intera estate, appartenevano a una sola persona, David Guetta... Guetta, proprio come lei. E queste non potevano essere semplici coincidenze.

    Quando riaprì gli occhi erano le 2 del mattino. Ghetta era ancora vestita, distesa sul letto in posizione supina e tra le braccia stringeva Dolly, il peluche a forma di cane con il quale da piccola non si separava mai nemmeno per andare in bagno. I peluche , quando si cresce, andrebbero tolti dalla propria cameretta e messi in grandi scatoloni dentro cantine buie - sennò che senso avrebbero le cantine? - e dovrebbero diventare quegli oggetti che quando li ritrovi ti fanno venire in mente la tua infanzia, e nulla di più. A questo pensava Ghetta stropicciandosi gli occhi e posizionando Dolly sulla sedia a dondolo di legno, insieme agli altri peluche che aveva ricevuto per regalo dai vari ragazzetti che nel tempo si erano innamorati di lei. Perché i ragazzi regalano alle ragazze sempre i peluche ? Che cosa avrebbe pensato David vedendola abbracciare quel pupazzo? Che era solo una stupida ragazzina?

    Quasi come una sonnambula Ghetta sia alzò dal letto. L'anta del frigorifero emise un cigolio simile a quello delle porte nei film horror, e la lucetta interna si accese illuminando il viso di Samantha. La mamma le aveva lasciato purée e fettina panata da riscaldare nel forno a microonde, ma a lei di mangiare patate in poltiglia e residui di animali morti non ne aveva alcuna voglia. A scuola c'era un tipo che tutti chiamavano Zorro per via del suo abbigliamento dark e della sua capigliatura a leccata di mucca, che era un convinto vegetariano, e più volte a Ghetta l'idea di diventarlo era balenata nella mente. A fermarla era sempre stato il fatto di dover spiegare ai suoi genitori la sua scelta - specie sua mamma che ribadiva sempre Sammy, quando hai le mestruazioni hai bisogno di più ferro e devi mangiare carne! - e vederla trattata come una povera idiota, un'aliena, una bambina che non sa nulla del mondo. Esattamente come quando ogni volta cercava di esprimere un suo parere.

    Ghetta agguantò il cartone del Granarolo Accadì, alta digeribilità, senza lattosio inferiore allo 0,01%, com'era riportato sull'etichetta, che la mamma comprava sempre sostenendo di avere problemi a digerire il lattosio anche se, secondo Samantha, non era vero e lo diceva solo per evitare di ingrassare con il latte intero. Dalla credenza prese una ciotola capiente che riempì per la metà di quel liquido bianco al sapor di latte e per l'altra metà di cereali Kellogg’s Special Key Red Berries, che la mamma comprava sempre sostenendo che le piacessero i frutti rossi, ma Samantha era piuttosto convinta che lo facesse soltanto perché nella réclame che passavano alla TV la modella dello spot diceva che quei cereali erano adatti ad una colazione ricca ed equilibrata poiché, come c'era scritto sulla confezione, 100 g di prodotto senza latte contenevano soltanto 7g di proteine, 84g di carboidrati (di cui 8 di zuccheri e 76 di amido), 0,9g di grassi (di cui 0,2 saturi), 3g di fibre, 0,5g di sodio, 1,3g di sale, insieme alle vitamine D, B1, B2, B6, acido folico, B12; tutte sostanze dall'indubbio valore nutrizionale ma che, secondo Ghetta, non rappresentavano un motivo sufficientemente valido per preferire i Kellogg's a un cornetto alla crema appena sfornato dal Vapoforno.

    A Samantha tutta quella storia della linea, dei grassi e delle diete - che a dire il vero per molte sue compagne erano un punto dolente - non toccava minimamente,

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