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Come una nuvola
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Come una nuvola
E-book142 pagine2 ore

Come una nuvola

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Info su questo ebook

Mentre Rosaspina e Giorgia, due bambine ancora piccole e molto diverse fra loro, giocano insieme, le loro madri, entrambe maestre, si confidano: Margherita ha infatti bisogno di sfogarsi e di raccontare a qualcuno cosa le è successo, e perché ha tradito il marito. È conosciuta da tutti in paese: una donna bella, gioiosa e affascinante ma anche sfacciata e difficile da catturare. Scontenta di un marito noioso e abitudinario, Margherita viaggia, come una nuvola che non sta mai ferma né ha alcuna forma definita, e ha diversi amanti pur senza mai riuscire a trovare davvero l’amore di cui ha bisogno. Fino all’incontro con un capitano di nave…
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2018
ISBN9788863938487
Come una nuvola

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    Anteprima del libro

    Come una nuvola - Mariagrazia Pia

    Parte prima

    Nella gabbia

    Capitolo I

    I ricordi di Rosaspina

    L’aula era piena di gesso, dell’odore del Pongo e delle tempere. L’ora di disegno appena finita, i bambini avevano lasciato come sempre il lavandino sporco di colori. La maestra si attardava a riordinare ancora un po’, per aspettare la collega e cercare un buon motivo per trattenersi con lei. Fuori il grembiule azzurro scuro, il gesso e i colori, dentro la certezza di poter consolare sentendosi al sicuro.

    Margherita entra, gli occhi gonfi di pianto trattenuto per non far agitare i piccoli scolari: le madri contadine non piangono di fronte ai figli, forse non piangono per niente. Sono donne diverse da quella maestra cittadina, che veste elegante e non parla dialetto. Usa profumi intensi, un trucco pesante e indossa gioielli ogni giorno, non solo la domenica in chiesa. Si veste meglio di quelle mamme alla comunione dei figli, ma sembra più triste di loro ai funerali: piange davvero, non si sforza per opportuna circostanza; si nasconde, si vergogna. Intimorisce i suoi studenti, benché non li rimproveri severamente. Sembra sempre lontana: quando li sgrida, i bambini non capiscono mai, lì per lì, cosa abbiano fatto di male. Non sanno che tutto dipende dalla notte che ha trascorso.

    Margherita cerca la collega per salutarla. Non per educazione, ma per il bisogno di raccontarsi. Ancora una volta ha sbagliato, ancora una volta ha abbandonato a casa la sua bimba febbricitante per cercare un po’ di amore tra le braccia di un uomo. Un uomo infastidito dalla sua ansia di tornare a casa dalla figlia malata. Quella figlia con i suoi stessi occhi azzurri, grandi, acquosi. Sembrano un lago sotto un cielo sempre grigio, quegli occhi spalancati a trascinare dentro chi li guarda.

    A volte Margherita, per poter parlare di più con l’amica, portava la piccolina a giocare con la figlia coetanea della sua collega: Rosaspina. Non è il suo vero nome, ma lei ha voluto, per gioco e per affetto, chiamarla così, per legarla un po’ a sé, come una figlia adottiva, una liberta dell’antica Roma, su cui resta traccia del patrono. Rosaspina: il nome di un fiore che sappia ferire e non solo farsi strappare lo stelo. Per il gioco di una cantilena, per una conta infantile, un «m’ama, non m’ama», i petali sono tutti a terra, e il fiore è servito solo a sfidare l’amore, non a meritarlo.

    La maestra aveva fatto dono alla bambina del volume illustrato di Rosaspina: sfogliando i disegni ancora troppo complicati per i suoi quattro anni, la bambina vedeva una ragazza in fuga, con i neri capelli impigliati ai rami; non lesse mai il libro, né se lo fece leggere dalla madre, ma le rimasero impresse le immagini e, forse, la passione per le fiabe tristi.

    Dalla finestra da cui sogguarda la vecchia bidella, che abita nella casa cantoniera lì di fronte, le due donne sembrano intente a parlare mentre rassettano, svuotano bicchieri di acqua e di colore, puliscono pennelli, riordinano i banchi. La bidella osserva diffidente quelle donne istruite, ma non precise quanto lei a pulire e a mettere in ordine. Vorrebbe sentire quel che dicono, ma non riesce a leggere su quelle labbra che parlano in italiano. Se fosse dialetto, non le sfuggirebbe nulla. Per questo è così diffidente: non ha la situazione sotto controllo come con le vicine, di cui intercetta ogni parola.

    Mentre finge di pulire il cortile vicino alle finestre, le scorge assorte: Margherita racconta concitata mentre l’amica la consola come può. Dai loro gesti, la bidella intuisce che fingono di mettere in ordine: parlano, e neppure della scuola, perché in quel caso non gesticolerebbero tanto. Chissà cosa si staranno dicendo. La bidella non pensa si tratti di uomini. Gli unici uomini della sua vita sono il marito (un becchino, che non porta allegria nella casa) e il figlio poliomielitico che, in bella calligrafia, scrive meravigliose pagine di ringraziamento per i suoi benefattori. Lei non ha mai avuto capricci e non immagina che altri ne possano avere. Crede, però, di indovinare discorsi di soldi, di carriera e pettegolezzi sulla direttrice della scuola.

    È tardi, è ora di preparare la cena. Le due maestre, infervorate ma sorridenti, escono dall’aula, che finalmente la bidella può chiudere e lasciare al silenzio della notte, dei gufi e dei pipistrelli che svolazzano fuori dal solaio.

    Ha raccolto il bucato: perfetto. Lava i panni a mano ogni giorno. Non ha una lavatrice: lo stipendio da dipendente comunale non le permette lussi del genere. Nessuna donna del paese può vantare tanta pulizia: gli abiti e la biancheria saranno anche lisi, ma restano comunque impeccabili.

    Il grembiule un tempo nero che porta sopra gli abiti consunti presto sarà bianco. Si è sbiadito poco per volta, come la sua vita: ancora pulita, senza mancanze, senza peccati, solo ingrigita da una punta di invidia e un pizzico di pettegolezzi, come quella di tutte le donne del paese. Deve stirare, dopo cena, e deve fare attenzione al calore imprevedibile. Non le è permesso distrarsi. Non come quelle maestre che hanno troppi elettrodomestici e troppo tempo libero.

    Se avesse saputo ascoltare o leggere sulle labbra le parole in italiano, avrebbe capito che Margherita raccontava la fine del suo matrimonio, l’inizio della sua vita allo scoperto, come una ferita che si crede di mostrare meno senza fasciatura. Se solo avesse potuto capire, la bidella non avrebbe avuto rispetto per quella maestra senza onore.

    Chi aveva sentito, invece, era Rosaspina. All’inizio aveva ascoltato senza interesse parole che le suonavano insensate. La sua memoria, però, le aveva registrate e, più tardi, le avrebbe ricordate come un ammonimento. Anni dopo quel racconto, riposto tra i suoi ricordi – una vecchia coperta tarlata, preziosa, danneggiata più dalla protezione che dall’uso consueto –, avrebbe rivisto la luce del sole, rattoppato dalla sua memoria.

    Una sera, sola in un albergo senza il marito – troppo indaffarato con la sua carriera in banca o con la giovane ragioniera –, Margherita aveva casualmente incontrato un ex fidanzato di dieci anni prima. Quasi una vita. Forse due. Quando i loro sguardi si incrociarono nell’atrio e si ripresero su per le scale, Margherita non poté fare a meno di chiedergli: «Cosa ci fai qui in montagna? Una vacanza da solo? Con una donna?».

    «No. Aspettavo.»

    «Aspettavi cosa?»

    «Che capitasse qualcosa. E mi sei capitata tu. Nella mia stanza?»

    Se fosse un ordine, un desiderio, un beffardo invito o una richiesta di aiuto dietro lo sguardo triste, Margherita non sapeva dirlo. Accettò senza pensare alle conseguenze. Non intendeva dare svolte alla sua vita: era in albergo per riposarsi. Eppure entrò in quella camera con naturalezza, come fosse un appuntamento, come se non fossero passati dieci anni dall’ultimo bacio.

    Era talmente naturale da sembrare sfacciata. Entrò senza cautela, come se ne avesse diritto: era solita sbagliare come se stesse facendo la cosa giusta, e sceglieva la cosa giusta temendo di sbagliare, perché in lei, per una strana ragione, il pensiero e l’azione non volevano collaborare.

    Margherita raggiunse il fidanzato di un tempo con la leggerezza del vento, che riempie di sé la stanza e poi ne esce senza sapere di aver creato disordine.

    Era troppo tardi per chiudere le finestre: la fedeltà al marito, prezioso soprammobile al centro della stanza, era in frantumi per sempre. Lo aveva lasciato così esibito, per anni, a dominare tutto l’ambiente, lo aveva mostrato come un trofeo, finalmente sicura di sé, sposata, una signora al riparo dalle tentazioni. L’invito di quella sera non sembrava una tentazione: Margherita aveva girato la sua corolla verso l’unico raggio di sole in una giornata di noia, tanto incurante del male da sembrare innocente. Tutto qui.

    Chiusa la corolla al freddo della notte, nella solitudine di un letto vuoto, si ricordò che essere moglie vuol dire dormire con qualcuno sempre accanto, qualcuno che occupa il tuo letto, la tua vita, e che ringrazi dell’ingombro.

    Margherita non aveva imparato ad apprezzare l’abitudine: esigeva da sé e dagli altri la stessa freschezza di un fiore nella rugiada del mattino. È la sfida di una vita, non la fortuna di un incontro, ogni giorno provare a essere per l’altro quello che cerca. Sapere che la gioia è cambiare, modificarsi, non come di fronte a uno specchio, ma scoprendosi continuamente, creando e insieme mutando forma, come le nuvole plasmate dal vento. Terribile incontrare la persona giusta: non si sa perché vivere una vita in due. È finita prima di iniziare.

    Per Margherita, invece, era importante trovare una persona così innamorata della vita da iniziarla come una sinfonia: mettere in conto di fallire, ma per ricominciare a essere musica seppur dissonante nello sbaglio, nel dolore, nei rimpianti.

    Questi pensieri si affollarono in una Rosaspina adulta, mossi da quei ricordi di parole, di pianti, di errori evitabili, quando, anni dopo, con la stessa concezione d’amore di Margherita, sarebbe stata lei stessa una nuvola sfilacciata e sconquassata dal vento: quelle parole tra le due maestre le tornarono utili per riannodare la propria storia, senza volere ammettere che non era la stessa di Margherita, non aveva la medesima volontà, né simili le tentazioni.

    Rosaspina ricordava Margherita come una donna spiritosa, non disperata o delusa. Sapeva coinvolgere i colleghi di scuola con la sua ironia, sapeva vedere, anche nella persona più seria e compassata, il bambino pronto a giocare, accettando che tutti avessero scoperto il suo gioco. Era questo forse che la rendeva così seducente a occhi adulti: sapeva passare dalla tensione della disperazione al sollievo di un cielo d’estate, con risate spontanee, contagiose per tutti. Non era sempre la donna perduta che in paese guardavano con sospetto come un tempo le streghe di quei luoghi, le masche, come le chiamavano nel Monferrato.

    Un giorno, Margherita si prese gentilmente gioco di Silvano, un collega compassato, serio, devoto alla moglie graziosa, ma di piccola statura, sempre a posto, al suo posto, quello che Margherita non sapeva neppure dove fosse. Appena la riunione con la direttrice terminò, Margherita chiese in modo perentorio a Silvano: «Fammi vedere i calzini!». Come se fosse un ordine legittimo, lui, timoroso, alzò timidamente il lembo inferiore del pantalone e scoprì un imbarazzante calzino corto: le risate di Margherita commentarono per tutti. L’uomo con il calzino corto per lei non sarebbe mai stato una tentazione, mai da corteggiare o da cui essere corteggiate. La sua piccola moglie poteva stare tranquilla.

    Sbalordito Silvano guardò i colleghi. Poi anche lui rise sollevato per quella dispensa dal gioco della seduzione. Tenne con sollievo i suoi calzini corti e li avrebbe scoperti nel remoto caso in cui si fosse sentito in difficoltà

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