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Memorie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945
Memorie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945
Memorie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945
E-book305 pagine4 ore

Memorie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945

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Info su questo ebook

Il libro raccoglie come testimonianza i ricordi del periodo della Seconda guerra mondiale, quando i protagonisti bambini delle storie raccolte, osservavano i fratelli maggiori partire per il fronte russo o le madri lottare per trovare qualcosa da mangiare. In mezzo agli incessanti bombardamenti aerei e terrestri, ad una terribile "guerra ai civili", si muovevano i soldati tedeschi che facevano razzia degli animali, i repubblichini fascisti che cercavano gli uomini renitenti alla leva, i partigiani veri e i banditi pronti a rubare ogni cosa. I sette mesi di guerra sulla Linea Gotica durante la guerra, rappresentano per questa generazione che ormai sta scomparendo una cicatrice in molti casi mai guarita. Perché i ricordi "richiamano al cuore", e quindi ricostruiscono una dimensione interiore ed emotiva collegata a un evento: anzi forse per molti "l'evento", che ha cambiato e condizionato intere esistenze. In "Memorie di guerra vissuta" decine di uomini e donne ripercorrono il difficile campo della piccola e grande storia, proponendo il proprio momento doloroso e terribile. Prefazione di Andrea Giannasi.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2019
ISBN9788899735951
Memorie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945

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    Memorie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945 - Tommaso Teora

    9788899735951

    Premessa di Tommaso Teora

    Con questo volume si chiude la mia terza esperienza intorno alle tristi vicende di guerra che hanno colpito la Garfagnana dal 1940 al 1945. Chi ha già letto i precedenti volumi sa che si tratta di una raccolta di testimonianze dirette, iniziata quasi nove anni fa. È stato un lavoro faticoso, in cui sono riuscito a coinvolgere moltissime persone che si sono aperte ai racconti ed alle interviste che ho loro richiesto. Il mio approccio è sempre molto delicato e rispettoso nei loro confronti, ben sapendo quanto è doloroso ricordare certi eventi, ma tutti sono sempre riusciti a rilassarsi e a raccontare quello che la memoria faceva riaffiorare. Ringrazio ognuno di loro per la grande fiducia che mi hanno dimostrato!

    Questa mia terza pubblicazione è stata stesa con più calma, quasi tre anni. Sono rammaricato, ancora una volta, per tutti quegli intervistati che non potranno leggere i propri racconti pubblicati nel libro perché defunti, resteranno nella memoria dei posteri, ma questo fatto mi convince ancor di più del valore che hanno tali esperienze editoriali e che sarà destinato a crescere nel tempo. Vorrei far notare che della prima pubblicazione Racconti di guerra vissuta, uscita nel maggio 2014, settanta degli intervistati sono già deceduti. Della seconda, Storie di guerra vissuta, trentacinque ci hanno lasciato e di quest’ultima già dodici!

    Ancora oggi molte persone mi fanno i complimenti per aver pensato a tutto ciò, anche chi solitamente legge pochissimo, ma che in queste occasioni ha divorato il libro in una settimana. Sono cose che mi riempiono di gioia!

    Insisto nel dire quanto sia importante che i giovani di oggi e le generazioni future leggano queste storie, per comprendere cosa vuol dire GUERRA, apprendendo ciò direttamente dai racconti di chi l’ha vissuta. Queste tre pubblicazioni, a mio avviso, dovrebbero essere diffuse nelle scuole.

    Nei libri inoltre, si ritrova anche un bel po’ di Garfagnana perduta, la mia terra, che amo molto. Ogni racconto contribuisce, in qualche modo, a ricostruire la vita di un tempo ed il territorio garfagnino che oggi è profondamente cambiato.

    Pensare che tutta questa mia esperienza è cominciata come un gioco!

    Concludo questa semplice premessa, non voglio dilungarmi troppo, preferisco lasciare spazio a quello che è veramente importante, ovvero i racconti contenuti nel volume.

    Non si può dimenticare il male di Andrea Giannasi

    Monumentale e prezioso il lavoro di ricerca e raccolta di ricordi da parte di Tommaso Teora che, con questo nuovo libro, presenta altre testimonianze sulla Seconda guerra mondiale. Un libro di ricordi perché i testimoni compiono il gesto di richiamare al cuore, quindi ricostruiscono una dimensione interiore ed emotiva collegata a un evento: anzi forse per molti l’evento, che ha cambiato e condizionato intere esistenze.

    Decine di uomini e donne ripercorrono il difficile campo della piccola e grande storia, proponendo il proprio ricordo doloroso e terribile.

    I protagonisti delle vicende che si consumarono nelle Terre del Serchio e Garfagnana soprattutto durante i sette mesi quando la Linea Gotica tagliò in due la valle, parlano di storie familiari, di luoghi spesso perduti e dimenticati, di antiche mulattiere o tradizioni. Molti i richiami al cibo perché la fame fu protagonista, ma anche la paura per il nemico o l’orrore per la morte.

    Quasi deumanizzato il tedesco o il repubblichino, ma anche in certi casi il bandito travestito da partigiano, o l’affamato, fanno riaffiorare in una comunità arcaica e contadina, tutti gli archetipi della paura. Il timore di vivere e la continua pressione psicologica di una guerra sentita, annusata, toccata, che fu veramente guerra ai civili mischiati da una parte all’altra ai combattenti, è stato – ma in certi casi lo è ancora – il filo che ha unito vittime e carnefici. Quella vissuta in Garfagnana fu guerra di linea tra opposti eserciti tradizionali, ben riconoscibili per uniformi e distintivi, ma anche conflitto asimmetrico per la presenza dei partigiani, e guerra civile per il campo italiano diviso tra aderenti alla Repubblica Sociale Italiana e combattenti con gli Alleati.

    Fu però soprattutto sospensione delle esistenze. Migliaia di civili, molti dei quali sfollati dalle grandi città costiere toscane, costretti a vivere da protagonisti la guerra in una sorta di grande campo di concentramento dal quale nulla e nessuno poteva uscire senza correre enormi rischi. Anche nei più piccoli o nascosti paesini della Garfagnana la guerra era entrata con prepotenza diventando feudo di morte.

    I testimoni di questo libro durante la guerra erano poco più che bambini o ragazzi e per questo il ricordo diventa più prezioso perché colto nel momento della piena innocenza. Nel momento durante il quale l’essere umano è nudo e spogliato da pregiudizi o preconcetti, o ancora da ideologie o scelte di campo. E qui torna il concetto della deumanizzazione del nemico, del combattente, di colui che porta la morte anche simbolica e figurata come il teschio delle SS. Il nemico raffigurato come il volto animalesco, incapace di provare sentimenti, di partecipare, di essere parte integrante di una comunità. In poche parole il trionfo del totalitarismo e dell’uomo nuovo disegnato dal fascismo e dal nazismo. Tutto questo raccontato con la severità, ancora oggi, di un ricordo impaurito, dagli eventi e dai guai scampati. Il racconto di bambini segnati per sempre dalla guerra e dalla crudeltà disumanizzata dei modi di uccidere e di morire.

    Gli elementi da analizzare dopo la lettura di queste testimonianze, sono ancora molti. La fame, la ricerca del cibo, le scatolette, il pane, sono punti che uniscono le vicende, perché quei sette mesi, tra l’ottobre del 1944 e l’aprile del 1945, furono mesi oggi indicibili e irraccontabili. Impossibile trasferire il ricordo di uno stato di indigenza come la fame vissuto in maniera individuale, perché ognuno aveva a che fare con la tortura in maniera privata e intima.

    E poi le assenze. Non è possibile trasferire il tormento delle assenze di coloro che partiti per il fronte africano o quello russo, semplicemente erano scomparsi. Non esistevano più come cancellati dall’anagrafe delle comunità. Anche questo pesava sulle mogli, le madri, i figli, perché la guerra in Garfagnana, non fu solamente paura dei rastrellamenti o dei bombardamenti, della fame e del nemico, ma anche lutto per chi non era più tornato e del quale nulla si conosceva.

    Una guerra come questa, combattuta tra i poderi, fa anche conoscere alle comunità nuovi e vecchi luoghi, che assumono significati e collocazioni differenti nei ricordi. Il cijere, la chiesa, il cimitero, il rifugio, sono i posti dove le famiglie e le comunità vanno a cercare l’umanità smarrita. Come le trincee o i bunker di guerra, i rifugi per gli uomini nei quali poter togliere l’elmetto, come si toglie una maschera, e tornare esseri umani. In Garfagnana il cijere è il luogo della testimonianza dell’essere in vita e del poter tessere ancora una rete di rapporti reciproci, testando l’umano e il terreno. E quindi in chiesa o nei cimiteri ricollegare le proprie esistenze all’ultraterreno, ai morti che ci hanno preceduto e che possono in qualche modo vegliare sui vivi.

    Mescolati ai contadini e ai cittadini in attesa degli eventi, poi i combattenti; tutti differenti nei modi nei linguaggi, nel comportarsi o nel confrontarsi con gli altri. I tedeschi riconoscibili per l’elmetto divenuto poi icona del male assoluto, ma che in realtà erano anche polacchi, austriaci, francesi alsaziani, che parlando una lingua straniera potevano sembrare ancora più distanti e terribili, di quanto lo fossero.

    Poi gli italiani della Repubblica Sociale: coloro che venivano chiamati spregiativamente repubblichini suddivisi tra alpini, marò, bersaglieri, e inseriti in precarie divisioni quali la Monterosa, l’Italia, la San Marco, che dalla sera al mattino potevano vedere sparire interi plotoni di disertori. Per chi veniva acciuffato c’era la fucilazione e non furono pochi i giovani desiderosi di tornare a casa che finirono davanti al plotone di esecuzione. Certo in mezzo a questi c’erano anche soldati che con perizia e orgoglio combatterono per l’Italia fascista, ma il destino della fine era segnato da tempo. Il resto fu follia.

    Sul campo avverso il partigianato che in Garfagnana ha vissuto un grande momento di mobilitazione e azione tra la primavera del 1944 e l’autunno dello stesso anno. Un breve periodo ricco però di sacrifici come quello del Gruppo Valanga sul monte Rovaio. Leandro Puccetti e gli altri patrioti ingaggiarono combattimento - pur sapendo che avevano ben poche possibilità di riuscita - per evitare la rappresaglia sulla popolazione. Quello che era avvenuto a Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto non doveva replicarsi il 29 agosto in Garfagnana. Nella Resistenza anche la Divisione Lunense che aveva il comando sopra Careggine e che nell’autunno del 1944 aprì alle Rocchette la Linea Gotica per ben due volte. Passato il fronte molti di questi ragazzi andarono a rafforzare l’XI zona del comandante Pippo Manrico Ducceschi, combattendo a Sommocolonia nella battaglia di Natale e poi nell’aprile del 1945 furono i primi ad entrare a Castelnuovo. Qui si celebrarono i funerali di cinque partigiani come primo gesto per riannodare i fili con il futuro.

    In mezzo a queste unità che avevano rapporti diretti con gli alleati e l’OSS (il servizio di informazione statunitense che poi venne trasformato nella ben più nota CIA), la Garfagnana vide anche il fiorire di altre bande legate ai paesi. Piccole realtà di giovani armati che difendevano le comunità dai tedeschi, dai repubblichini e dai banditi. Il volto di questo piccolo partigianato familiare è stato poco indagato, ma affiora in molti racconti. Formato da bande locali e riservate, pronte all’azione, ma mai propositive e quando cercarono di prendere l’iniziativa – come quando un comandante decise di assassinare un tedesco che si lavava nel fiume sopra Castiglione – alla fine si tornò sempre al buon senso. Del resto questi gruppi armati combattevano per difendere la vacca nella stalla e non stavano con gli alleati, i tedeschi o i fascisti. Loro si difendevano dai banditi. Sì perché – e tra le testimonianze questa presenza emerge – si mossero nelle Terre del Serchio anche sbandati, ex prigionieri di guerra o semplici ladri che aggredivano, svaligiavano e rubavano. Questi banditi in molti casi identificati durante e dopo la guerra con i veri partigiani, hanno arrecato un danno enorme all’ideale della Resistenza. Alcuni di questi partigiani locali o i loro comandanti come per esempio un tal Samassa o il famigerato Nino Bixio o il Barba, dei quali non si ha memoria storica di grandi esempi resistenziali, si macchiarono anche di assassinii e prelevamenti ben documentati dai testimoni.

    Poi ci sono gli alleati. Brasiliani, indiani, americani, inglesi, canadesi, neozelandesi, che spesso vengono confusi, ma che sono l’incarnazione della fine del conflitto. Loro hanno l’arma che nessun altro aveva mai esibito: il cibo in abbondanza. La Garfagnana scopre così le cingomme, le scatolette di beans o le uova in polvere, che diventano il simbolo della Liberazione e il ritorno alla vita dopo la carestia. Gli americani – perché in maniera indistinta vengono tutti chiamati così i liberatori – colpiscono le comunità rurali della valle anche per la diversità del colore della pelle, un elemento questo che dovrebbe far riflettere in tema di diversità, opportunità.

    Poi i sacerdoti che non vennero mai meno al servizio per le famiglie. Ogni piccolo paese ha trovato sempre il prete in prima linea pronto a difendere i propri parrocchiani dalle soverchierie o dagli abusi. In molte testimonianze emergono queste figure che rivestirono il ruolo tramite, di ambasciatore, di paciere, che univa le parti e rimetteva le cose al giusto posto. Quanta pena per i tanti sacerdoti costretti a confessare i condannati a morte e poi assistere alle fucilazioni.

    Infine la popolazione. I civili vittime dei bombardamenti, molti affetti da quella che oggi noi conosciamo come Sindrome post traumatica da stress, il disturbo d'ansia che insorge in soggetti che abbiano vissuto o assistito ad un evento traumatico. Gli scoppi, il forte rumore degli aerei in picchiata, il crepitio delle mitragliatrici, unito alla precarietà delle esistenze ha segnato la vita di una intera generazione. Uomini e donne posti di fronte al male e alla brutalità della guerra. Civili purtroppo non solo spettatori del conflitto ma veri e propri, purtroppo, protagonisti.

    Questo nuovo libro di Tommaso Teora è ancora una volta il prezioso atlante che deve far conoscere alle nuove generazioni cosa è stato e cosa non dovrà mai più essere. Gli anziani che passano quasi fisicamente il testimone non saranno mai dimenticati, perché ora il loro doloroso ricordo è testimonianza che nessuno potrà mai più lasciare.

    Andrea Giannasi

    Lucca, marzo 2019

    ANGELINI FELICE

    nato a Pieve Fosciana il 03-05-1924, morto il 7 marzo 2019

    Mio padre Alberto lavorava per la famiglia Armenti e nel 1932, quando avevo otto anni, ci trasferimmo tutti a Bengodi, nel comune di Orbetello, dove viveva quella famiglia facoltosa. Mia madre si chiamava Teresa Biagioni ed io ero il secondogenito di quattro figli, di cui la prima era una femmina. Con lo scoppio della guerra ce ne tornammo tutti a Pieve Fosciana e ricordo che mio padre andava a lavorare all’Abetina Reale, sempre per gli Armenti, che ne erano i proprietari. Nel ’43 mi arrivò la cartolina per andare militare e mi assegnarono agli alpini. Sapevo già di disgrazie che avevano colpito quel corpo e così decisi di arruolarmi volontario nei carabinieri. Fui assegnato alla legione allievi a Roma, in via Fabio Massimo.

    Dopo l’8 settembre capii che la cosa si metteva male e dopo tre o quattro giorni, insieme ad altri sette militari di Lucca, riuscii a scappare. Ricordo che arrivai a casa, a Pieve Fosciana, a metà settembre, il 14 o il 15. I treni funzionavano ancora. Ero pieno di pidocchi e cimici e mia madre mise subito a bollire le mie vesti. Ricordo che eravamo senza mutande perché l’esercito non ne aveva. Fu un viaggio travagliato. Prima di Avezzano il treno si fermò e due sottotenenti dell’esercito ci trovarono, nonostante fossimo in borghese. Ci fecero scendere, ma riuscimmo a scappare. C’era uno di San Ginese, vicino Lucca, che aveva la febbre alta e non riusciva più a camminare, aveva perso completamente le forze. Lo spingevo e lo aiutavo perché dovevamo arrivare alla stazione di Avezzano e mi diceva: Angelini lasciami qui, voglio morire!. Insomma ce la feci e, arrivati alla stazione, riuscimmo a prendere il primo treno per Pescara. I tratti ferroviari Roma-Firenze e Roma-Civitavecchia-Livorno erano già fuori uso. Arrivati a Firenze trovammo dei militari tedeschi che facevano la ronda e delle donne riuscirono a nasconderci. Insomma riuscimmo a prendere il treno per Lucca e, arrivati lì, ci salutammo. Avevo una fame! Riuscii a prendere il treno per la Garfagnana, dopodiché chiaramente mi sono sempre nascosto. Ero stato dichiarato disertore e mi cercavano continuamente i carabinieri e l’esercito.

    Dopo il bombardamento alla stazione di Castelnuovo (2 luglio 1944, nda) ci trasferimmo tutti all’Anguillina. Pieve Fosciana si era riempita di militari tedeschi ed ogni tanto arrivavano a perquisire. Ricordo che sono scappato parecchie volte e spesso mi sono nascosto dentro i castagni, anche quando pioveva. Immaginate la situazione! Quanta fame ho patito! Fortunatamente quell’anno ci fu un’annata eccezionale di castagne, ricordo che mettevo i recipienti sotto i castagni e la mattina tornavo a prenderli pieni.

    Alla fine di novembre del ’44 passai il fronte perché mi sentivo braccato. Insieme a me c’erano altri dieci uomini tra cui il dottor Ettore Giovannetti, il geometra Giuseppe Pieroni, Ermete Toni. Passammo dalla Foce di Capraia e poi su verso il crinale dell’Appennino, finché raggiungemmo Calabaia. Ricordo che c’era già la neve. Camminavamo sempre di notte e mentre scendevamo giù, verso il Ponte di Catagnana, probabilmente attirati dal rumore, i tedeschi cominciarono a mitragliare da destra e da sinistra. Nello scappare perdemmo tante vettovaglie, compresi i prosciutti e ricordo che io volevo tornare indietro per recuperarli, ma fui sconsigliato. Arrivati lì trovammo i partigiani che ci interrogarono. Nel frattempo giunse anche un soldato tedesco il quale disse di essere scappato dopo aver ucciso il proprio comandante. Non so che fine abbia fatto. Dopo ci lasciarono andare e ci incamminammo verso Lucca.

    Arrivati a Borgo a Mozzano ci fermarono i carabinieri e ci portarono in carcere, ma quando seppero che io avevo fatto il militare nell’arma, mi portarono in caserma. Rimasi per quattro giorni finché gli americani, che erano già arrivati lì, mi lasciarono libero insieme agli altri dopo averci interrogato. Mi dettero un lasciapassare con tutti i nomi degli altri amici. Arrivati a Lucca ci consigliarono di andare in comune per farci dare le tessere per il pane e la farina. Dopo ognuno se ne andò per i fatti suoi. A Lucca io avevo la zia Maria, maestra elementare, che era sposata con un appuntato dei carabinieri di nome Lelli ed abitava in via Galli Tassi, davanti la chiesina dei protestanti. Rimasi lì per qualche giorno, poi decisi di andare a Bengodi dagli Armenti, dove rimasi fino alla fine della guerra, nel podere Roma. Lì mi arrangiavo facendo un po’ di tutto. Me ne tornai poi a Pieve Fosciana. Quante paure, quanti patimenti, quanta fame ho sofferto!

    Pieve Fosciana, 26-04-2017 ore 16.45

    BACCI ANNA MARIA

    nata alle Vigne, Pontecosi (Pieve Fosciana) il 09-03-1929

    Abitavo con la mia famiglia alle Vigne, località vicino a Pontecosi, nel podere dei Muccini. Mio padre Luigi, la mamma Rosa Guidi e sette figli, quattro maschi e tre femmine, di cui io ero la più piccola.

    Due miei fratelli, Sebastiano del ’18 e Gino del ’21, andarono a combattere in Russia nel 1942 e non sono più tornati. Ricevemmo una lettera di Sebastiano il quale raccontava di essere tornato indietro a cercare il fratello durante la ritirata.

    Dopo il bombardamento a Pontecosi del 28 dicembre 1944, dove morirono parecchie persone, noi sfollammo al Roncaccio, località poco distante da noi, ma forse dislocata in una zona più sicura. Dormivamo in una capanna e lì siamo rimasti fino alla fine del conflitto. Dopo ritornammo alle Vigne.

    Queste sono le poche cose che ricordo, la mia memoria se ne sta andando.

    Pianetto (Pieve Fosciana), 15-01-2019 ore 14.00

    BECHELLI RITA

    nata al Volpiglione (Castiglione di Garfagnana) l’08-09-1929, morta il 20-01-2018

    Vivevo al Volpiglione con la famiglia composta da mio padre Biagio, mia madre Maria Fanani e dieci figli, sei maschi e quattro femmine, di cui io ero la penultima e ad oggi sono l’unica rimasta. Con noi viveva anche il nonno materno.

    I tre fratelli maggiori erano già partiti per la guerra in scaglioni diversi. Il primo ritornò per il matrimonio e gli fu data una licenza di una settimana o dieci giorni, poi riprese a lavorare per l’esercito italiano. Gli altri due, Luigi e Anacleto, chiamato anche Ernesto, ritornarono a casa dopo l’8 settembre 1943 e disertarono; sono sempre stati dentro una casa di nostra proprietà, al Molino di Sotto. Questa era piena di fieno e di conseguenza si nascondevano facilmente dentro di esso. Tutti i giorni portavamo loro da mangiare; quando erano fuori a lavorare nei campi, se c’erano i militari in perlustrazione, venivano avvisati con la frase: Attenti al lupo!.

    Il quarto fratello, Amelio del ’21, partì militare nel gennaio ’43, fu mandato a Messina e dopo in Grecia. Da lì, dopo l’8 settembre, fu deportato in Germania in un campo di concentramento e l’abbiamo rivisto, mi sembra, nel giugno del ’45. Non ha mai voluto raccontare niente della vita in Germania, ricordo solo una frase che ha ripetuto più di una volta: I serbi sono più barbari dei tedeschi.

    Dopo l’8 settembre ’43 cominciarono a passare da noi tanti soldati in divisa e non, alcuni a piedi ed alcuni a cavallo. Coloro che avevano abiti militari cercavano vesti civili e tutti avevano fame. Mio padre ha sempre cercato di aiutarli, anche nascondendoli, col rischio che venissero scoperti. Erano quasi tutti militari che venivano da nord e cercavano di attraversare il fronte, verso gli americani, probabilmente scappati dai campi di concentramento in Emilia e Lombardia.

    Nel ’44 cominciarono ad arrivare da noi i militari tedeschi ed i partigiani, quest’ultimi sempre di notte. Chiedevano cibo, galline, pecore, grano, formaggio e portavano via senza tanti complimenti.

    Ricordo un particolare. Un giorno, mentre ero al pascolo sotto casa con le tre vacche, arrivarono tre soldati tedeschi e mi accorsi che si soffermarono a guardare la manza. Appena se ne andarono tornai a casa e raccontai a mio padre il fatto accaduto. Decise subito di nascondere l’animale lontano da casa; il giorno seguente i militari tornarono a prendere la bestia e non trovandola si arrabbiarono tantissimo, forse bestemmiarono anche in tedesco. Mio padre fece capire loro che nella notte qualcuno se l’era portata via. Se ne andarono imbestialiti. Questi militari arrivavano sempre dalle parti di Capraia, scendendo da Cerasa e risalendo su da noi.

    Le feste natalizie le passammo in malo modo, con tanta tristezza e paura. Un giorno, insieme ad altri ragazzi, dovetti portare del fieno a Campori, dove c’era l’accampamento degli alpini. Arrivati a destinazione i caccia americani cominciarono a mitragliare e bombardare Castiglione. Scappammo subito verso casa. Ci prendemmo un grande spavento (17 gennaio 1945, nda).

    Quando finì la guerra cominciammo a sentire urla e canti di felicità da tutti gli sfollati che erano nei paraggi di casa nostra. Da noi non si era fermato nessuno, poiché non avevamo posto, essendo una famiglia numerosa. Il giorno stesso scesero tutti a festeggiare verso Castelnuovo, dove erano già

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