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Italy, my love
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E-book306 pagine4 ore

Italy, my love

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Info su questo ebook

L’incontro fortuito tra una coppia di giovani italiani e una di pensionati inglesi è l’occasione per conoscere una storia d’amore accaduta nell’Inghilterra della seconda guerra mondiale tra due giovani “nemici”: un prigioniero italiano e una studentessa inglese.
Sullo sfondo degli scenari di guerra di quegli anni e nel contesto della lunga prigionia sofferta dai soldati italiani in Gran Bretagna, un amore vince i pregiudizi, la diffidenza e i divieti imposti da un conflitto feroce.
Ma che cosa è rimasto, dopo cinquant’anni, di quell’amore invincibile?
Quale seguito ha avuto quel sogno? Come riusciranno i due innamorati a ritrovarsi?
Una corsa contro il tempo alla ricerca della verità è anche un viaggio tra i sentimenti di due generazioni sul significato della vita che l’Autore, con uno stile preciso, delicato e scorrevole, esplora attraverso i ricordi di uno dei protagonisti. E la verità acquista il sapore del thriller perché si ripercuote fino ai giorni nostri con confidenze segrete, fatti incomprensibili, colpi di scena dove il contributo della giovane coppia di italiani sarà determinante.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2019
ISBN9788863585537
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    Italy, my love - Domenico Del Monaco

    PRIMA PARTE

    1 - Una solitudine improvvisa

    Era una luminosa mattina di giugno. Il sole già alto nel cielo stendeva la sua luce calda sui tetti rossi delle case, ma non era ancora in grado di penetrare nelle strette vie del centro che potevano così godere più a lungo la frescura della notte. I passanti che occupavano quelle anguste stradine si attardavano a concludere gli acquisti nei luccicanti negozi di Belluno mentre Sara Cavinato, pallida e spaesata, risaliva a piccoli passi via Mezzaterra senza lasciarsi coinvolgere dalle grida degli ambulanti che popolavano le piazze, né dalle antiche architetture che tante volte si era fermata a esaminare con attenzione. Giunta nella piccola piazza del Mercato, circondata da storici palazzi medioevali, Sara, stanca e indifferente, non dedicò a quel luogo nemmeno uno sguardo.³ Avrebbe voluto piangere, ma non riusciva a versare neanche una delle lacrime che le allagavano il cuore. Camminava piegata su se stessa, confusa, titubante, astratta nei suoi indecifrabili pensieri. Si sforzava di tenere a distanza le immagini dolorose degli ultimi giorni, ma senza riuscirci. Da poco aveva perso il marito, Sergio, rimasto ucciso in un pauroso incidente stradale. Sconvolta da quell’evento così repentino, era stata costretta a rimettere ordine nella propria esistenza e a imbastire un nuovo schema di vita per affrontare alla bell’e meglio gli ultimi anni che ancora le restavano.

    Belluno è una città a misura d’uomo, curata e raccolta. Per questo i due coniugi avevano scelto di viverci, e qui avevano trascorso oltre quarant’anni; avevano cresciuto due figli e si apprestavano a godere insieme l’ultima stagione della vita, ma i loro progetti erano stati stravolti dal dramma.

    Il silenzio interiore che l’accompagnava lungo quello che, in altre circostanze, sarebbe stato un tranquillo percorso pedonale, rievocava duramente in lei un altro silenzio sinistro di appena qualche giorno prima, con le immagini spaventose dello scontro frontale che aveva coinvolto Sergio. Quelle scene raccapriccianti che aveva visto dopo poche ore dal fatto, occupavano con prepotenza la sua mente come lame taglienti che continuavano a torturarla. Voleva allontanarle dalla sua attenzione, ma quelle tornavano a scorrerle innanzi agli occhi con insistenza insopportabile finché, ripetendo a se stessa di non volersi abbandonare al dolore, con grande forza di volontà si tuffò nei ricordi del passato e respinse quella terribile imposizione.

    Si rivide a Feltre, durante una visita alla città dipinta, quando, insieme a Sergio, aveva accompagnato i ragazzi già grandicelli ad ammirare gli affreschi che decorano le case di via Mezzaterra, o durante l’affascinante passeggiata sul sentiero sopra Molveno, verso il Croz dell’Altissimo, nelle Dolomiti di Brenta; e ancora, la gita insieme ai bambini al lago del Mis, nella profonda gola incassata come un canyon tra i Monti del Sole e il monte Pizzocco, a sud di Agordo. Sergio portava sulle spalle il piccolo Paolo e Sara teneva per mano Daniela. Allegri, felici e chiassosi, avevano trascorso giorni pieni di serenità e spensieratezza. Si rivedeva nel Capodanno a Palermo, molti anni più tardi, sola con Sergio, quando a mezzanotte avevano brindato sulla spiaggia deserta con il sottofondo armonioso dello sciabordio del mare. Quelle immagini, simili a tante piccole luci rimaste accese per anni nel suo cuore, erano la traccia preziosa di un cammino sicuro che si era improvvisamente spezzato. Ricordandole, ne alimentava ancora la vita e in quelle scene di affetto e di intimo calore rivedeva il compagno che le era rimasto accanto per sempre. È possibile che basti un attimo per cambiarci la vita, per travolgerci in maniera così distruttiva e irreversibile? pensava avvilita. Apri gli occhi una mattina e ti ritrovi improvvisamente sola.

    Superata porta Dojona, con i grandi battenti di legno massiccio, a nord della città, Sara aveva raggiunto piazza del Teatro, prima di voltare a sinistra verso piazza dei Martiri, perché tante volte aveva sostato in quel luogo insieme al marito per ammirare l’eleganza dei palazzi che, come quinte di un’arena, chiudono quel grande spazio ellittico. Appassionata di storia dell’arte e di letteratura, con Sergio aveva paragonato quel luogo a un palcoscenico vivente poiché la parte inferiore di quel fondale, con i suoi archi, gli alti portici e le belle volte, era l’area dedicata abitualmente al passeggio, dove le persone si incontravano, si intrattenevano, si scambiavano parole di cortesia e sguardi interessati o si fermavano semplicemente ad aspettare che spiovesse, fino al giorno in cui, all’improvviso, uscivano di scena, proprio come adesso era toccato a Sergio.

    Quante volte sul Liston avevano ricordato la storia di quelle lontane famiglie, di quegli antichi edifici valorizzati da equilibri architettonici fuori dal tempo. E quante volte, osservando quello spazio scenico familiare, avevano evocato le stagioni della vita ritratte da Tiziano o da Van Dick, o i versi di Shakespeare quando ricorda che «Tutto il mondo è un palcoscenico». Quell’armonia che insieme a lui aveva apprezzato e decantato ripetutamente, adesso che era rimasta sola, le sembrava priva d’importanza. La morte abbattutasi in modo così brusco sulla sua quotidianità l’aveva sconvolta. Non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe venuta a cercare conforto proprio di fronte a quelle facciate di marmo bianco, adesso baciate dal sole.

    Faceva caldo e il sole illimpidiva quell’originale proscenio. Si era seduta su una panchina dei giardini prospicienti palazzo Cappellari e per un attimo sognò di essere ancora accanto a Sergio, una delle tante volte in cui lui le aveva detto: «Pensa come sarebbe bello assistere da qua a un’opera lirica, magari sotto le stelle, o ascoltare un concerto mentre alle spalle degli orchestrali scorre il passeggio abituale delle persone.»

    Lei lo osservava disincantata e gli rispondeva dubbiosa: «Accade solo nel sogno.»

    Sergio ironicamente le replicava: «Oppure quando saremo morti!»

    Adesso che quel passaggio si era effettivamente compiuto, Sara immaginò che il marito potesse almeno godere di quello spettacolo che l’aveva sempre affascinato e che tante volte aveva evocato.

    Si sentiva stanca, confusa e combattuta. Da una parte avrebbe voluto indugiare su quei ricordi rassicuranti, dall’altra era troppo doloroso richiamare le vicende del passato, dal momento che adesso doveva fare i conti con una nuova realtà: quella di andare avanti da sola. Le capacità non le mancavano, ma la perdita di Sergio, così improvvisa e amara, le aveva provocato uno shock che avrebbe richiesto un tempo lunghissimo per essere assorbito. Questa prospettiva la lasciò sgomenta, così, in un impeto di presunzione disperata, fece a se stessa la promessa di non pensare più a lui e ai ricordi che insieme avevano condiviso nel tempo.

    Una volta a casa, era affondata nella poltrona del suo piccolo studio e aveva iniziato a sfogliare controvoglia un giornale. Ma per quanto si concentrasse sulla lettura, non riusciva a togliersi dalla mente l’impegno frettoloso preso con se stessa, convinta adesso di aver compiuto un passo falso solamente perché era alla ricerca di una difesa, una protezione che la mettesse al riparo dal vuoto che sentiva crescere ogni giorno. E le ore intanto facevano fatica a passare. Non era tanto il peso della solitudine improvvisa a confonderle le idee, quanto le infinite cose che negli anni aveva condiviso con Sergio e che ora si facevano avanti a ogni istante, ricordandole senza posa la sua presenza: oggetti, pensieri, luoghi. Era impossibile non avvertirne la vicinanza.

    Rammentava persino gli ammonimenti che il marito le ripeteva spesso, soprattutto nei primi anni: «Devi mettere sempre gli scarponi per camminare in montagna, non usare le scarpette da tennis; chiudi il gas prima di uscire di casa e controlla di aver preso le chiavi»; e altri suggerimenti del genere, dato che lei era piuttosto frettolosa e distratta. Lo avrebbe rimpianto quando non ci sarebbe stato più, e solo allora si sarebbe ricordata dei consigli che le aveva dato in passato. Sara, che al contrario di lui era fatalista, gli rispondeva che se qualcosa fosse dovuta accadere sarebbe accaduta comunque, a prescindere dai suoi noiosi suggerimenti, che lei allora non riteneva necessari. Adesso, però, persino quei momenti la inondavano di affettuosa malinconia, mentre ammetteva: una cosa è sostituire un ruolo, un’altra sono le persone!

    Certo, il matrimonio non era stato un capolavoro. Come in tanti altri, le spine forse erano state più numerose delle rose, ma ciascuno dei due sapeva di avere un posto nel cuore dell’altro e questo aveva lasciato il segno.

    Al telefono i due figli, che dopo il funerale del padre erano ripartiti per le rispettive città di residenza, l’avevano consolata e le avevano ripetuto, senza saperlo, le stesse cose: «Ci vuole tempo, mamma, per digerire quello che è successo in modo così improvviso.»

    Sebbene l’avessero confortata e sostenuta, non avevano sciolto però i suoi dubbi. Se si fosse cullata nei ricordi più teneri legati al marito, la sua assenza l’avrebbe fatta soffrire anche più duramente e il suo recupero sarebbe stato più lungo; se al contrario si fosse imposta di dimenticarlo, come il giorno prima si era incautamente ripromessa di fare, si sarebbe affidata invece a un esercizio soltanto teorico, dal momento che la presenza del compagno era dappertutto. Rapida e sicura di fronte alla scelta di una strategia legale, era titubante e irrisoluta se doveva decidere di aspetti pertinenti il mondo degli affetti. Il conflitto tra ragione e sentimento era lontano dall’essere risolto e Sara Cavinato, ancora una volta nella sua vita, alla ragguardevole età di settant’anni, scelse di non scegliere, barcamenandosi tra i due corni del dilemma per limitare i danni psicologici che non sapeva evitare.

    Il sole caldo del pomeriggio era penetrato obliquamente nella stanza attraverso la finestra aperta per metà e un fascio di luce abbagliante aveva illuminato all’improvviso un angolo della libreria di fronte a lei. Richiamata da quell’intenso bagliore, il suo sguardo cadde su una vecchia fotografia contenuta in una cornice d’argento appoggiata proprio in quell’angolo, ora esposto al sole, e che aveva cominciato a emettere sfolgoranti riflessi: ritraeva due vecchi amici inglesi che insieme a Sergio aveva conosciuto alcuni anni addietro, immortalati nella piccola piazza di Cortina, ai piedi del campanile, durante una visita in Italia. Si chiamavano Emily e George. Attratta e un po’ sorpresa da quella banale coincidenza, Sara si avvicinò alla foto, la prese in mano e, osservandola più attentamente, lesse sul retro una data: 1993; subito dopo fu colpita dal fatto che Emily, in posa mentre sfoggiava uno dei suoi sfavillanti sorrisi, aveva sulla giacca un distintivo delle Dolomiti venete che Sergio le aveva regalato nel corso di quella vacanza.

    In un attimo riaffiorarono le immagini di quei giorni, quando l’amica inglese le aveva confidato la grande pena che portava nel cuore e che s’intrecciava sorprendentemente con la storia di un’Italia poco conosciuta e che proprio Emily le aveva rivelato. Il richiamo di quel racconto commovente fu immediato, e sebbene fossero passati oltre vent’anni da quell’incontro e i suoi ricordi fossero appannati, per caso si attivò in lei quel meccanismo psicologico per cui il pensiero della sofferenza patita dall’anziana amica si faceva usbergo e l’aiutava in qualche modo a rendere più sopportabile il proprio dolore.

    Come l’alcol annebbia la mente e la distrae per qualche tempo da un’angoscia tormentosa, così quel diversivo sembrò funzionare, perché più Sara si addentrava nella ricostruzione mnemonica della storia di Emily, più i suoi pensieri si allontanavano dalla realtà dolorosa di quei giorni. Ormai coinvolta da quei lontani ricordi, tirò fuori da un armadio un vecchio album di fotografie e cominciò a sfogliarne le prime pagine.

    2 - Edimburgo

    Sergio e Sara erano una coppia all’antica, non tanto per il fatto che si erano sposati nei lontani anni ’70, quando il matrimonio era ancora un valore condiviso, i giovani non manifestavano l’impazienza di oggi e non avevano idee stravaganti da sperimentare. Si sentivano una coppia all’antica perché entrambi credevano nei principi ricevuti dai genitori, consapevoli che solo un impegno comune li avrebbe aiutati ad affrontare le difficoltà della vita.

    Quell’intento perciò rappresentò un punto d’arrivo, dal momento che, soprattutto all’inizio, Sergio e Sara non si erano dimostrati capaci di valorizzare le proprie differenze. Al contrario, la loro istintiva visione individualista aveva prevalso su una prospettiva comune, ancora tutta da costruire. Non era stato facile entrare in quell’ottica, però si erano impegnati con volontà e determinazione, cosicché nel corso degli anni avevano visto ripagata la loro perseveranza.

    Si erano incontrati sul lavoro in occasione di una consulenza legale, quando Sergio Trevisan, contabile di un’importante società di Agordo, era stato chiamato a partecipare a un tavolo tecnico nel corso del quale aveva conosciuto e poi frequentato Sara Cavinato, dipendente di uno studio forense di Belluno. Quasi coetanei, si erano sposati un paio d’anni più tardi e avevano preso casa nel capoluogo affinché il lavoro di lei, ritenuto a torto o a ragione più importante, potesse beneficiare della vicinanza con la sede della sua attività professionale. Sergio, che era nato e viveva ad Agordo, aveva dovuto sobbarcarsi l’onere di fare ogni giorno i circa trenta chilometri per raggiungere l’azienda della quale sarebbe diventato un apprezzato manager.

    Sergio e Sara formavano, in realtà, una coppia imperfetta, quasi come il diavolo e l’acqua santa. Caparbi e determinati sul lavoro, si sentivano animati, specie nei primi anni di vita comune, da un desiderio egocentrico di competizione fra loro che li spingeva, forse eccessivamente, a dimostrare chi tra i due fosse il più bravo. Con il passare del tempo e conoscendosi meglio, questa pericolosa rivalità si era attenuata fino a scomparire, soprattutto quando difficoltà e problemi familiari avevano suggerito loro di unire le forze; a quel punto, grazie alla fermezza di carattere e agli insegnamenti ricevuti, anche la navigazione tra loro si era fatta più tranquilla. Sara, da capace avvocato, non solo era molto impegnata con la professione, ma si rivelò una donna intraprendente, amante della diplomazia e della dialettica. E tanto bastò per farsi notare nel suo ambiente di lavoro. Talvolta Sergio doveva assecondare le sue decisioni, in altri casi invece, avveniva il contrario, ma a entrambi toccava l’obbligo di trovare dei punti condivisi nell’interesse dell’azienda. In questo modo, se gli argomenti di lavoro finivano spesso per essere discussi anche fuori orario, provocando qualche polemica di troppo, la stessa metodologia serviva per agevolare un confronto sul piano personale.

    Di costituzione minuta e normale statura, Sara era un concentrato di energia e rapidità di decisioni, sia in casa che con il codice civile. Il suo viso ovale e luminoso, acceso da due attenti occhi chiari e da un sorriso spontaneo ma misurato che non lasciava molto tempo ai convenevoli, manifestava i segni di un’attività mentale vivace e sempre in fermento, con la battuta pronta e qualche risposta insidiosa. I capelli molto corti, di colore castano chiaro, lasciavano scoperta la fronte e accentuavano anche esteriormente il carattere indipendente, irrequieto, sbarazzino, e talvolta anche spigoloso.

    Sergio era per molti versi l’opposto, sia sul piano fisico che caratteriale. Alto e robusto, con gli occhi grigi e i capelli scuri pettinati all’indietro, era più pacato e riflessivo della moglie, ma comunque attento e scrupoloso come si conviene a un bravo commercialista. Meno pronto nel parlare, ma più accurato e pignolo nel definire i problemi o i temi di una discussione, era sempre concreto e diretto. Sergio si muoveva di rimessa e non gradiva mai scendere sul terreno delle polemiche per primo, sebbene fosse capace di colpire con sarcasmo quando ce ne fosse bisogno. Insomma, i due coniugi si integravano con successo quando riuscivano a evitare di punzecchiarsi a vicenda. I loro figli, Daniela e Paolo, come la maggior parte degli adolescenti, erano poco interessati alle vicende lavorative dei genitori, e quando Sara festeggiò un’importante promozione, capirono solamente che da allora in poi la mamma avrebbe guadagnato di più.

    Quella festa di primavera era stata l’occasione per incontrare i parenti e gli amici più stretti perché Sara era stata promossa responsabile della sezione commerciale e societaria dello studio legale, e in quegli anni di crescita economica si trattava di un riconoscimento importante, con un adeguato avanzamento di carriera.

    «Chissà come sarebbero contenti i miei genitori» aveva commentato quel giorno ad alta voce.

    Era rimasta orfana della mamma fin da ragazza e aveva perso il padre solo da un paio d’anni.

    «Ma loro sanno queste cose prima di noi» la consolò Sergio abbracciandola. Poi aggiunse: «Adesso però che hai avuto la bicicletta dovrai pedalare!»

    «Eh sì. Dovrai occuparti tu della casa ora», replicò, «perché non avrò più molto tempo.»

    E Sergio di rimando: «Per un po’ non potrai più andare a correre quando vuoi.»

    «E come farete con il vostro viaggio in Scozia già programmato?» incalzò Daniela preoccupata da quell’inciampo non previsto.

    «Ad agosto lo studio chiude, poi devo ancora consumare più di una settimana di ferie arretrate dello scorso anno» replicò la mamma con pacatezza.

    Daniela, la primogenita della coppia, era una ragazza riflessiva e posata, dunque più simile al padre, cui assomigliava anche fisicamente. Affascinata dal lavoro della madre, che citava spesso i codici, quelle affermazioni severe, lapidarie, avevano sulla giovane un richiamo inspiegabile, forse perché le percepiva come regole da seguire o forse come esempi che le trasmettevano sicurezza. Frequentava ancora il ginnasio, ma Daniela era già convinta: sarebbe diventata un principe del foro. Il fratello, al contrario, più piccolo di tre anni, era ancora attratto dal gioco e soprattutto dal calcio, che lo aiutava a scaricare un’ingente quantità di energie di cui il giovane era sempre ben fornito. Intraprendente e chiacchierone come la madre, Paolo taceva solo quando prendeva sonno, lasciando i genitori sfiniti anche per le sue continue richieste di coinvolgimento. Lo studio all’epoca lo interessava poco e solamente l’esempio di Daniela, che passava invece molte ore sui libri, riusciva a evitargli, in parte, brutte figure a scuola.

    Appassionata d’arte, Sara non perdeva occasione di visitare qualche museo, e in quell’amore per le arti figurative aveva coinvolto anche il marito che, alla fine, con sorpresa, aveva rivelato un interesse nascosto per le cose antiche, senza tuttavia accantonare la predilezione per la lingua inglese. Sergio aveva due anni in meno della moglie ed era molto legato alla sua terra. Amava le montagne dove era nato e cresciuto perché aveva raccolto l’eredità del nonno Giorgio, uno dei tanti alpini con barba e baffoni che durante la prima guerra mondiale aveva sacrificato la vita sul Col di Lana per difendere i confini della patria: non era stato un caso se quella montagna, dopo la guerra, era stata ribattezzata Col di sangue, perché la sua cima, rugginosa sotto i raggi del sole, si era intrisa del sacrificio dei soldati che a migliaia si erano immolati su di essa.

    Sergio non aveva conosciuto il nonno, ma ricordava i racconti che la nonna, da bambino, gli andava ripetendo, quando la sera, a distanza di anni dalla sua morte, pregava per lui. Era morto negli ultimi giorni di agosto del 1917, poco prima che le truppe italiane fossero trasferite sul Grappa, ma di lui non si seppe più nulla. Anche Sergio non aveva più i genitori e per questo, una volta diventato adulto, continuava a recarsi spesso ai piedi di quella montagna sulla quale, sovente, aveva camminato con suo padre, e dove nel 1938 era stato costruito un cimitero per i caduti della prima guerra mondiale: il sacrario di Pian dei Salisei. Lì riposano ancora oggi oltre quattromilasettecento soldati ignoti.

    Sara aveva coltivato lo studio dei classici e amava ragionare di filosofia. Spesso, prendendo spunto da una tela famosa, da una poesia o una pièce teatrale, si fermava a riflettere con il marito sul silenzioso trascorrere del tempo e sul sapore della vita. Il simbolismo che spesso accompagna quelle opere stimolava le loro meditazioni. Una tela, più delle altre, aveva guadagnato ai loro occhi grande interesse dalle pagine patinate di uno dei tanti libri di storia dell’arte che sfogliavano la sera. Era Le tre età dell’uomo del Tiziano, esposta a Edimburgo presso la National Gallery of Scotland, sulla quale sono ritratti in ordine sparso due pastori innamorati dagli sguardi penetranti, un vecchio che con due teschi nelle mani s’interroga su ciò che troverà dopo la morte, e due fanciulli innocenti, sereni e addormentati, sui quali veglia un vigile Cupido che si arrampica su un albero rinsecchito, espressione della caducità dell’amore sensuale.

    «Le stagioni della vita si succedono senza che ce ne accorgiamo», rifletteva Sara una sera a voce alta, «e passiamo così dal tempo dei giochi a quello dell’amore, della guerra, della saggezza, fino, inconsapevolmente, al vecchio pantalone» disse, per restare fedele all’immagine di Shakespeare in As you like it.

    «Però Shakespeare considerava per tutti lo stesso percorso» obiettò Sergio puntualmente, «come se ci fosse una scontata uniformità di tempi e di stati d’animo nell’essere umano.»

    «L’incontro con la morte è quanto mai personale, ma le fasi di attraversamento di quel labirinto che è l’esistenza restano pressoché le stesse» confermò l’avvocato, riconoscendo che se il drammaturgo inglese aveva descritto una sorta di stadiazione della vita, è altresì vero che non tutti arrivano a completare l’intero cammino. «Ma per chi lo porta a termine c’è, secondo te, maggiore soddisfazione quando arriva il momento di congedarsi?» chiese il marito incuriosito.

    «Non so se si possa parlare di soddisfazione», replicò Sara che ancora indugiava a riflettere, «credo anzi che il fattore tempo non sia l’elemento più importante.»

    «Sebbene ciascuno faccia ogni sforzo per restare, fino all’ultimo, attaccato alla terra» osservò banalmente Sergio che non aveva ancora afferrato il pensiero della moglie.

    Sara non rispose; non voleva essere distratta, e continuò a seguire il suo convincimento. Infine lo manifestò con chiarezza:

    «Se la morte ti sorprende quando hai realizzato i tuoi sogni», ricapitolò un attimo dopo, «forse sei più sereno perché ti senti in pace con la coscienza; concludi la tua vita sapendo di aver dato tutte, o quasi, le risposte alle domande che ti eri fatto o che ti erano state rivolte.»

    «E da questo punto di vista la durata dell’esistenza non è determinante» annotò Sergio.

    «Non lo è infatti» ribadì l’avvocato, favorevole a considerare la lunghezza della vita solo un appagamento relativo. Ricordò che anche Seneca aveva paragonato la stagione terrena a una commedia di cui non era importante la durata, ma la consapevolezza di come venisse spesa.⁵ E aggiunse: «Chi si avvicina alla morte lasciando aperte delle partite importanti, presto o tardi percepisce il peso

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