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Sono difficili le cose belle
Sono difficili le cose belle
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E-book228 pagine3 ore

Sono difficili le cose belle

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Info su questo ebook

Arianna ha dieci anni e da poco ha perso la nonna.

Un dolore inspiegabile, inimmaginabile, che non riesce a capire e che non sa raccontare, ma la tiene sveglia di notte.

In un pomeriggio come tanti, però, lungo la strada che la sta portando verso il Gianicolo, appare una macchina rossa. E dal finestrino, ecco il sorriso che Arianna conosce benissimo, assieme alla voce che credeva di aver dimenticato. Sua nonna è lì. È tornata per lei.

Ha inizio un incredibile viaggio: nonna e nipote varcano la soglia di un parco familiare, che presto diventa un luogo incantato, capace di portarle in dimensioni lontane, fatte di memoria, immaginazione, sogno, amore. Ogni regola sembra sovvertita mentre, fra entusiasmi e paure, si apre un percorso che è diretto verso il passato, composto da ricordi familiari e personali, verso il presente miracoloso in cui nonna e nipote sono riunite come per magia, e verso il futuro, tutto da scrivere, di Arianna.

Dopo avere raccontato con straordinaria bravura la filosofia e la mitologia greca, Matteo Nucci, al suo quarto romanzo, stupisce i lettori con questa meravigliosa novella fiabesca, nata come dono per le sue nipoti colpite dal lutto, e impreziosita da L’astuccio, un racconto contenuto nel libro come una “bonus track” in fondo a un album o un “pendant” accanto a un quadro, che, con forma e contenuto totalmente diversi, parla della stessa storia.

Sono difficili le cose belle è un romanzo commovente, profondo, che ricorda certi classici “filosofici” amati dai lettori di ogni età, da Il Piccolo Principe a Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, e che fa pensare e sa sciogliere il dolore del cuore grazie all’amore che non muore mai per i nostri cari.

LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2022
ISBN9788830542006
Sono difficili le cose belle
Autore

Matteo Nucci

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega) e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Per Einaudi sono usciti una nuova edizione del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013) e Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno (2020). I suoi racconti sono apparsi in riviste e antologie. Collabora con il Venerdì di Repubblica e l’Espresso. Per HarperCollins ha pubblicato Sono difficili le cose belle (2022). 

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    Anteprima del libro

    Sono difficili le cose belle - Matteo Nucci

    OLTRE LO SPAZIO

    (nel parco sognato)

    UNO

    La macchina rossa

    (Appuntamento al Gianicolo. La Quercia del Tasso. Un maldipancia improvviso. La macchina rossa di tutti i sogni. Una sbalorditiva apparizione.)

    La macchina rossa apparve dalla curva dell’ospedale. La vide ballonzolare sull’asfalto deforme, spaccato dalle radici dei pini. Per un attimo non riuscì a distogliere lo sguardo e le venne da sorridere. Pensò che si trattasse di uno di quei momenti strani, quando hai l’impressione che la stessa cosa ti sia capitata molto tempo prima, assolutamente identica. Fece una smorfia e ricominciò a camminare. Le sue amiche l’aspettavano da qualche minuto, ma la salita era più lunga di quanto avesse immaginato.

    Molte volte si era fermata alla quercia del Tasso. Sua mamma la lasciava lì con sua sorella, mentre parcheggiava lungo la strada dissestata. Tasso. La quercia del Tasso. Lei aveva sempre pensato che fosse un nome qualsiasi finché a scuola non aveva scoperto che esisteva un animale chiamato tasso e allora si era convinta che fosse la quercia dove una volta aveva vissuto un tasso. Solo adesso aveva capito la verità. Le piaceva pensarci. Si ripeteva, in testa, che Tasso era un grande poeta. Lo diceva facendo la voce grossa, la voce altisonante della professoressa che aveva detto: «Ragazzi, il Tasso era un grande poeta!». Tutti erano scoppiati a ridere quando aveva aggiunto che si chiamava Torquato. Ma chi mai si chiama Torquato? Che nome è? Ah, la quercia del grande poeta!

    Aveva imparato a infilarsi lì e salire lungo una stradina che tagliava le curve per arrivare più in fretta al grande piazzale del Gianicolo. Ora, costeggiava la spalletta di legno che affaccia sulla distesa delle case di Roma. Dopo giorni di buio quasi invernale, il bel tempo era tornato. Un sole forte si faceva largo fra i rami dei pini. All’ombra era ancora umido, l’umido di tutte le piogge dei giorni precedenti. Ma al sole si stava bene. Sentì il trillo del telefono. Lo guardò. Gingi, una delle sue migliori amiche le diceva: Ari, ti aspettiamo alla fontanella accanto al bar, ok? Rispose spingendo su una faccina gialla e si rimise il telefono in tasca. Voltandosi vide di nuovo la macchina rossa che saliva caracollando lungo la strada. Procedeva lungo la curva della quercia del Tasso e lei, di nuovo, ebbe quella strana sensazione. Come se la macchina che conosceva così bene la stesse inseguendo.

    Per un attimo sentì un vuoto sotto alle costole, dove tutti dicono che c’è lo stomaco. Ma non era lo stomaco. Era qualcos’altro. Lei, Arianna Pesce, era una ragazza che fin da bambina aveva sofferto di maldistomaco fulminei. Si era abituata. Li conosceva bene. In macchina appena partivano per lunghi viaggi, bastava poco e diceva al padre di accostare, apriva la porta e senza lamentarsi rimetteva tutto quel che aveva mangiato. Se mangiava troppo velocemente le capitava lo stesso. Non diceva nulla, non faceva storie. Non era come tutti i suoi compagni che avevano paura del vomito. Per lei era una cosa normale. Arrivava il maldistomaco, sapeva benissimo come succedeva e non piangeva e non gridava e chiamava sua mamma solo se ne aveva davvero bisogno.

    E così ora sapeva che non era affatto maldistomaco. Assomigliava a quella sensazione che ti prende in aereo quando c’è quello che il pilota chiama vuoto d’aria o turbolenza, allora l’aereo a volte scende di botto e ci sentiamo una cosa forte proprio qui, come se ci tirasse dentro e volesse farci cadere. Ecco. Le sembrava qualcosa di simile. Le sembrava di avere il fiatone. Pensò che era solo la nostalgia per quella macchina rossa che le ricordava la macchina rossa amatissima, la più amata in tutta la sua vita. Ma non doveva star lì a rimuginare. Suo padre glielo aveva spiegato a Natale, quando era stata così triste che non riusciva a godersi nulla dei regali, né delle feste, dei pranzi e delle cene. «Cerca di non pensarci troppo» le aveva detto. «Concentrati e pensa a qualcos’altro. Alla piscina quando nuoti. Alla montagna quando scii. Pensa ai tuoi movimenti. È tutto come un movimento.» Lei non capiva bene e glielo chiedeva meglio, a suo padre. E lui le spiegava che se chiudeva gli occhi poteva sentirsi muovere, sciare, nuotare, riposare. E i pensieri tristi passavano in un attimo.

    Ci aveva provato, una sera che era a casa e non riusciva a addormentarsi. Era piena di tristezza e non faceva altro che toccarsi la collanina e la medaglietta d’oro che aveva al collo. Le veniva da piangere e voleva lasciarsi andare, voleva piangere senza freni fino a farsi coccolare. Ma l’unica persona che poteva coccolarla e farle passare quella tristezza non c’era più. Era in cielo – così dicevano tutti. In cielo. Non poteva coccolarla da lì. Allora lei non trovava scampo alla tristezza e iniziò a tentare quel che le aveva raccontato suo padre. Pensò alle montagne bianche, alla neve gonfia, alle baite di legno chiuse con i ghiaccioli che calano dal tetto. Sentì il rumore dei suoi passi nella neve, un rumore unico, come se si scrocchiassero dei granelli minuscoli e tutto uscisse attutito, ovattato. Nel freddo la sua bocca emetteva boccate di vapore e lei saliva sullo slittino insieme a sua sorella e si lasciavano portare giù attraverso il bosco.

    La mattina dopo lo aveva raccontato a sua mamma, mentre facevano colazione. Le disse che aveva funzionato, aveva funzionato bene il metodo che le aveva insegnato papà. Era così triste la sera e l’idea della neve l’aveva salvata. Sua mamma aveva fretta quel mattino, ma quando la sentì parlare così, si fermò e fece una faccia strana. Mentre posava sul tavolo della colazione una caraffa di latte fumante, mormorò: «Dovrei provarci anche io allora!» e lei la guardò stupita. Anche sua madre aveva quelle tristezze, la sera? Avrebbe voluto domandarglielo, ma l’attimo era passato perché erano arrivate a tavola le due sorelle più piccole e avevano portato scompiglio e lei si era battuta per prendersi subito la fetta di pane più croccante. Aveva sempre paura che Carlotta e Domitilla le sottraessero dalla tavola le parti migliori. Una paura stupida, lo sapeva. L’avevano rimproverata tante volte per quelle reazioni brusche. Ma le veniva spontaneo. Quasi automatico.

    Continuò a salire. Era in ritardo di dieci minuti. Non troppo. Pensava che dalla quercia del Tasso alla piazza ci volesse meno e invece la piazza sembrava non arrivare più. Mentre si affrettava vide di nuovo la macchina rossa. Le era vicina ma non voleva più guardarla. Le faceva troppa nostalgia. Sentiva il rumore del motore. Era ormai quasi al suo fianco. Stava per superarla, quando con la coda dell’occhio la vide rallentare. Provò a voltarsi dall’altra parte. Cercò di guardare i tetti di Roma. Poi si chiuse gli occhi fra le mani e disse: pensa al mare mentre nuoti, pensa alla montagna mentre scii, pensa a qualcos’altro, Arianna, pensa a qualcos’altro! Ma non c’era nulla da fare. Provava quella sensazione stranissima: il vuoto nel petto sotto alle costole, il fiatone e quasi avrebbe voluto gridare, ma intanto la macchina suonò il clacson, un clacson che lei conosceva e pensò che non fosse possibile, forse era suo zio che le faceva uno scherzo? forse era il nonno? No, il nonno non le avrebbe mai fatto uno scherzo del genere. Quello era il clacson che suonava sempre lei. Tattaratatta tattà. Eppoi di nuovo: tattaratatta tattà.

    Si voltò e le parve assurdo. Il finestrino si abbassava e vide che le sorrideva. Restò immobile senza fiatare, era come se le gambe si stessero sciogliendo e per poco non cadde sulla ghiaia.

    «Ari. Vieni qui, Ari.» Aveva una faccia sorridente e furba, come quando faceva i suoi scherzi più pazzi oppure aveva in segreto un regalo particolare o qualche sorpresa strana.

    «Ari. Che fai? Ti sei imbambolata?»

    La sua voce davvero. Non era possibile. Non poteva essere. Arianna chiuse gli occhi, li riaprì. Si diede una scrollata. Si voltò verso i tetti di Roma. Si voltò di nuovo verso la strada. E la macchina era lì. Il finestrino aperto. Il suo volto sorridente, bello, di cui le pareva già di sentire il profumo.

    «Nonna» disse. «Sei tu?»

    «E chi dovrei essere scusa?» Fece un’altra faccia delle sue.

    Arianna chiuse ancora gli occhi. Era proprio la sua voce. Si accorse che era molto simile alla voce di zia Adelaide, la sorella della nonna, e che in quei mesi l’aveva dimenticata. Aveva dimenticato la voce dolce e squillante. L’aveva dimenticata al punto che ora la confondeva con quella della zia.

    «Ari, non posso star qui in eterno. Quanto mi vuoi far aspettare?»

    «Ma nonna, nonna, sei davvero tu?»

    «E chi vuoi che sia? Non mi vedi? Sono Mara Scagliola, tua nonna. Nonna Mara. Su Arianna non farla difficile. Lo so che non te l’aspettavi, però così mi fai penare.»

    «Ma no, no, nonna, non puoi tu!»

    «Certo che posso. Sono qui. Vuoi venire o no? Andiamo a divertirci? Sono venuta solo per te e mi molli qui? Dài, monta su.»

    DUE

    Di nuovo insieme

    (Un invito incomprensibile. Stregonerie di una nonna un po’ pazza. Intuire i pensieri di chi lo desidera. Finalmente abbracciarsi. Cielo e Terra.)

    Arianna si avvicinò alla macchina. Era spaventata. Che non fosse un sogno lo diceva ogni cosa: il Gianicolo, il sole, le amiche che aspettavano, il telefono in tasca. Però, semplicemente, non rientrava fra le cose possibili. Lo sapeva bene che i morti non tornano mai. Eppure sua nonna era lì e la guardava dal finestrino con il suo solito sorriso e l’aria complice e le diceva di stare attenta alla strada anche se per la strada non passava nessuno. Le restituì il sorriso: «Ma insomma nonna mi vuoi dire come hai fatto? Come puoi essere qui?».

    «Come posso? Non mi vedi? Non lo sapevi che sono un po’ maga? L’avete detto sempre voi.» Scoppiò a ridere con la sua risata calda e Arianna fece un saltello e fu presa da una specie di ridarella pazza soffocata in gola. «Sono venuta per te» le disse. «Ora sali in macchina ché ce ne andiamo a fare un giretto. Ne ho una voglia pazzesca.»

    Arianna girò attorno alla vettura, aprì la porta e salì.

    «Ti ricordi quando dovevi salire dietro, eri piccola, dovevi sedere su quell’odiatissimo seggiolino e ti arrabbiavi tanto quando ti dovevo allacciare la cintura? Be’, menomale che ora sei cresciuta. E, ohi, diciamoci subito una cosa. Arianna tu lo sai, ma ripetere le cose non fa male. Mai salire in macchina se mamma e papà non lo sanno. Mai avvicinarsi alle macchine degli sconosciuti. E anche se sono conosciuti bisogna che mamma e papà lo sappiano. Ok? Lo dico perché lo so che adesso ti sembra tutto strano. Però facciamo un’eccezione. Sono io. E sono venuta per te. E tu capisci bene che, insomma, come dire?, come facevo a avvertire mamma? Era impossibile.»

    «Ma infatti nonna, mi spieghi? Come hai fatto a venire qui? Sei scesa dal cielo?»

    «Macché!» La nonna scoppiò a ridere e Arianna anche rise perché la risata della nonna era bella, limpida e contagiosa e perché finalmente potevano ridere di nuovo insieme come a loro capitava tanto spesso nelle infinite volte che erano state insieme, da sole, la mattina o il pomeriggio o anche tutte le sere e le notti che aveva passato a casa dei nonni e erano state sul divano o attorno al tavolo della cucina a raccontarsi storie o fare i compiti o disegnare e fare torte, crostate, dolci, tutte le risate che si erano fatte insieme, tantissime.

    «Ma allora come fai?»

    «Arianna non lo sai che ho dei poteri magici?» disse rannicchiandosi e facendole un gesto di complicità.

    Arianna scuoteva il capo: «No, dài nonna, adesso non scherzare, per favore raccontami. Tu sei in cielo o no?».

    «Ah ma quanto sei seria. Quanto sei diventata seria, adesso che hai cambiato scuola. Non vorrai essere tutto il tempo così, oggi, eh! Io ti seguo sempre e non mi stupisce mica di vedere che sei tanto cresciuta. Non è una sorpresa. Ma non mi pareva che fossi anche così seria. Eh! Arianna. Sei una bella tipa. Lo vedo che vai meglio a scuola anche se non te ne frega moltissimo. Che dalla logopedista dove ti porta nonno sei sempre più forte. E guarda: vedo pure che vi divertite un sacco. In generale, vedo che sei molto brava e sono proprio contenta anche perché prima quando dovevi fare i compiti… Ti ricordi quanto ti arrabbiavi quando facevamo i compiti insieme? Uh!»

    «Nonna lo sai, non è con te che mi arrabbiavo!»

    «Ma certo che lo so. Ti arrabbiavi con te, non con me. Solo che io ero lì e se tu piangevi o sbattevi il libro e tutto quanto, be’, lo facevi con me. Mica me la prendevo, però! Era bello quando poi ti calmavi e riuscivi a finire i compiti da sola e allora finalmente ce ne andavamo in cucina a fare merenda. Come quella volta che abbiamo preparato il dolce con lo yogurt con la tua ricetta. Era venuto buonissimo. Me ne mangerei uno intero adesso.»

    «Nonna, ti ricordi tutto! Me n’ero dimenticata, io, di quel giorno. Era stato bellissimo.»

    «Ari, dài, mica ci vuole una grande memoria!»

    «Ma forse adesso tu hai più memoria? Voglio dire: se tu vedi tutto, ma proprio tutto… Sai anche tutto?»

    «No, no. Io non vedo proprio tutto. Mica sono una maga vera.»

    «E scusa però allora come fai? Hai detto che mi vedevi, che sapevi le mie cose. Solo le mie?»

    «Ma no. Io sono con te, come con le tue sorelle, le tue cugine, i tuoi zii, mamma, nonno e anche le mie amiche. Sono con voi tutti, ma soltanto quando lo volete. Non sempre, sennò sai che palle!»

    Arianna scoppiò a ridere. Quando la nonna sparava delle parolacce, lei impazziva. Sapeva che solo con lei si potevano dire e sapeva anche che la nonna avrebbe fatto finta che le era sfuggita, la parolaccia, e che neppure se n’era accorta.

    «Ecco, mi fai anche parlare male. Insomma, mica vedo quelle cose che tu vuoi tenere per te. Sarebbe un bel guaio… saprei tutti i tuoi segreti. Saprei i segreti delle tue sorelle. Di tua mamma. Invece i segreti devono rimanere segreti. Anche se certo un po’ mi piacerebbe. Mi sono sempre piaciuti, i segreti. Lo sai. Però non si può. Posso vedervi soltanto quando lo volete. E non è poco! Lo volete spesso e io sono felice: sono sempre occupata.»

    Arianna rise ancora.

    «Nonna, ti posso abbracciare?»

    «Certo che puoi. Sono qui per questo.»

    Aprì le sue braccia lunghe e sottili e si slanciò. Si buttò sul petto della nonna e la strinse e sentì il profumo delicato e la pelle delle mani curate, la pelle fresca e il calore. «Nonna, mi sei mancata tantissimo.»

    «Lo so. Lo so. Ma adesso sono qui. E che vogliamo fare, restarcene ferme in macchina in questo punto così buio? È una giornata bellissima. Ce ne andiamo a Villa Pamphili? Andiamo a farci un giro lì? Ti va?»

    «Un sacco, ma dovrei dirlo alle mie amiche, dirlo a mamma.»

    «Non ti preoccupare per loro adesso. Ti aspettano al bar, no? E mamma torna a prenderti alle sette.»

    «Sì, sai tutto tu. Però le mie amiche mi aspetteranno?»

    «Manda un messaggio, ma non dire di me, ora, sennò pensano che sei matta!» Scoppiò a ridere e anche Arianna rideva mentre tirava fuori il telefono.

    «Che bel telefono! Sono contenta che nonno te lo abbia regalato. E quanto scrivi veloce. Molto più veloce di me che con questo dito io… Io scrivo solo con un dito. Tu ne usi già due. Sei velocissima.»

    «Eh, ma guarda che è facile, puoi imparare anche tu.»

    «No, no, dài ora non perdiamo tempo. Non ho imparato prima, figuriamoci se imparo adesso. Invece tu scrivi alle tue amiche. Scrivi che ritardi un attimo. Che vi vedete lì fra poco.»

    «Come poco? Io adesso voglio stare con te.»

    «E allora scrivi che ritardi. Poi loro si arrangiano.»

    Scoppiarono di nuovo a ridere, poi la nonna ingranò la marcia e fece partire la macchina rossa che con il suo passo sbrindellato rimbalzò sull’asfalto spaccato della via chiamata Passeggiata del Gianicolo, superò in fretta il faro e piazza Garibaldi e s’infilò sulla strada dove c’era la statua di Ciceruacchio, un romano che il nonno di Arianna diceva sempre che si chiamava così perché da bambino era grasso, era un soprannome per prenderlo in giro, ma poi era diventato un gran personaggio, uno di quei romani che avevano fatto la storia.

    Arianna alzò la testa dal telefono. «Potevo dirglielo a voce, ora che siamo passate lì» disse indicando la piazza ormai alle sue spalle, ma la nonna le fece segno di no, che non si poteva e Arianna immaginò che non volesse lasciarsi vedere dalle sue amiche o che forse non era possibile o non avevano tempo. Le avrebbe voluto chiedere ogni cosa ma taceva, guardava la strada e la mano della nonna sul cambio, la bella mano ossuta, con le vene che emergevano sul dorso.

    Non aveva proferito parola, Arianna, di tutti quei pensieri che le stavano venendo, ma intanto la nonna già le stava rispondendo. Le spiegò che non poteva dirle proprio tutto quanto, non poteva dirle del cielo e del resto. Capiva la sua curiosità. Era naturale che volesse sapere, ma erano cose che non si potevano approfondire soprattutto perché era inutile. Le spiegò che quel che serviva a loro due, adesso, era farsi una bella passeggiata insieme e parlare delle cose di sempre. Il cielo? Le

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