Lascia che il mare entri
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Storie che provano a restituire voce alle ragioni ammutolite dalla Storia scritta. Storie del tradimento di saperi, dell’inganno del progresso mercantile, del grande affare delle guerre, della rottura del patto con la vita e del prezzo per non averne difeso le condizioni. Storie di sfiduciata resistenza, di subordinate aspettative, di imprevidenza di morte per vanagloria di crescita illimitata.
Tre donne che si passano il testimone nel racconto del rapido consumarsi della civiltà dell’illimitato sfruttamento di ogni risorsa. La stessa che continua a promettere futuro, felicità e benessere, a vendere il proprio modello a chi oggi ne sta seguendo le orme, dopo aver brutalmente compromesso con i suoi punti di non ritorno la riproduzione di un’impronta umana nella vita del pianeta. Dopo aver sterilizzato nei registratori di cassa libertà, diritti, comunanze e mascherato la sua offerta di ogni miseria con gli ammiccamenti alle virtù della sudditanza.
Tre donne che chiudono in un circolo virtuoso le battaglie di una manciata di generazioni per mantenere il senso di sé e il legame con i fondamenti dell’esistenza. Nel silenzio, nell’ascolto, nella riconoscenza verso chi ha tracciato un percorso forse ancora praticabile.
Barbara Balzerani, nei primi anni Settanta milita in Potere operaio, poi nelle Brigate rosse. Al termine di una lunga latitanza viene arrestata e sconta 25 anni di carcere. DeriveApprodi ha pubblicato tutte le sue opere, tra le quali, Compagna luna, Lascia che il mare entri, L’ho sempre saputo.
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Anteprima del libro
Lascia che il mare entri - Barbara Balzerani
narrativa
28
© 2021 DeriveApprodi srl
tutti i diritti riservati
DeriveApprodi srl
piazza Regina Margherita 27, 00198 Roma
info@deriveapprodi.org, www.deriveapprodi.org
Progetto grafico: Andrea Wöhr
Impaginazione e realizzazione digitale/Plan.ed
www.plan-ed.it
ISBN 978-88-6548-386-2
Barbara Balzerani
Lascia che il mare entri
Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto,
l’ultimo fiume avvelenato,
l’ultimo pesce pescato,
l’ultimo animale libero ucciso,
vi accorgerete che non si può mangiare il denaro.
piede di corvo – siksika – piedineri
Mi sveglio di lunedì.
Se solo sapessi come fare ricomincerei. Potrei spalancare la porta e cogliere di sorpresa il mondo di fuori. Lo faccio e mi ritrovo in uno dei cerchi di Babele senza un codice, né un alibi. Nessuno più a pretendere il rispetto di un obbligo, nessuna porta carraia a imporre la direzione.
Di troppa aria si può soffocare.
La testa è leggera ma non libera. I sensi, ognuno per suo conto, sconnessi dal mio sentire. Quello che vedo non mi mette al corrente, quello che annuso non mi ricorda, quello che tocco non ha forma.
Disabitudine al corso breve della vita. Alle giornate con le chiavi in tasca. Mi dico che se provo a stare in superficie forse non annego. Che i filamenti della memoria non mi tireranno giù se mi concentro sui particolari.
Vado al mercato. La borgata mostra ferite antiche, tra cumuli di ingiustizie accanite. Giro tra i banchi e le cassette di merci. Confronto prezzi e colori ma le facce raccontano storie e la materialità dell’odio dei potenti si fa strada fino a riempire la scena. Le ragioni d’esistenze umiliate, tutte presenti.
Il viaggio, anche a bagaglio ridotto, riprende. Ancora sospinta tra rovine e futuro dalla stessa tempesta che impigliava le ali dell’angelo della storia.
Da capo. Ancora più indietro.
Tante le stazioni, diversi i paesaggi e gli accenti. Ogni volta un approdo che sembra buono, fino a sentire l’argine franare sotto l’impazienza dei piedi. A pensarci, da tanto non so più da dove vengo. Forse da una barca portoghese di pescatori di corallo lungo le coste della Calabria. Forse dai monti del biellese con gli eretici di Dolcino sfuggiti all’inquisitore. O dai fecondi altopiani kenioti, in fuga dai predoni bianchi.
Le vicende del mondo mi sono entrate dentro, mi hanno attraversata come una carta geografica aperta, e mi sono ritrovata in ogni Vietnam senza attraversare nessuna frontiera. In ogni piega della grande avventura umana ho messo su casa, orientando la porta d’ingresso verso la sorgente del sole. Sapevo di essere sulla strada e non volevo farmi trovare da un’altra parte quando sarebbe arrivato il futuro. Quei raggi di ogni dove mi hanno raggiunta, contaminata. L’anima ne è uscita tanto solcata da poterci passare le dita dentro e la pelle scurita, ispessita, meticcia.
Ancora incompiuto il racconto.
Tre generazioni di donne per riallacciare il filo delle mie origini incerte.
Il richiamo dell’uccello la incalzava, ogni mattina che non era ancora l’alba. Una specie di singhiozzo strozzato, scandito dal rintocco martellante di una sveglia di caserma. Lei, mia madre ragazzina, lo inglobava nelle nebbie del dormiveglia, ma quello alzava il tono e cominciava a penetrare nella resistenza dell’ultimo sogno. Quando provava a scacciarlo dalla mente ormai era troppo tardi. Con gli occhi chiusi a forza, si accorgeva di aspettare l’arrivo del grido successivo per mettersi al passo del suo ritmo. Così perdeva il poco sonno d’avanzo prima dell’ora giusta, insieme allo sconfinamento delle sue fughe notturne.
Inutile resistere.
Tornava alla veglia come venuta da un altro mondo, da un’altra vita. Doveva fare in fretta il riepilogo dei suoi passi per ricordarsi chi era e dove si trovava. Riconosceva l’ordinario dei suoi giorni tra le ombre della stanza gelida e si sentiva priva di forze. Un’altra giornata iniziava e lei, a quell’ora, non trovava motivi per condividerne la ragione. Riusciva a mettere da parte lo sconforto solo col pensiero di fare a pezzi l’ottuso pennuto. Di colpo tirava via le coperte e metteva i piedi a terra. Il freddo, quel maledetto freddo che si portava dentro da quando aveva lasciato la calda cavità materna, le irrigidiva i muscoli e il cervello.
Si guardava attorno nella stanza, quella delle figlie femmine, piena di letti e armadi. Soffitto alto, mura che chiedevano pittura fresca, odore di muffa antica. Dall’alto finestrino penetrava il riverbero riflesso della neve all’esterno. Inutile accendere la lampada che mandava una luce tremolante e più fioca. Tra le ombre di quella camera spesso aveva incontrato i suoi fantasmi d’infanzia, ne aveva avvertito la vicinanza sulla pelle e il lamento, gli scatti di rabbia, le bestemmie. O un benevolo segno di consolazione per qualche ingiustizia di troppo. Anche quando sentiva attorno il respiro regolare delle sorelle le capitava di percepire presenze che la mettevano a parte di rivelazioni inconfessabili. Al risveglio, nessuno avrebbe creduto a quelle verità. Vere solo di notte. Solo per lei, tanto che pensava di essere l’unica a vivere la separatezza di quella dimensione esclusiva e teneva intimamente per sé il privilegio di maggior sapere che quegli incontri le lasciavano. Visionario, prezioso alimento per la sua inconfessabile inquietudine.
Al mattino riprendeva le misure del quotidiano in quella che più di una stanza sembrava un deposito di mobili scompagnati. Ma per dormire andava bene. La vita, allora, stava poco dentro casa.
Un piede dopo l’altro a saggiare il pavimento sconnesso, le braccia racchiuse intorno, il collo incassato e il corpo piegato a difesa. Il cuore, il suo piccolo cuore, già pieno di obblighi. Entrava nella sua giornata come in una trincea. Ma in tante ristrettezze qualche vantaggio c’era e il fatto che, uscita dal letto, fosse già quasi vestita non era da poco per convincerla a lasciare il conforto notturno. La sera si lasciava addosso maglia e calze di lana per riuscire ad addormentarsi sotto le lenzuola bagnate di umidità. Al mattino non restava che infilare i piedi negli scarponi slacciati e di corsa fuori, verso il bugigattolo che serviva da gabinetto. A quell’ora lo trovava spesso con la porta chiusa e con qualcuno dentro. Meglio accucciarsi tra l’erba che restare ad aspettare là fuori. L’aria gelida, sapeva di erba bagnata. Tra il vapore del suo fiato affannato, intravedeva i primi colori del giorno. Entravano dentro di lei e se li sarebbe ricordati negli anni a venire. Al momento non erano così straordinari da riempirsene l’anima.
Sentiva freddo. E fame.
Sempre di corsa entrava in cucina. Il fuoco era ormai spento ma il tepore si sentiva ancora. In tutta la casa, solo là si sentiva. I maschi già tutti fuori sui campi e poteva capire cosa si erano portati per pranzo dall’odore degli avanzi della cena riscaldata. Turandosi il naso, buttava pezzi di pane nel tazzone di latte, facendo lo slalom col cucchiaio tra i disgustosi pezzi di pellicola che si erano formati con la bollitura. Doveva mangiare anche quelli – non si discuteva!- che non si doveva buttare niente. Quante volte era riuscita a sfuggire al controllo e a liberarsi di quello schifezza molliccia? Sempre c’era riuscita.
Su un angolo del tavolo era ancora posato il suo quaderno dei compiti della sera prima. Le piaceva andare a scuola, soprattutto per il maestro, erede di sangue