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Il sequestro del Giudice Nicola Coppola
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E-book179 pagine2 ore

Il sequestro del Giudice Nicola Coppola

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Info su questo ebook

Il rapimento del Giudice Nicola Coppola è stato uno dei più importanti fatti di brigantaggio del Meridione d'Italia, senz'altro quello di maggior risonanza dell'intero Matese. Da paladino della legalità e dell'ordine, il Coppola comunque ha rischiato di finire in galera per connivenza con i briganti!
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2019
ISBN9788831605847
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    Anteprima del libro

    Il sequestro del Giudice Nicola Coppola - Mario Martini

    moglie

    Il fenomeno brigantaggio

    Nel Medioevo non è facile stabilire una netta demarcazione fra gli atti delittuosi compiuti da ladri e ladruncoli di strada e quelli portati a termine invece da signorotti locali e dai tanti milites che opprimevano le popolazioni con ogni sorta di soprusi.

    Dal XIII secolo si cominciò a diffondere un brigantaggio dagli aspetti più definiti, con la presenza di numerosi banditi ed esuli. In quell’epoca si ricorreva al bando dei criminali, ma anche degli avversari politici o, più semplicemente, delle persone particolarmente agiate perché era così possibile sequestrare il loro patrimonio: queste persone estromesse dai loro paesi, per sopravvivere, non potevano fare altro che aggredire mercanti e viaggiatori, spesso riunendosi in gruppi, alcuni anche particolarmente agguerriti.

    Bisogna comunque attendere il XVI secolo perché il fenomeno, oltre a manifestarsi su larga scala, acquisti una particolare considerazione.

    Nel basso Lazio, per reprimerlo già fu necessario l’intervento del Governo centrale. Qui e in Abruzzo, la maggior parte delle grosse bande erano formate, oltre che da fuoriusciti, da pastori e contadini: i primi iniziando con furti di bestiame, i secondi indottivi dalla fame. I pastori-briganti ben conoscevano i territori su cui operavano e perciò più facilmente potevano ripararsi dalle repressioni.

    briganti catturati dai Carabinieri Reali

    E la repressione diventava sempre più difficile ed impegnativa tanto che il prefetto napoletano Carlo Loffredo, con il consenso del Viceré, pensò bene di concedere salvacondotti e indulti convincendo briganti ed esuli ad arruolarsi per la guerra delle Fiandre. Ciò spiega quanto poco ci sia di differenza tra brigante e soldato e, per evitare la ripresa del fenomeno più tardi, si diede vita alle milizie cittadine.

    Quanto accadeva a Napoli veniva facilmente emulato nell’entroterra: nel 1647, per esempio, mentre nella città Masaniello provocava disordini, una comitiva di ben seicento briganti, al comando di Giuseppe Rezze, collegato con la banda Papone, si diede a saccheggi ed estorsioni, fino a quando non fu affrontato e sconfitto da Giacomo Valente da Sora.

    Preoccupati di un eventuale attacco delle truppe francesi, lungo tutto il confine con lo Stato Pontificio, vennero schierati ben cinquantunomila uomini, ma una epidemia gettò nello scompiglio i soldati, molti dei quali disertarono dandosi alla macchia. Si riunirono, successivamente, in bande particolarmente attive in una zona di confine dove più facile era il contrabbando, costringendo paesi e città a ridurre al minimo le vie di ingresso, per evitare il loro preoccupante imperversare.

    Alla fine del luglio 1798, le truppe napoletane furono sconfitte dal Generale Championnet e, un po’ dappertutto, iniziarono a stabilirsi amministrazioni municipali provvisorie. Ma la classe conservatrice riuscì a manovrare le masse popolari, favorita anche dal comportamento degli occupanti che si abbandonavano volentieri a furti e rapine e, soprattutto, non rispettavano i religiosi e le loro istituzioni, e ad incitarle alla rivolta, cosa che fece direttamente anche Ferdinando IV. Così contadini ed artigiani, ma anche criminali, si armarono come meglio potettero istigati da capipopolo, preti e frati.

    L’anno successivo, uno tra i briganti più feroci e sanguinari, Gaetano Mammone, venne addirittura definito da Sua Maestà il Re nostro amico e generale e vero sostegno del Trono!

    E’ comunque riconosciuto che l’azione dei briganti, appoggiati dalle popolazioni dei territori in cui imperversavano, per il fatto che si ergevano – a torto – a difensori dei poveri, risultò determinante contro i Francesi, che comunque reagirono costringendo i rivoltosi a duri scontri a fuoco.

    Durante la seconda coalizione, le forze austriache e quelle russe misero in difficoltà i Francesi, i quali si accanirono proprio con le popolazioni che avevano dato rifugio ai briganti.

    Nel mese di giugno dello stesso anno, i Borbone ripresero il pieno potere e i transalpini furono costretti ad abbandonare i territori occupati.

    Nel 1800, Napoleone venne in Italia per la seconda volta, sconfisse gli Austriaci ed ordinò al Maresciallo Massena di invadere il Regno Borbonico: ancora una volta le popolazioni e le comitive brigantesche si prepararono alla resistenza, secondo i propri usi e costumi, forze e abilità.

    Nella nostra Terra di Lavoro, e sempre lungo il confine con lo Stato Pontificio, scorazzava Fra Diavolo, ossia Michele Pezza, famoso bandito nativo di Itri. Audace, spietato, abile e valoroso, soprattutto un diavolo imprendibile, rendeva difficile per tutti passare lungo le strade che da Roma portavano a Napoli: assaliva, derubava e uccideva sempre le sue prede (soldati, corrieri e viaggiatori). Su di lui pendeva una grossa taglia ma, nel 1806, vestì i panni di generale borbonico allorché fu chiamato  a difendere Sora dall’assalto dei Francesi, contro i quali aveva già spinto, con successo, le popolazioni di Alvito e di Atina. Comunque Sora cadde nelle mani dei Francesi e a Fra Diavolo non restò che rifugiarsi sulle montagne. Il nuovo Governo, durato fino al 1815, grazie ad efficaci azioni di polizia, riuscì a domare il fenomeno brigantesco che, però, dall’altra parte del confine riprese con forte vigore e con alcune azioni di grande rilievo, come il tentato rapimento di Luciano Bonaparte e il sequestro di un colonnello austriaco, il Conte di Condenhaven mentre era in viaggio proprio per la capitale borbonica.

    Charles De Chatillon: Il brigante de Cesaris

    (basso Lazio )- gouache

    Famiglia di briganti (basso Lazio)

    monogrammista AB - olio su tavola

    Più si avvicinava l’unità d’Italia, più nei territori del regno borbonico ci si organizzava a favore di Francesco II, il re deposto, e quasi sempre la resistenza era organizzata da capi briganti. Emblematico il caso di Chiavone, il brigante sorano Giusepe De Cesaris, ex guardaboschi, che, indossando la divisa di generale borbonico, riuscì a radunare attorno a sé un migliaio di compari tanto che Francesco II gli attribuì il titolo di Cavaliere e Comandante delle armi borboniche nel Sorano. In questa veste combatte contro i Piemontesi, saccheggiando e occupando diversi centri lungo il confine. Grazie alle simpatie e all’appoggio di religiosi e reazionari, riuscì ad avere tanta influenza in questi territori e spesso trovò ospitalità – portando con sé anche i soldati regolari – proprio nei conventi e nelle abbazie (Casamari, Trisulti, ecc.).

    Nel 1861, cadde l’ultimo baluardo dei Borbone: Gaeta. Chiavone fu preso e fucilato proprio nei pressi della Certosa di Trisulti. Ma in Terra di Lavoro, come nelle altre province meridionali, il brigantaggio imperversò ancora per oltre un decennio, con alla ribalta personaggi come Domenico Fuoco (che venne anche sul Matese) e con altri che non ebbero difficoltà a passare da una sponda all’altra, prima soldati borbonici, addirittura combattenti contro Garibaldi a Calatafimi, e poi al soldo del Papa!

    Francesco II di Borbone, ultimo re del Regno delle Due Sicilie, e la Regina Maria Sofia, chiamata affettuosamente Spatz – passerotto

    L’episodio che qui racconto fu proposto dall’indimenticabile Giuliano Palumbo, sicuramente il più appassionato, attento e scrupoloso studioso del brigantaggio sul Matese, quando anche Piedimonte aveva le sue radio-libere. Giuliano mise in onda per alcune puntate il fatto storico legato al sequestro del Giudice Coppola, ricostruendolo puntigliosamente dal contenuto dei verbali redatti dalle diverse autorità che ebbero a che fare con l’accaduto.

    Trattasi di un momento importante e particolare della storia della nostra terra, perché quanto avvenne nel decennio post-unitario nelle regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie fu semplicemente bollato solo come brigantaggio, da reprimere con le fucilazioni, senza alcun serio tentativo di capire in che modo quelle terre erano diventate la nuova frontiera dell’Italia unita.

    Mi è fatto obbligo ringraziare quanti hanno contribuito alla realizzazione di questo lavoro: Alessandro (Sandro) Scorciarini Coppola con il suo prezioso ed ancora … inesplorato archivio e la sorella Carolina che ha avuto l’ingrato compito di rivedere la bozza; il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri per alcuni preziosi documenti; Vittorio Imperadore con appunti e lettere davvero interessanti;  Fernando Occhibove per la elaborazione delle planimetrie e delle foto (alcune planimetrie sono attuali per rendere più facilmente individuabili i percorsi).

    l’Autore

    Il brigantaggio sul Matese

    I Piemontesi giunsero nel napoletano completamente impreparati, sia sul piano militare che, soprattutto, psicologico. In Lombardia e in Toscana, per esempio, la reazione si era subito risolta in ambito politico; nel territorio partenopeo, invece, dovettero far fronte  ad una vera e propria guerra civile  per il rifiuto al regime unitario. Furono tratti in  inganno, quelli del nord, dall’entusiasmo attorno alla figura di Garibaldi e nulla lasciava presagire un comportamento completamente opposto. In luogo dell’accoglienza festosa ai liberatori dal vecchio regime – quello borbonico – si manifestò subito una spietata guerriglia contro di essi, in più con azioni imprevedibili e su un terreno a loro completamente sconosciuto, tanto da indurre il Gen. Cadorna a scrivere che "si guerreggiavano i briganti con sistemi troppo simili a quelli delle truppe regolari, cioè con operazioni sistematiche quasi avessimo di fronte truppe nelle stesse nostre condizioni".

    A questo punto va aperta una parentesi. I capi briganti, resisi conto della impossibilità di far fronte alla nuova e più incisiva repressione da parte delle forze di sicurezza, furono costretti a modificare la tattica delle loro operazioni, abbandonando le grosse formazioni e dando luogo a piccole comitive, decisamente più pratiche e sicuramente più controllabili.

    Abbandonarono così le azioni a vasto raggio, come per esempio l’assalto ad interi centri abitati, per dar corso a interventi mirati. In luogo dello scontro frontale con i reparti dell’esercito piemontese preferirono prendere di mira le lente colonne militari in movimento: le colpivano con scariche di fucileria su di un fianco, causando già forti perdite, per spostarsi poi e minarle sul fronte opposto. E tutto ciò avveniva in luoghi che permettevano loro di ritirarsi immediatamente sulle montagne dove era più facile far perdere le tracce.

    Non era necessario scendere in piazza per conoscere le mosse dei reparti, giacché potevano contare su di una fitta rete di informatori e fiancheggiatori quasi sempre costituita da pastori e da carbonari. Chiusa parentesi, ma sulla loro tattica ritorneremo.

    Di più. Gli ufficiali piemontesi non sapevano abbinare l’equipaggiamento dei propri sottoposti alle azioni da compiere e, spesso e inevitabilmente, veniva tolta ai soldati la necessaria agilità  per contrastare i celeri movimenti dei briganti. Se a questo si aggiunge che, soltanto nel 1863, i reggimenti operanti nel napoletano furono dotati di carabina e che tale arma all’inizio venne accolta con un certo scetticismo, se non addirittura con ostilità, il quadro è completo!

    Il 6 settembre 1860, Francesco II lasciò Napoli per trovare rifugio nella più sicura fortezza di Gaeta, ma comunque continuò ad avere il rispetto e il sostegno dei suoi sudditi, tanto che questi si ricompattarono tra Capua e Caserta, alla destra del Volturno, e al grido di Viva il Re! chiedevano armi per combattere gli invasori. Il piano dei Borbone prevedeva una sola battaglia campale che avrebbe risolto la disputa con garibaldini e piemontesi qualora questi avessero varcato la frontiera.

    In Terra di Lavoro, nel Beneventano e nel Molise ci fu subito tanto entusiasmo e in pochi giorni "folti gruppi di cafoni, non di rado sostenuti da militari regi, regolari  o che scorrevano la campagna, liberarono i detenuti, attaccarono reparti garibaldini e corpi volontari, misero in fuga i proprietari terrieri, ne saccheggiarono le abitazioni e, in numerose località ristabilirono il vecchio stato di cose. L’insurrezione del distretto di Piedimonte d’Alife, investì pure e in breve volgere di tempo, l’intera area del Matese. Dal 16 al 21 settembre, contadini armati di scure e falci, percorsero le vie di Caiazzo tumultuando al grido di Viva Francesco II; si sollevarono i montanari di

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