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Letteratura di guerra. Testi, eventi, protagonisti dell’arte della guerra dall’Umanesimo al Risorgimento
Letteratura di guerra. Testi, eventi, protagonisti dell’arte della guerra dall’Umanesimo al Risorgimento
Letteratura di guerra. Testi, eventi, protagonisti dell’arte della guerra dall’Umanesimo al Risorgimento
E-book436 pagine5 ore

Letteratura di guerra. Testi, eventi, protagonisti dell’arte della guerra dall’Umanesimo al Risorgimento

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Il tema della guerra nella letteratura italiana lungo una prospettiva di più secoli, dal Quattrocento all'Ottocento. Il volume costituisce l'inizio di un approfondimento sistematico del rapporto tra letteratura e guerra attraverso l'analisi e la presentazione di testi e autori maggiori e minori della nostra letteratura, in un fecondo intreccio di etica ed estetica, realt&à e finzione. L'arte della guerra umanistica e rinascimentale, le guerre di religione nell'età della riforma e della controriforma, le guerre in Asia e in America negli anni dell'illuminismo, le guerre nazionali e patriottiche risorgimentali sono alcuni degli argomenti al centro della riflessione. Il volume contiene saggi di D. Aricò, A. Battistini, A. Beniscelli, A. Ferioli, G. Forni, F. Hattori, F. Giunta, J-J. Marchand, L. Nay, F. Senardi, C. Varotti.
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2011
ISBN9788889891971
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    Anteprima del libro

    Letteratura di guerra. Testi, eventi, protagonisti dell’arte della guerra dall’Umanesimo al Risorgimento - A cura di Gian Mario Anselmi

    Coriandoli

    A cura di Gian Mario Anselmi, Gino Ruozzi

    Letteratura di guerra

    Testi, eventi, protagonisti dell'arte della guerra dall'Umanesimo al Risorgimento


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    Il seguente E-BOOK è stato realizzato con T-Page

    Introduzione

    Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi

    La guerra, tanto, un po' è macello un po' è tran-tran e non c'è troppo da guardar per il sottile.

    (Italo Calvino, Il cavaliere inesistente)

    Questo volume presenta gli atti dell’omonimo convegno internazionale svoltosi a Bologna, nella sede di Casa Carducci, il 26-27 novembre 2009. Promosso dai Dipartimenti di Italianistica e di Discipline storiche dell’Università di Bologna, da Casa Carducci e dal Museo Civico del Risorgimento, il convegno e gli atti sono parte integrante del progetto strategico Guerra: immaginario, rappresentazioni, forme materiali (Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna) coordinato da Carlo Galli.

    L’obiettivo è stato ed è studiare il tema della guerra nella letteratura italiana in una prospettiva di più secoli, dal Quattrocento all’Ottocento. Senza pretese di completezza ma con lo scopo di indicare e approfondire alcuni importanti nuclei storici e tematici. Vorrebbe essere l’inizio di un lavoro sistematico sul rapporto tra letteratura e guerra attraverso l’analisi e la presentazione di testi e autori maggiori e minori della nostra letteratura, in un fecondo intreccio di etica ed estetica, realtà e finzione.

    Gli studi qui raccolti spaziano dall’Umanesimo al Risorgimento; si è voluto per il momento escludere il Novecento perché è il secolo che in merito a questo tema è stato più studiato, specie per la Prima e Seconda guerra mondiale e per la Resistenza. Si è preferito cominciare con uno sguardo lungo e variegato, per cercare di capire come l’argomento, centrale nella storia e nella storia della letteratura, è stato trattato dalla fondazione della modernità alle soglie della contemporaneità; e, in una prospettiva più specificamente italiana, dalla disgregazione dell’equilibrio quattrocentesco alla costituzione dello stato nazionale.

    Il tema della guerra è stato svolto in una quantità di testi e di generi letterari, da quelli più propriamente storici e argomentativi (storie, trattati, saggi, relazioni, memorie, aforismi) a quelli di invenzione (poemi, liriche, racconti, romanzi). È un settore di studi che meriterebbe un approfondimento teorico e pratico a un tempo globale e dettagliato. Studiare per esempio come la guerra è stata raccontata da poeti, narratori e saggisti che l’hanno vissuta sui campi di battaglia e da quelli che non l’hanno sperimentata; in che modo e misura le loro descrizioni sono simili o diverse. Da quale posizione e ruolo è stata vissuta, se da soldato o comandante, soldato di ventura o volontario, mercenario o patriota. Studiare i fondamenti e l’evoluzione del grande genere dell’arte della guerra, così importante e significativo nella letteratura rinascimentale e tuttora in auge. Studiare tipologie e racconti dei diversi tipi di guerra: nazionali e civili, di aggressione e di difesa, imperialistiche e patriottiche, rivoluzionarie e irredentistiche, di terra di mare e di cielo, di comuni e signorie, di stato e di chiesa, di fanti e cavalieri, di militari di professione e di soldati di leva, al fronte e a casa, di uomini e donne, in prigione e in esilio, coloniali e razziali, con le armi da taglio e quelle da sparo, in fortezza o in trincea, sui monti o in pianura, in Italia e fuori d’Italia, reali e metaforiche. Guerre narrate dal punto di vista di scrittori, letterati, militari, giornalisti, medici, infermieri, sacerdoti, deportati, terroristi. Sono solo alcuni dei microtemi interni al macrotema guerra.

    In questo volume i principali nuclei storico-tematici sono il rinascimento (di Tebaldeo, Machiavelli, Guicciardini, Rucellai), l’età post tridentina e barocca della ragion di stato (di Tasso, Botero, Panigarola), il risorgimento patriottico e garibaldino (di Santorre di Santarosa, degli eroi-martiri delle Dieci giornate di Brescia, dei combattenti e memorialisti in camicia rossa). Lo sguardo su Machiavelli, essenziale filo rosso dell’intero volume (e forse del tema in sé, da qualunque angolazione lo si voglia e possa considerare), si estende dall’Italia al Giappone, in una prospettiva di influsso internazionale che appartiene solo a pochi straordinari pensatori. La lezione di Machiavelli fa da sfondo anche al pensiero dell’illuminista cosmopolita Algarotti, qui studiato nel percorso che porta di frequente nel Settecento a spostare l’attenzione dall’Europa all’Oriente, dai grandi condottieri continentali a quelli delle sconfinate steppe asiatiche. Sulla figura del condottiero la cui scienza si separa dal tradizionale tessuto umanistico riflettono Vico e gli illuministi, che prendono atto di una distinzione delle conoscenze e delle pratiche caratteristica anche del passaggio fra Sette e Ottocento. Così come di centrale interesse è la relazione tra guerra e religione, qui analizzata e valutata nel momento forse più intenso e drammatico della riflessione, fra Cinque e Seicento, in momenti politici e civili marcati e oscurati da paura e violenza. L’occhio sul Risorgimento, di stringente attualità, è rivolto soprattutto all’eccezionale spinta ideale che ha contraddistinto protagonisti-patrioti sì differenti ma accomunati dal desiderio di una sostanziale emancipazione politica, coraggiosamente testimoniata dalle parole e dai fatti, fino al sacrificio estremo.

    Nella guerra tutto si sporca di sangue e l’epica si concretizza in dolore e morte. A volte il ricorso alla violenza bellica sembra inevitabile, realistico e brutale, generoso ed eroico; eppure si affaccia anche in queste pagine un invito non banale alla pace e a contatti più umanamente ed economicamente fruttuosi.

    Una guerra non epica: la guerra nella poesia di Antonio Tebaldeo

    Jean-Jacques Marchand

    Nel 1498 escono, per i tipi del Rococciola di Modena, le Rime di Antonio Tebaldeo dedicate ad Isabella d’Este¹. Il poeta ferrarese proseguirà la sua attività di creazione poetica e di labor limae almeno fino all’inizio degli anni Venti del Cinquecento, con l’intenzione di allestire un nuovo canzoniere adeguato alle norme di una lirica e di un linguaggio poetico che superi le peculiarità locali, e che di lì a poco il Bembo avrebbe codificato². Se le Rime del Tebaldeo danno ampio spazio alla tematica e alla casistica amorosa – formulate nei modi più iperbolici, paradossali e concettosi –, esse si aprono anche alla tematica politica, ed in particolare a quella della guerra³. In questo senso, il canzoniere tebaldeano non fa che riprendere e ampliare componenti del Canzoniere petrarchesco: si pensi in particolare alle tre canzoni politiche, O aspectata in ciel, Spirto gentil, e Italia mia⁴, in cui il motivo della guerra è molto presente. La guerra infatti vi compare nei suoi due aspetti opposti: la guerra riprovevole che consiste nello scontro armato fra signorie o repubbliche in Italia o fra grandi nazioni in Europa, e quella lecita: cioè quella giusta per eccellenza, la crociata, che incanala le pulsioni belliche verso la lotta contro gli infedeli e la riconquista della Terra Santa, o quella legittima che gli stati italiani potrebbero muovere ai danni dei barbari intenzionati a privare l’Italia della sua libertà⁵. Ma se il Tebaldeo si sentiva legittimato, soprattutto negli ultimi due decenni del Quattrocento, a trattare di questa tematica polemologica nella sua poesia era anche perché la poesia cortigiana settentrionale di livello colto⁶, e quella delle corti padane in particolare, usava riferirsi anche ad altri modelli, accanto a quello petrarchesco. Uno di essi, molto diffuso in ambiente cortigiano – si pensi per esempio ai Carmina in laudibus Estensium del giovane Boiardo⁷ – era ovviamente il genere encomiastico. La lode del signore, seppur considerato in tutte le sue caratteristiche, sia culturali, sia politiche, sia sentimentali, non poteva non prendere in considerazione le sue doti militari, ed in particolare l’evocazione delle sue gesta gloriose compiute nella sua veste di condottiero che rivestiva spesso. D’altronde, anche questo filone era in qualche modo consentito dal modello petrarchesco, in cui sono numerosi i componimenti di genere encomiastico. Ma a legittimare il ricorso alla tematica polemologica all’interno di una forma apparentemente lirica andava annoverata anche l’egloga, recentemente rinata in base al modello virgiliano in ambiente toscano: un componimento per lo più dialogato, di argomento pseudobucolico, ma dal contenuto spesso riferito all’attualità contemporanea⁸. Era un genere che, proprio vicino geograficamente e cronologicamente al Tebaldeo, Boiardo aveva illustrato con la sua Pastorale: dieci egloghe pastorali, di cui cinque politiche⁹ erano riferite alle distruzioni e alle sofferenze inflitte a Ferrara durante la guerra veneto-ferrarese degli anni 1482-84¹⁰. Infine, accanto al sonetto, le raccolte di poesie o i canzonieri veri e propri andavano inserendo nella loro compagine una nuova forma metrica: il capitolo in terza rima¹¹, il quale a differenza della nobile canzone due-trecentesca che veniva sostituendo, consentiva di affrontare, in uno stile medio, tematiche di tipo realistico o fantastasioso – come nelle disperate – in cui l’io narrativo poteva sbizzarrirsi in ampi excursus biografici o evocazioni storiche, politiche o, appunto, militari.

    Il Tebaldeo, nel canzoniere del 1498 e nelle raccolte di rime che vanno sotto il nome di estravaganti – rimaste inedite fino a tempi recenti¹² – sviluppa ed amplia le virtualità e gli spunti di queste varie tradizioni, ed in particolare nell’ambito della tema della guerra (anche se questa tematica rimane molto marginale rispetto alla casistica di amore: una decina di componimenti sugli oltre settecento del corpus dei soli componimenti in volgare¹³). In questo senso il poeta ferrarese s’inserisce pienamente nella continuità di filoni poetici del Quattrocento. Ma d’altra parte, vari suoi componimenti politico-militari rispecchiano la grande spaccatura storica e culturale provocata dalle guerre d’Italia che sconvolgono il paese a partire dal 1494; ed, ancor prima, rendono conto di una sorta di imbarbarimento degli scontri bellici che segnano alcuni conflitti locali, come la già citata guerra veneto-ferrarese dell’inizio degli anni Ottanta.

    Se prendiamo in considerazione i componimenti che si riferiscono alla tematica della guerra, possiamo osservare, oltre al fatto che si collocano tutti nel quindicennio fra il 1482 e il 1496¹⁴, che la rappresentazione della guerra e dell’impegno del protagonista in azioni belliche risulta, esplicitamente o implicitamente (cioè per una serie di accostamenti negativi) essenzialmente antieroica. In un contesto culturale e politico che tende a ricuperare e ad esaltare nelle dinastie degli Este e dei Gonzaga i valori del vecchio mondo cavalleresco, rivestendolo magari formalmente di panni classci, Tebaldeo sembra volere smussare sistematicamente, anche in poesie celebrative di signori e di condottieri, l’eroismo militare. Adentrandomi perciò nei testi, vorrei analizzare succintamente quattro circostanze che provocano questo offuscamento dell’immagine eroica: la morte, l’amore, la malattia e la guerra vera e propria segnata dal tradimento, dalla distruzione e dalla sofferenza..

    La rappresentazione che sembra intaccare di meno l’immagine del protagonista è l’abbinamento della sua azione militare con la morte. Ma, come vedremo, questa contiguità – volontaria o involontaria – provoca un offuscamento notevole della sua immagine. Infatti questa presenza della morte non è determinata, come nell’epica, dall’uccisione dell’avversario, ma è dovuta alla scomparsa del protagonista, o a quella del signore per il quale egli ha combattuto. Da questa situazione, il lettore ritrae un’impressione di vanità dell’azione eroica, dato che viene o pagata con un prezzo eccessivo – la morte, appunto – o resa inutile dalla scomparsa di chi avrebbe potuto usufruirne. Lo possiamo constatare in tre componimenti dedicati ai fratellastri Giovan Maria e Francesco Gonzaga¹⁵. Il primo¹⁶ è un capitolo in cui Giovan Maria, adottato dalla famiglia regnante di Mantova e successivamente ucciso nella battaglia di Fornovo del 1495), narra il suo incontro nell’aldilà con le anime defunte dei Gonzaga. Di fatto, la componente eroica di questa morte viene quasi totalmente occultata dal motivo encomiastico della lode del fratellastro Francesco, che lo ha assunto a membro della famiglia e lo piange dopo la morte: ragione per cui – secondo un concetto tipicamente tebaldeano – Giovan Maria dovrebbe morire due volte per estinguere questo debito di riconoscenza:

    ciascun che nasce una sola volta more:

    non posso più morir, e senza questo

    non è possibil pagar tanto honore¹⁷.

    La morte in battaglia è considerata positivamente, non in quanto è avvenuta eroicamente in un combattimento a conclusione del quale il protagonista ha finito per soccombere, ma a causa di uno stoico atto sacrificale fatto di fedeltà al signore e di salvaguardia dell’onore di patria:

    Io mi contento, e questa morte rara

    stata me è de letitia e di dolceza,

    ché angustia cum honor mai non fu amara.

    [...]

    Far del viver si dè come de lo oro:

    spenderlo in facti necessarii e magni,

    come io, che per salvar Italia moro¹⁸.

    La stessa rappresentazione compare in due sonetti¹⁹ in cui viene esaltata la campagna militare di Francesco Gonzaga in sostegno del re Ferdinando II, detto Ferrante, d’Aragona contro i Francesi nel 1496. Nei due componimenti, i fatti d’arme del duca, che sarebbero potuti rientrare nella raffigurazione encomiastica del capitano glorioso, sono elusi sia dal contesto in cui vengono collocati, sia dal distacco cronologico rispetto agli eventi. I due componimenti sono situati dopo la morte di Ferrante, ad una distanza cronologica di vari mesi dai fatti di guerra; mentre le lodi sono rivolte al Gonzaga, non per le sue prodezze belliche, ma per la sua fedeltà sentimentale al re anche dopo la sua morte. Infatti ambedue i componimenti vennero composti in occasione di una cerimonia organizzata dal duca in memoria del defunto re²⁰. Nel primo sonetto, l’attenzione si sposta dalla campagna militare del Gonzaga in aiuto del re alla fedeltà post mortem del duca nei confronti di Ferrante:

    ma chi fa beneficio a l’huom che è in fossa,

    de non aver mai premio alcuno è certo,

    ch’el non amava chi non ama l’ossa²¹.

    Nel secondo sonetto, scritto a nome di Francesco Gonzaga, il duca con le sue preghiere mira ad assicurare la presenza di Ferrante nel regno dei cieli, nello stesso modo in cui, mentre era vivo, mirava ad assicurare la sua autorità terrena nel regno di Napoli:

    S’el si potesse il cielo aver per guerra,

    come il seggio regal per me reavesti,

    cussì per me, Ferrante, in ciel seresti;

    ma chi cum l’arme i dèi vincer crede, erra:

    de ciò son specchio i figli de la terra.

    Però de caldi preghi e pianti mesti

    empio il tempio per te, ché sol a questi

    soldati l’uscio il ciel,vinto, diserra²².

    Nella terzina finale poi, la figura, anche qui più stoica che eroica, viene perdendo ogni connotato di qualità guerriera visto che è ritratta come quella di un uomo assai vicino anch’esso alla morte per essere stato colpito sia dal dolore per la scomparsa del signore, sia dall’amore non corrisposto per una donna:

    Vale, presto verrò, ché in doglia avolto

    m’ha sì tua morte, e un core che me è nemico

    a torto, che star qui non posso molto²³.

    Il motivo dell’amore come attenuazione e diseroicizzazione del valore militare è centrale e determinante in due componimenti riferiti allo stesso Gonzaga. Nel sonetto Chi se amirò quando a l’extremo passo²⁴ vediamo il protagonista della battaglia di Fornovo in qualche modo minorato nelle sue capacità belliche dalla passione amorosa, che lo ha privato dell’anima e gli ha praticamente legato le mani al momento del combattimento:

    Chi se amirò quando a l’extremo passo

    fu il bel regno latin da te diffeso,

    vie più se amiraria se avesse inteso

    il crudel stato tuo misero e lasso.

    Tu pugnasti cum vivi de alma casso

    e cum persone sciolte essendo preso:

    ché se eri, come già, libero e illeso,

    il Gallo non andria, come va, a spasso²⁵.

    Come si vede da queste due quartine, l’eroe ha ben poco di glorioso, poiché, menomato dall’amore, non è nemmeno in grado di opporsi al nemico francese.

    In un capitolo di pochi mesi posteriore, collocabile all’inizio del 1496²⁶, ritroviamo la stessa figura del duca condottiero offuscata e minorata dalla passione amorosa. L’incipit ribalta addirittura l’immagine del capitano glorioso che parte spavaldo a capo dell’esercito a mietere vittorie:

    Io me parti’ da te: s’io n’ebbi doglia

    sciallo il Po, sciallo l’empia navicella

    che portò via la exanimata spoglia;

    ché del gran pianto mio quel crebbe, e quella

    spinta da’ mei suspir’ corse qual penna,

    tal che fui spesso per perir cum ella,

    che, sforzata da quei, cadè l’antenna²⁷.

    Alla sofferenza e alla ripulsione iniziali, si aggiunge man mano l’indecisione, l’irrisolutezza, e quasi la paralisi:

    Ma il ciel, che nega a’ miseri il morire,

    fe’ che per più mio mal gionsi a Ravenna;

    qui me firmai, né mi sapea partire,

    trovando del tardar mio scuse molte:

    ma a chi ad altrui si dà, forza è obedire²⁸.

    E questa condizione iniziale di sconforto sfocia addirittura nel rovesciamento degli ideali e delle aspirazioni del condottiero:

    Partìme, e fra me mille e mille volte

    io maledissi la gloria e il guadagno,

    che fan serve venir le gente sciolte²⁹;

    La gloria e il denaro che sono i moventi essenziali del capitano di ventura vengono maledetti, mentre l’impegno militare viene paragonato ad una servitù.

    A completare questo quadro negativo, la malattia e la morte sembrano in agguato per vanificare ogni speranza di gloria:

    E che mi giovarà che il mondo dica

    di me, quando serò consumpto e spento?³⁰

    Al di là del modello di vita a cui l’uomo savio dovrebbe mirare (Quel mi par saggio, che soi giorni mena / cum letitia e piaceri e al fin camina / fuggendo più che pò travaglia e pena³¹), è proprio il concetto di gloria acquistata in guerra che viene contestato in nome di un ideale cristiano:

    credo che offenda la bontà divina

    chi la vita se abrevia e, aciò che lassi

    fama di sé, cerca l’altrui ruina³².

    Alla figura del capitano glorioso in guerra viene opposta quella del principe pacifico che si gode i piaceri del potere e dell’amore della donna prediletta:

    io ho la cità che il nome ebbe da Manto

    – più fertil, né più forte è terra alcuna –

    io ho subditi fideli, io ho te che me ami,

    che fra le donne te pòi dir sola una³³.

    Una terza situazione che mette in scena una visione antieroica della guerra è quella della malattia che impedisce al capitano di andare in guerra o che lo riduce in fin di vita al ritorno da una campagna, privandolo della gioia della gloria. Due componimenti illustrano questa condizione ingloriosa. Il primo, Non dubitar, che ’l tuo spirito invitto³⁴, ha per protagonista Annibale Bentivoglio. Il signore di Bologna, colpito da grave malattia, sembra minacciato nella sua stessa esistenza; ma lui, che ha già combattuto per salvare la Toscana dal nemico, non può morire perché è destinato ad una gloria paragonabile a quella dell’omonimo gran Cartaginese³⁵. Solo dopo una vita gloriosa, la morte verrà a coglierlo, come tutti noi. Apparentemente, il sonetto esalta le virtù militari del capitano; tuttavia, come avveniva nei componimenti sulle virtù militari di Francesco Gonzaga, la presenza della malattia e di una possibile morte ad apertura di componimento, e la ricomparsa della stessa morte, sebbene sia la nostra comune morte, alla fine del sonetto, incorniciando in qualche modo di nero le ipotetiche future prove di bravura militare del protagonista, sembrano anche qui offuscare l’immagine di gran condottiero che si vorrebbe dare al signore di Bologna.

    Ma ancora maggiormente degradata sembra la figura di Francesco Gonzaga nei componimenti in cui viene descritto colpito da grave malattia al suo ritorno dalla campagna napoletana del 1496. Il sonetto Vedendote de tante spoglie carco³⁶ ha per tema l’incontro fra il reduce gravemente malato e la moglie Isabella d’Este, venuta a trovarlo fino ad Ancona, a rincorarlo e a riportarlo nella sua Mantova:

    Vedendote de tante spoglie carco

    ritornar, la superba, invida, Morte

    cum febre et altre sue terribil’ scorte

    incontra se ti fe’, chiudendo il varco;

    e già t’avea di molta forza scarco,

    alhor che ’l rumor gionse a tua consorte,

    che corse a te non cum altre arme forte

    che cum gli occhi, coi quai gli spezò l’arco³⁷.

    Anche qua, sebbene il duca sia de tante spoglie carco, l’immagine che ne risulta è quella di un uomo fortemente indebolito, malato e vicino alla morte (cum febre et altre sue terribil’ scorte). L’unico soccorso gli viene dalla donna amata, la quale ferma la morte con il suo solo sguardo. Vi si può vedere una celebrazione del potere dell’amore, ma non è certo un’esaltazione della figura del capitano che torna vittorioso dalla guerra.

    Lo stesso episodio, in una versione ancora più cupa, ricompare nel capitolo Perso un tanto signore e i miei compagni³⁸, nel quale Francesco Gonzaga ripercorre in prima persona le dolorose vicende della sua vita:

    Perso un tanto signore e i miei compagni

    più cari, me invïai al natio loco,

    e il danno assai magior fu che i guadagni;

    e nel ritorno mio Morte non poco

    me spaventò, ma poi ritrasse il piede

    per aver del mio mal più longo gioco.

    E quando aver credea qualche mercede

    del sudor mio, da chi dovea farlo

    tolta fu per suspecta la mia fede;

    dissero ch’io avea pratiche cum Carlo:

    sciocca fiction! Chi me vetava in Hasti,

    in Puglia e a Parma, s’io voleva aitarlo?³⁹

    Qui, ancora più che nel sonetto, la gloria militare che sarebbe potuta scaturire dalla vittoriosa campagna napoletana è triplamente occultata: sia dalla malattia che lo colpisce sulla via del ritorno e gli toglie ogni possibilità di celebrazione trionfale delle sue vittorie, sia dalla morte del re per il quale ha combattuto (già evocata prima a proposito dei sonetti su questo tema), sia dall’accusa di tradimento e di collusione con il nemico, che sfocerà nella rottura dell’alleanza tra Venezia e Mantova. Con la vicenda di Francesco Gonzaga si giunge al punto più basso della svalutazione del prestigio del capitano in guerra, che si manifesta nel gesto patetico del duca sconfitto dalla fortuna che finisce con il deporre letteralmente le armi:

    Ecco la spada ch’io ho portata al fianco,

    Marte, ecco l’elmo e il scudo: io te lo rendo

    vestine uno altro, ch’io son satio e stanco⁴⁰.

    Ma, nella lirica del Tebaldeo, la guerra non porta solo all’indebolimento, alla malattia, alla morte e alla perdita di prestigio del condottiero: è anche rappresentata come fonte di sofferenza per le popolazioni civili. È una tematica derivata da tutta una tradizione classica, alla quale in tempi più recenti avevano reso un tributo, come abbiamo detto, sia il Petrarca delle canzoni politiche, sia il Boiardo della Pastorale. Ne sono testimoni due componimenti tebaldeani sulla guerra veneto-ferrarese degli anni 1482-84: il sonetto estravagante Ad Ferrariam⁴¹ e il capitolo Per dar riposo a l’affannata mente⁴² della raccolta canonica. Nelle due poesie, la guerra, come nelle egloghe boiardesche, viene considerata non come giusto strumento di difesa di indipendenza o di salvaguardia di un regime politico, bensì come strumento di distruzione che colpisce con particolare durezza la popolazione inerme:

    Non vedi lacerarne in ogni parte?

    Non odi i cridi e le querelle sparte

    e il gran rumore insino al ciel non senti?⁴³

    In questa guerra, l’onore stesso della città e del ducato incarnato dall’aquila viene ridicolizzato in una rappresentazione meschina e dolente:

    Guarda l’aquila tua fiaccata e stanca

    col tergo spenachiato e l’ale corte

    espettando che da te qualche succorso

    Provedi [...]⁴⁴

    Nel capitolo, che tratta della decadenza dell’Italia contemporanea, viene messo l’accento non solo sulle sofferenze generate dalla guerra, in quanto riattivazione di un topos, che l’iperbole, ispirata a modelli classici, tende a rinnovare:

    Ché poi che tra il Leone et Hercul nacque

    l’odio da cui la guerra principio ebbe,

    mai la mia patria de gridar non tacque;

    e tanto sopra lei l’incendio crebbe,

    che del regno troiano il caso duro,

    apresso questo, poco mal serebbe;

    non mai Thebani in tanta angustia furo,

    né a Carthago si sparse tanto sangue,

    né a Canne, di Roman’ sepulchro oscuro⁴⁵,

    ma aggiunge una componente di degrado morale, legata al tradimento degli alleati di Ferrara, che in breve tempo cambia le sorti della guerra da una probabile, seppur sofferta, vittoria, in una ingiusta e repentina disfatta:

    Poi che Venetia se era facta exangue

    e che Ferrara aver dovea victoria,

    abandonata fu, che anchor ne langue⁴⁶.

    Evidenziate le caratteristiche di quella che ho chiamato una guerra non epica, è lecito chiedersi che cosa le ha potute determinare. La risposta è senz’altro complessa e non univoca. Le cause vanno cercate nel contesto culturale e storico – ma forse più culturale che storico – di tale poesia. Se la condanna della guerra in sé, per le sofferenze e le distruzioni che provoca, è un topos presente in tutte le tradizioni letterarie, diversa è la contaminazione dei suoi presunti pregi di gloria con tematiche negative. Un primo punto saldo di questa indagine sta nel fatto che la poesia del Tebaldeo fa essenzialmente e fondamentalmente riferimento ai valori culturali ed etici dell’ambiente umanistico e cortigiano. Questi valori, anche se sono ereditati da una forma di civiltà cavalleresca, sono essenzialmente civili e morali, ed hanno poco da spartire con quelli in vigore nel mondo dei condottieri e dei grandi capitani di ventura. L’esigenza però di affrontare tali temi è determinata dal fatto che i signori di cui il poeta è chiamato ad elogiare le doti non sono solo principi di uno stato o magari comandanti di un esercito che ne custodia il potere, ma anche condottieri assoldati per fare la guerra per conto e a spese di altri signori o di altre repubbliche più potenti. Ne risulta che dovendo scegliere fra uno dei due profili, quello del signore rinascimentale o quello del capitano d’arme, Tebaldeo privilegia il primo per le sue doti di saggezza e di cuore a scapito dell’altro, che non potrà portarlo ad una gloria altrettanto pura e nobile quanto quella del buon principe e dell’uomo rapito dalla passione d’amore. Nella rappresentazione dei suoi personaggi Tebaldeo sceglie piuttosto la dimensione drammatica: l’infelicità provocata dal tradimento, l’impossibile attuazione di un amore anelato, l’inadeguatezza del tempo presente alla dimensione eroica, ormai irraggiungibile nei tempi moderni. La sua è anche una scelta di genere: quella di una lirica elegiaca (proprio nella linea degli elegiaci antichi, maggiori e minori, così presenti in tanti stilemi della sua poesia⁴⁷) e non quella dell’epica (che permette, nella fantasia del poeta e del lettore, di raggiungere la gloria nelle prodezze belliche). La sua rappresentazione non eroica della guerra è ovviamente anche legata ai suoi tempi. In un’epoca in cui, di fronte alle facili vittorie francesi, si manifesta tutta l’insufficienza della preparazione militare delle signorie e delle repubbliche italiane, un’epoca in cui la guerra sia regionale come quella tra Venezia e Ferrara, che nazionale con le incursioni degli eserciti stranieri in tutta Italia, semina, con un impatto inaudito, dovuto anche allo sviluppo dell’artiglieria, morte, distruzione e sofferenza, una rappresentazione minimamente eroica della guerra risulterebbe poco credibile. Vista in questa prospettiva, è infatti una guerra che non può derivare da una qualsiasi arte e che non può essere concepita in quanto espressione armata di una repubblica virtuosa destinata a difendere i propri valori, come di lì a poco l’avrebbe immaginata un Machiavelli nei suoi forzati ozi fiorentini.

    ¹ Opere de M./Antonio The-/baldeo da Ferra-/ra, Modena, Rococciola, 1498.

    ² Ci permettiamo di rinviare al cap. L’usus corrigendi, in A. Tebaldeo, Rime, a cura di T. Basile e J.-J. Marchand, Ferrara-Modena, Istituto di Studi Rinascimentali-Panini, 1989, vol. I, pp. 145-83, nonché al volume Ultima silloge per Isabella d’Este della stessa ed. (Ivi, vol. III 1, a cura di Jean-Jacques Marchand, Ferrara-Modena, Istituto di Studi Rinascimentali-Panini, 1992).

    ³ Cfr. F. Cavicchi, Poesie storico-politiche del Tebaldeo, in «Atti e Memorie della Deputazione ferrarese di storia patria», XVIII, 1908, pp. 1-74.

    ⁴ Risp. 28, 53 e 128 del Canzoniere.

    ⁵ Cfr. G. Baldassari, Unum in locum. Strategie macrotestuali nel Petrarca politico, Milano, Edizioni Universitarie di Lettere, Economia e Diritto, 2006, in partic. il cap. V Guerre fratricide e ideale crociato, nonché l’ampia bibliografia a pp. 245-74 prevalentemente dedicata al Petrarca politico. A proposito di questo tema in una stavagante petrachesca (n. 21) ci sia concesso rinviare al nostro art. L’estravagante politica "Quel ch’à nostra natura in sé più degno", in Estravaganti e disperse petrarchesche, a cura di C. Berra e P. Vecchi Galli, Milano, Cisalpino Editoriale Universitario, 2007, pp. 25-35. Va aggiunto che tale opposizione tra guerra giusta e guerra ingiusta è già presente nei poeti provenzali e in Dante.

    ⁶ Cfr. A. Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, Brescia, Morcelliana, 1980.

    ⁷ Che risalgono agli anni 1463-64.

    ⁸ L’antologia delle Bucoliche elegantissime, Firenze, Miscomini, 1482, comprendeva le egloghe di Girolamo Benivieni, Iacopo Fiorino de’ Buoninsegni e Francesco Arzocchi.

    ⁹ La egloghe I, II, IV, VIII, X.

    ¹⁰ Chiamata anche guerra di Ferrara o guerra del sale, ebbe due fasi: la prima, breve, vide i Veneziani invadere il ducato e minacciare direttamente le mura di Ferrara, provocando stragi e pestilenze. Nella seconda, dopo l’intervento del papa Sisto IV in favore di Ferrara, i Veneziani ripresero le ostilità che si conclusero, per tradimento degli alleati del duca, con la Pace di Bagnolo (4 agosto 1484), con la quale Ferrara cedeva a Venezia la maggior parte dei territori a Nord del Po.

    ¹¹ Cfr. F. Bausi, M. Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Le Lettere, 1993, pp. 136-37.

    ¹² La prima edizione completa è quella di A.Tebaldeo, Rime, a cura di J.-J. Marchand, Ferrara-Modena, Istituto di Studi Rinascimentali-Panini, voll. III 1 e III 2, 1992.

    ¹³ I carmi latini non sono stati ancora inventariati e rimangono in gran parte inediti. Cfr. N. Cannata Salamone, Per l’edizione del Tebaldeo latino. Il progetto Colocci-Bembo, in «Studi e Problemi di Critica Testuale», XLVII, 1993, pp. 49-76.

    ¹⁴ Cfr. il commento ai componimenti delle Rime della vulgata in A. Tebaldeo, Rime, a cura di T. Basile, Ferrara-Modena, Istituto di Studi Rinascimentali-Panini, vol. II 2, 1992 e in F. Cavicchi, Poesie storico-politiche..., cit.

    ¹⁵ Il marchese Francesco II Gonzaga (1466-1519) fu signore di Mantova dal 1484 alla morte ed uno dei più celebri condottieri dei suoi tempi. Sulla figura meno nota di Giovan Maria Gonzaga, cfr. A. Tebaldeo, Rime..., cit., vol. II 2, pp. 235 e 320.

    ¹⁶ Ivi, vol. II 1, pp. 468-72 (testo) e II 2, pp. 320-324 (commento). Capitolo 284.

    ¹⁷ Ivi, vv. 55-57 (p. 470).

    ¹⁸ Ivi, vv. 103-105 e 109-111 (p. 471)

    ¹⁹ Ivi, II 1, pp. 373-374

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