Salvate il caporale Adolf
Di Stegat
4.5/5
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Info su questo ebook
STEFANO GATTI è nato a Chiavari nel 1958. Biologo, ha una figlia e una gatta. Ha lavorato all’Istituto Gaslini e in Big Pharma. È sommelier, giocatore di scacchi e accanito lettore di Storia e detective stories. Il suo esordio letterario, HIV, scacchi & propoli, è del 2018. Usa lo pseudonimo SteGat non per vezzo ma per l’esistenza di omonimi più illustri.
Il suo BLOG è: SteGat13 Storie brevi - riflessioni lunghe.
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Recensioni su Salvate il caporale Adolf
2 valutazioni1 recensione
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5Quasi perfetto. Una trama intelligente che crea situazioni imprevedibili, eppur realistiche quando non reali. Possiamo classificarlo come romanzo storico breve. Asciutto e incisivo, senza fronzoli tanto di moda, si fa leggere volentieri. Non mancano, naturalmente, le soprese
Anteprima del libro
Salvate il caporale Adolf - Stegat
Gatti
PREFAZIONE
Amici Lettori, amanti della Storia e no, questo racconto spazia tra l’Italia, la Germania, l’Ungheria e la Russia.
Si snoda attraverso un lungo periodo storico che va dalla Grande Guerra, fino all’inizio degli anni Cinquanta.
Racconta le illusioni di due giovani destinati a incontrarsi tre volte: il primo è un geniere austriaco di origini romene, la seconda una pilota ucraina.
Entrambi brillanti studiosi, sono plagiati dalla propaganda del regime, così abbandonano e ripudiano i loro libri fino a bruciarli, per poi rileggerli e studiarli con passione.
Parla del rapporto impossibile tra l’oppressione e la cultura: l’ennesimo monito che forma un cocktail originale, molto alcolico, piacevole o no, mai noioso.
La magia entra in gioco attraverso le streghe, ma è solo un particolare.
Marzo 2020
Stefano Gatti
CAPITOLO UNO
Da Torino a Cormons
VITTORIO CASELLI nacque a Torino il 5 novembre del 1894. Appena compiuti ventun anni fu dichiarato abile e arruolato: partì in treno per il fronte.
Nei tre anni successivi i suoi occhi, azzurri come i miei, videro la carneficina della Grande Guerra: qualcosa che oggi appare lontano, dimenticato e a stento studiato.
I cecchini, la puzza dei cadaveri abbandonati e la miseria delle trincee.
Occhi che continuarono a rivivere la disfatta di Caporetto, come tutti quelli della sua sfortunata generazione, poi l’esaltazione della resistenza sul Piave e la riscossa di Vittorio Veneto.
Malgrado tutto se la cavò e riuscì a tornare a casa.
Per miracolo non aveva neppure un graffio o una scheggia in corpo, ma la sua vita era cambiata per sempre.
Fu nell’ultimo giorno di guerra che rischiò di lasciarci davvero la pelle: erano i primi giorni di novembre del 1918.
Tanti anni dopo, ormai ragazzino, gli mostravo orgoglioso i miei libri di aeroplani e carri armati.
Con mia grande delusione, lui scuoteva la testa mormorando: «Lascìa perdê…»¹
Era un tipo di poche parole, e si esprimeva in un mezzo dialetto genovese, risultato della permanenza sotto la Lanterna.
Apparteneva ai Socialisti dei tempi di Giacomo Matteotti, e lavorava alle Poste di Genova.
In realtà era nato a Torino, proprio sotto alla Mole.
Ogni tanto, magari in occasione di qualche pranzo familiare, ci ripeteva pensoso una vecchia storia risalente alla Grande Guerra. Per fortuna era l’unica che aveva dovuto combattere.
«Me pàivan tànto zoêni, ciæi de cavélli e co-i éuggi intimorii, coscì l’ho lasciâ anâ via... Dòppo pe ‘n pitìn amasân mi…»²
L’episodio risaliva per l’appunto agli ultimi giorni di un piovoso autunno, quando molti soldati dell’Esercito Austro-Ungarico, ormai in rotta, si arresero alle avanguardie italiane che avanzavano. Nelle tante lingue dell’ex Impero, dichiaravano la stessa cosa: «Ci arrendiamo!»
Si era in Friuli, vicino a Cormons, nel novembre del 1918.
Il caporale Vittorio Caselli, del Corpo di Cavalleria della IVa Divisione, ebbe l’ordine di scortare due prigionieri austriaci verso le retrovie. Forse erano ungheresi, o serbi, ma poco importa ormai.
All’epoca in cui si svolsero i fatti, nella sola VIa Armata austriaca furono fatti ben 418 mila prigionieri, oltre al sequestro di una quantità enorme di materiale: cavalli, cannoni, armi e altro.
In pratica l’esercito del Kaiser implose, le sue varie etnie non si riconoscevano più sotto alla stessa bandiera di un Impero enorme che aveva segnato la Storia del continente, ma che ormai era giunto al tramonto.
Uno dei due soldati era ferito a un piede, così veniva sorretto a fatica dall’altro.
Erano entrambi laceri, infangati e disperati: di certo erano molto giovani, e conoscevano qualche parola di una lingua simile all’italiano, probabilmente ladino. Insomma, due montanari poco più che sedicenni mandati lì a morire.
Iniziarono il faticoso cammino, tra feriti che si lamentavano, cadaveri e cannoni abbandonati.
Imboccarono uno dei tanti