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Otto Lustri
Otto Lustri
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E-book319 pagine4 ore

Otto Lustri

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Info su questo ebook

"Otto Lustri" è la somma degli anni dell'autore di una storia vera, drammatica e in parte vissuta di cui mettere insieme cocci e testimonianze.

Una saga familiare tutta italiana, partenopea, che affonda le radici nella Napoli di inizio Novecento e arriva ai giorni nostri, senza concludersi, a questa Italia diversa, meravigliosa e contraddittoria che tutti conosciamo.

La storia di Luigi, ragazzino felice, bello e sano, diventato uomo sofferente troppo in fretta. Scaturiscono da un'abominevole violenza vicende di un romanzo ancora in corso che è tutt'altro che finzione.

Tra ingiustizie sociali, drammi quotidiani, amori negati, passioni e amicizia, violenze e abusi, strutture inefficienti e istituzioni ostili, si muovono persone - non personaggi - dignitose che cantano e portano la croce, a testa alta, per invertire la rotta alla nave Destino. Una prosa che è testimonianza: schizofrenia, disagio, miseria, ma anche amicizia, affetti, volontà e mento all'insù di chi, alla lunga, capisce di poter fare affidamento solo su se stesso.

LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2017
ISBN9788826029481
Otto Lustri

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    Anteprima del libro

    Otto Lustri - Salvatore Farina

    Salvatore Farina

    Otto illustri

    UUID: e20ec86c-f362-11e6-8322-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Piccola nota dell'autore

    ​Felicità, fino all'arrivo di un guappo

    Infanzia spezzata

    Un matrimonio all'italiana

    L'abisso della follia

    Tra un abbandono e l'altro

    Ancora felicità negata

    La storia si ripete

    Tragedia a portata di mano

    Recluse

    ​Trema la terra

    Altri cocci da raccogliere

    L'uscita di scena di don Gennaro

    Lo spettro della depressione

    Amici

    Viaggio all’inferno

    Cosa fa un vero padre

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Piccola nota dell'autore

    Inizio a respirare nel febbraio del 1975, a Napoli.

    Avevo dieci anni quando, in estate, finita la scuola, passavo alcuni giorni a casa dei nonni paterni. Lì c’era una stanza da pranzo dove la famiglia di mio padre conservava gelosamente una vecchia macchina da scrivere. Così, dentro i pomeriggi roventi delle vacanze estive, rimandavo alle ore più fresche le partite di calcio con gli amici, approfittando della siesta dei nonni per battere a macchina, di nascosto.

    Avvicinavo la macchina da scrivere alla finestra, da cui, col vento a favore, arrivava sempre un odore inebriante di fiori e di legno asciugato dal sole; un toccasana per iniziare a picchiare i tasti.

    Inserivo il supporto di fortuna - foglio protocollo a righe, trovato in giro e in parte già utilizzato - e mettevo un po' di forza nelle dita, marcando l’inchiostro sbiadito a suon di caratteri e parole.

    Erano lettere che cestinavo subito dopo. No, non le avrei mai spedite, perché erano indirizzate al mio miglior amico di allora o a mia madre.

    Non le avrei mai spedite, certo che no; perché probabilmente sarei stato deriso. Almeno, questo era ciò che pensavo. Ché non ha senso scrivere lettere a chi hai lasciato solo il giorno prima, a chi rivedrai soltanto qualche giorno dopo.

    Ma quello per me era un modo per combattere la canicola estiva, farmi amica la noia; era il mio modo di scrivere. Di raccontare.

    Un'altra cosa a cui penso spesso è che, non so se per sfortuna o fortuna, a torto o ragione, se lasci la città dove sono nato io, rischi di desiderala come un carcerato, dopo anni e anni di dura detenzione, desidererebbe la libertà.

    Se invece ci vivi, a Napoli, inizi a lamentarti di tutto quello che non funziona e ti viene in mente di andar via. Ma se ti capita di farlo davvero, di abbandonare la tua città, ti accorgi dell’errore, immediatamente, perché allontanarsi da Napoli, è un po’ come lasciare una brava ragazza: capisci quanto era speciale solo quando ti separi da lei.

    Non vorrei essere banale, non vorrei ripetermi: i difetti di Napoli già li conosciamo. Tuttavia ci tengo a sottolineare che, capitale di un regno fiorente e all'avanguardia, Napoli è stata la prima città europea ad avere la ferrovia e il teatro, la prima in cui siano state costruite le condutture per l’acqua.

    È stata culla di personaggi del calibro di Totò, Eduardo De Filippo, Sophia Loren, Massimo Troisi, Pino Daniele e molti altri ancora.

    Napoli è la città dove ha avuto luogo questa storia.

    E due, solo due, sono gli elementi chiave di ogni avvenimento che leggerete: un maledetto giorno del lontano 1938 e una donna ingannata.

    ​Felicità, fino all'arrivo di un guappo

    Napoli, 1928. Borgo Loreto, quartiere in pieno centro storico, situato proprio di fronte al porto.

    All'età di ventinove anni, Ciro Aniello sposò Assunta, più giovane di lui di quattro anni.

    Dal matrimonio nacquero due splendidi gemelli, maschi, una meravigliosa sorpresa per il tempo, una specie di miracolo, perché in quegli anni si partoriva in casa, senza assistenza medica, e ci si affidava a una levatrice, a Dio o a san Gennaro.

    Il tasso di mortalità legato al parto era altissimo.

    Casa Aniello non sfuggì a questa triste sentenza e, appena nato e ancora privo di nome, uno dei due gemelli abbandonò questo mondo, mentre il sopravvissuto venne chiamato Luigi, come il nonno defunto, il padre di don Ciro.

    Luigi: un maschietto gagliardo e in salute, bello come il sole della sua Napoli.

    Don Ciro era un piccolo imprenditore, aveva una trattoria in città ed era chiamato sciarmantone, termine che a Napoli può assumere diversi significati, ma che nel caso dell'oste significava donnaiolo, gentiluomo, persona generosa.

    Donna Assunta era una donna semplice e bellissima, dai tratti vagamente spagnoli. Casalinga, come quasi tutte le donne dell’epoca, ogni tanto dava una mano al marito in trattoria.

    Gli anni scorrevano sereni nella piccola famiglia e Luigi cresceva bello e sano. Assunta aveva anche una sorella, Anna, completamente diversa da lei, poco solare e per niente attraente: una zitella sciatta, innamorata del cognato, don Ciro, e morbosamente gelosa del rapporto tra l'uomo oggetto dei suoi desideri e l'ignara sorella.

    Poco distante da casa Aniello, viveva un uomo chiamato il guappo, che si era invaghito di donna Assunta, peraltro senza nasconderlo, sebbene sapesse che la donna era sposata.

    Guappo, nella Napoli del primo Novecento, era il soprannome del camorrista di punta del quartiere e il personaggio di cui stiamo parlando guappo lo era davvero. Temuto e rispettato da tutti, l'uomo corteggiava donna Assunta nell'unica occasione possibile: quando la moglie di don Ciro usciva per fare la spesa. A quel punto il guappo la seguiva a breve distanza, dal suo calesse con la cappotta rossa, trainato da un cavallo nero come la pece.

    «Donna Assunta, buongiorno! I miei rispetti!» le disse un giorno.

    «Buongiorno!» rispose la signora.

    «Siete sempre bellissima!»

    «Grazie, ma... come sapete, sono maritata! Non dovrei manco parlarvi!» ribatté Assunta accigliata.

    «Anche se siete maritata, siete lo stesso bella. Sembrate una spagnola, sapete? Vi offendete se vi offro un caffè?» insistette l’uomo, continuando con complimenti inopportuni, ad alta voce.

    «Sì! Mi offendo, lasciatemi stare, per piacere!»

    E dopo l'ennesima negazione, il guappo, senza rispondere, proseguì a bordo del calesse.

    Ma aveva l’aria risentita.

    Quando donna Assunta rientrò in casa, non ne fece parola con il marito, pensò saggiamente di evitare una reazione sconsiderata di Ciro e le sue probabili conseguenze.

    In quei giorni, gli affari dell'attività di famiglia proseguivano a gonfie vele. Col passare del tempo, in Anna, sempre più gelosa, crescevano a dismisura risentimento e invidia verso la sorella che conduceva una vita serena con il marito e il piccolo Luigi, che cresceva bello e sorridente.

    Gli appostamenti del guappo si fecero di giorno in giorno più pressanti e aggressivi; appena Assunta usciva di casa, l'uomo, il calesse e il cavallo nero erano sempre pronti e scalpitanti dietro l’angolo.

    «Donna Assunta, buongiorno, i miei omaggi!»

    Un giorno il guappo si tolse persino la coppola in segno di sottomissione e rispetto verso di lei.

    La donna nemmeno rispose e, contrariata, proseguì a passo spedito per la propria strada, con la borsa della spesa in mano.

    Con un gesto improvviso, il guappo lanciò la coppola ai suoi piedi come per dire: «Beh, nemmeno mi rispondi?» Poi, furioso, tirò anch'egli dritto, a bordo dell'inseparabile calesse.

    Rincasando, ogni volta donna Assunta optava per non dire nulla al marito, preoccupata e attenta a evitare dissapori potenzialmente letali tra uomini.

    Dal canto suo, Don Ciro ‘o sciarmantone era uno che apprezzava le belle donne e si cimentava spesso e volentieri nell'arte del corteggiamento.

    Donna Assunta scendeva sempre meno in strada per far la spesa, era sempre più evidente che qualcosa non andasse. Semplicemente voleva evitare l'asfissiante corte del guappo e mandava ogni giorno qualcuno della trattoria per compere e commissioni necessarie. Se proprio decideva di uscire, lo faceva solo in compagnia del marito, che restava all’oscuro dei motivi del suo disagio.

    Non vedendo da parecchi giorni donna Assunta nei paraggi, il guappo pensò bene di appostarsi col calesse proprio sotto il balcone di don Ciro. Di tanto in tanto, il corteggiatore alzava il capo senza coppola, nella speranza di vedere meglio Assunta, qualora si fosse affacciata. E non si preoccupava minimamente della curiosità della gente intorno che iniziava a chiacchierare e a chiedersi cosa facesse la carrozza del guappo ferma lì.

    Nei quartieri più popolari come Borgo Loreto, alcuni atteggiamenti, certe novità, si notavano e si notano subito, ieri come oggi. Il salumiere, il macellaio, il sarto, il fruttivendolo, insomma il popolo partenopeo tutto, alla prima occasione utile si riuniva per inciuciare.

    Avvilita e proprio per evitare eventuali inciuci, donna Assunta decise un giorno di scendere in strada e affrontare coraggiosamente il guappo.

    «Si può sapere cosa volete da me? Io sono maritata con don Ciro! Che cosa aspettate, che glielo dica?» urlò esacerbata.

    Stupito, lì per lì il camorrista rimase senza parole, ma la risposta non tardò ad arrivare.

    «Donna Assunta, era questo il problema? Voi veramente pensate che uno come me abbia paura di un semplice cameriere che vorrebbe fare l’imprenditore?» replicò l'altro spavaldo.

    «Sentite: noi vogliamo essere solo lasciati in pace! Non abbiamo fatto nulla di male!»

    «Se io voglio, cancello tuo marito dalla faccia della terra con un solo colpo di pistola!»

    Il guappo era passato ai modi ruvidi e alle maniere forti, mostrando poco rispetto consapevolmente, dando direttamente del tu alla signora.

    Donna Assunta non replicò; impaurita, tornò a casa di corsa, disperata e in lacrime, e da quel giorno ridusse ulteriormente le uscite.

    Dormiva poco durante la notte ed era sempre più agitata, la corte ossessiva e spietata del guappo la stava logorando, mentre il marito distratto da altro - e da altre -, non dava molto peso alle sue sofferenze. Forse don Ciro pensava che fosse la crescita del bambino a impensierire la moglie, che invece soffriva dignitosamente e in silenzio, per difendere tranquillità e onore.

    L’inevitabile accadde nel 1932.

    Erano mesi che ormai donna Assunta non usciva di casa e, credendo che la situazione si fosse assestata, che il guappo si fosse rassegnato, decise di scendere a fare la spesa. Da sola.

    Dietro l’angolo, quasi fosse fermo lì da sempre, spuntò il cavallo nero con il calesse a rimorchio. Donna Assunta vide la scena con la coda dell’occhio, abbassò la testa e affrettò il passo, ma inutilmente.

    Il guappo le si affiancò con tutta la carrozza, sentendosi in trappola, in un vicolo isolato, donna Assunta parlò decisa.

    «Vi avevo pregato di lasciarmi in pace!»

    Il guappo tirò bruscamente le redini e il calesse si fermò di colpo. La donna si fermò impietrita. Attimi di studio e paura, silenzio tombale. Si guardarono negli occhi e fu un attimo: il guappo estrasse la pistola, puntandola su donna Assunta.

    «Ora, se non scegli me… ti ammazzo! Parola d’onore!» intimò.

    «No!» urlò in lacrime la donna, spaventata ma risoluta al tempo stesso, mentre il corteggiatore inferocito per l'ennesimo rifiuto, fece pressione sul grilletto.

    Contemporaneamente, il cavallo spostò il calesse quel tanto che bastava a far sì che il suo padrone mancasse il bersaglio.

    Mi piace immaginare che quel cavallo nero avesse un cuore e che, testimone forzato ormai da anni degli omicidi del guappo, quella volta avesse deciso di sventare volutamente l'assassinio di una madre di famiglia innocente. Perché, come conseguenza di quel movimento provvidenziale, il guappo mancò il bersaglio, sparando due colpi a vuoto, ai piedi della malcapitata.

    Donna Assunta rimase di sasso, terrorizzata, mentre l’uomo furibondo mise da parte la pistola frettolosamente e colpì forte, col frustino, il cavallo che nitrì di dolore e partì di corsa, trascinando il calesse tra la polvere.

    Quando ritornò a casa, inebetita dallo spavento, Assunta entrò senza sentire il piccolo Luigi che la chiamava; e si sdraiò sul letto, scossa dai brividi.

    Erano gli anni in cui si stava affermando il fascismo, entrato presto nella mentalità italiana dell’epoca. Napoli, Milano e Roma si stavano evolvendo e ampliando a vista d'occhio e quella indicata da Benito Mussolini sembrava l’unica direzione, non solo politica, da seguire.

    Anna era sempre più interessata e attratta dal cognato, ma l'ostacolo maggiore, per ovvi motivi, rimaneva sempre la sorella. Non aveva mai considerato Assunta sangue del suo sangue, anzi la vedeva quasi come una nemica da combattere. Sin da bambina, aveva sempre sofferto quando un parente, un amico o un vicino rilevavano le differenze di bellezza e di carattere tra loro.

    L’astio che Anna nutriva per la sorella durava da anni. Da sempre.

    Durante il fidanzamento tra donna Assunta e don Ciro, Anna ascoltava spesso, di nascosto, le conversazioni tra i due fidanzati in salotto. Dal suo nascondiglio li sentiva ridere e scherzare, e origliava mentre progettavano il matrimonio o parlavano di figli e futuro. L’invidia la divorava, era sempre arrabbiata con il mondo intero e odiava profondamente la sorella che invece, almeno fino alla comparsa del guappo, era l’incarnazione della felicità.

    Viva per miracolo, nei giorni successivi all'attentato, donna Assunta rimase a letto con una febbre alta e sospetta, e fu proprio Anna, controvoglia, a prendersi cura di lei.

    Assunta peggiorava di giorno in giorno, e ci vollero tre diversi dottori, per capire quale fosse il suo male realmente. Aveva il viso sempre più pallido e dimagriva a vista d’occhio. Era arrivata al punto di non riconoscere più Luigi, che aveva ormai quattro anni.

    In una di quelle sere di sofferenza e malattia, don Ciro venne a scoprire l’amara verità, grazie ad alcune donne del quartiere che da lontano avevano assistito a quella che con tutta probabilità era la causa delle condizioni di donna Assunta.

    La vera delusione per don Ciro fu che i suoi amici, i commercianti del quartiere, non lo avessero avvertito, pur essendo a conoscenza dei fatti.

    Una sera, anche don Antonio, il salumiere, don Ernesto, il macellaio e don Michele, il sarto, andarono a casa degli Aniello. I tre, visibilmente impauriti perché non sapevano quale reazione potesse avere lo sciarmantone per il loro silenzio, si presentarono alla porta: don Ernesto era un gigante buono, alto un metro e novanta, pesava centoventi chili ed era un po' calvo, don Antonio, di statura media, aveva i capelli leggermente brizzolati, mentre don Michele, alto quanto bastava, aveva carnagione e capelli scuri, tirati indietro con la brillantina.

    Fu il macellaio a parlare per primo: «Don Ciro, noi siamo mortificati! Donna Assunta è una cara amica, una bravissima ragazza e un’ottima madre di famiglia… Ecco, noi…»

    Ma don Ciro stroncò subito le sue chiacchiere e, rivolgendosi a tutti e tre gli amici, espresse la propria opinione gridando.

    «Siete gente di merda!» esordì duro. «Perché non me l’avete detto subito? Avrei potuto trovare il modo di evitare questa tragedia! Adesso venite qua a dirmi che siete dispiaciuti?!»

    Don Michele, il sarto, il più sensibile di tutti, prese la parola con le lacrime agli occhi e la voce tremante: «Era troppo pericoloso, sia per noi che per voi. Don Ciro, capiteci... Il guappo è... insomma… Credeteci! Abbiamo taciuto in buona fede»

    «La potevo ancora salvare, adesso è tardi!» ribatté sprezzante don Ciro. «Potrebbe morire stanotte o domani, perché non mi avete detto niente? Dovevate parlare, bastardi, adesso è tardi!» concluse gridando più forte di prima.

    Tutti, in casa, si voltarono esterrefatti.

    Don Antonio non aveva ancora parlato e provò a dire la sua, visibilmente imbarazzato, carico della vergogna condivisa con i tre compari.

    «Don Ciro, noi siamo veramente dispiaciuti… Se abbiamo sbagliato, chiediamo umilmente scusa, possiamo fare qualcosa per voi? Vedete, il fatto è che il guappo è un sanguinario... Spara con molta facilità... E noi non pensavamo che si sarebbe arrivati a tutto questo! Noi pensavamo di farvi un favore, evitando altri guai... Insomma, quello è un pazzo...»

    Don Ciro non rispose.

    Di punto in bianco, lasciò sul posto i presenti che avevano perso irrimediabilmente la sua amicizia e raggiunse la moglie, in camera.

    «Troppo tardi, è troppo tardi!» ripeteva sottovoce, in lacrime, al capezzale di donna Assunta.

    I tre commercianti si guardarono, il loro sguardo parlava impietosamente: erano pentiti di non aver avvertito l'amico.

    «È meglio che andiamo via, anche se volessimo, non si può tornare indietro!» esclamò rassegnato il macellaio.

    Don Ciro non poteva più sentirli, era nella stanza con la moglie, le si rivolgeva singhiozzando.

    «Vita mia, è vero? È lui che ti ha ridotta in questo stato? Dimmi la verità!»

    Donna Assunta, ormai senza voce, mosse solo il capo, tenendo gli occhi chiusi, come a dire , ma la debole conferma non bastò a trasformare un lavoratore onesto in uno spietato vendicatore.

    Don Ciro Aniello sapeva bene quanto fosse inutile anche solo pensare a una vendetta, non avrebbe mai potuto reggere il confronto con il camorrista del quartiere, conosceva bene linguaggio, modi e precedenti sanguinari del guappo.

    L’inciucio era ormai sulla bocca di tutti: un corteggiamento serrato, violento e fatale ai danni di una donna innocente ridotta in fin di vita da paura e disperazione.

    Macellaio, sarto e salumiere avevano le proprie ragioni nell'affermare di non aver saputo e potuto dire la verità. Sì, perché lo sapevano tutti in quartiere: sarebbe stato inutile. È sconcertante il senso di impotenza che si prova nel conoscere la persona che reca danno e sofferenza alla propria famiglia, unito alla consapevolezza dell'inutilità di ogni possibile reazione.

    Don Ciro non poteva affrontare il guappo. Lo sapeva lui e lo sapevano tutti. In fondo era solo un commerciante. Se avesse potuto, si sarebbe procurato un'arma e avrebbe fatto giustizia da sé. Ma la realtà era un'altra. E non poteva nemmeno denunciarlo alle autorità: se avesse provato a reagire, ci sarebbe stata una sicura e pericolosa rappresaglia, ripercussioni che non poteva permettersi di non valutare: aveva un'attività ben avviata e un figlioletto, Luigi, di soli quattro anni.

    Ecco perché non poteva assolutamente mettere in pericolo quello che gli restava.

    Se invece il cavallo del camorrista avesse avuto il dono della parola, sarebbe stato un perfetto testimone oculare; ne aveva viste tante. Per esempio, ai tempi si narrava che il guappo, durante una compravendita di capre, dopo aver pagato il fornitore, si fosse accorto che una delle bestie acquistate era azzoppata. Forse nemmeno la controparte sapeva del difetto, perché vendere consapevolmente una capra zoppa al guappo sarebbe stato un suicidio. E difatti, puntualmente, il camorrista impugnò la pistola e sparò a bruciapelo sia alla bestia che al venditore. Un colpo per uno, uno solo, dritto in testa e di fronte a una folla ammutolita e con un avvertimento indelebile negli occhi e nella memoria.

    Ecco il perché di tanto terrore e comprensibile silenzio nel popolo di Borgo Loreto. A quei tempi esisteva un unico camorrista nel quartiere, era chiamato appunto guappo e quelli erano i suoi modi di fare giustizia.

    Difficilmente un guappo camminava per strada armato, al massimo portava nel taschino del gilet una molletta, un coltello a scatto con il manico in avorio puro.

    Prima di diventare guappo, bisognava sottoporsi a un giuramento solenne, una specie di cerimoniale con tanto di scambio di sangue. Il giuramento avveniva davanti a una commissione di persone già avviate. Si svolgeva tutto in una stanza illuminata da candele, con i presenti circondati da immagini sacre, dove veniva pronunciata una formula in dialetto napoletano:

    Picciotto onorato, bramo fare il mio dovere, oppure la sentinella che gira e rigira e tutto quello che vede lo dice in società o ancora chi tradisce morirà.

    Un guappo poteva mantenere la propria posizione per anni: aveva il compito di controllare l’ordine nel quartiere, procurandosi da vivere con il pizzo su contadini e commercianti, oppure gestendo le scommesse dei combattimenti mortali tra mastini napoletani, cani di razza moderni a quei tempi.

    Anche i combattimenti con la molletta erano molto diffusi all'epoca, ma tra due uomini, e anche sulla loro pelle si scommetteva.

    Il guappo controllava anche il gioco della morra, che solo con il permesso suo o di altro camorrista era consentito. La morra era un gioco fatto solo con le mani, potevano parteciparvi minimo due persone, che mostravano la somma dei numeri con le dita delle mani, accompagnando il gesto con espressioni urlate, in dialetto napoletano.

    Si dice che dal gioco della morra derivi il termine camorra, ovvero il capo della morra.

    Quella drammatica notte del 1932, dopo che la povera donna Assunta ebbe confermato con un cenno del capo la responsabilità, si addormentò per sempre.

    Aveva solo ventisette anni.

    Resse per quindici giorni, ma l'epatite fulminante, causata dal forte spavento, l’aveva stroncata. O almeno quella fu la versione stravagante di tutto il quartiere, risposta priva di diagnosi, riscontro e supporto medico-scientifico. E nemmeno il misericordioso scatto in avanti del cavallo nero che aveva fatto perdere la mira al guappo bastò a evitare la morte di una giovane mamma perbene.

    Si riunirono tutti a piangere la sventurata, ma chi era veramente inconsolabile era don Ciro, che oltre a disperarsi per la perdita della moglie, era dilaniato da rabbia e impotenza, era furioso con gli amici commercianti che sapevano dall’inizio e avevano taciuto per paura di ritorsioni.

    Come se non bastasse, c'era il piccolo Luigi e la comprensibile preoccupazione di farlo crescere senza l'amore di una madre.

    Alle tre di quel mattino del 1932, l’intero quartiere, i tre commercianti, le amiche d’infanzia, davvero tutti, si stringevano intorno all'inconsolabile don Ciro. Luigi invece, accudito da una vicina che tentava di farlo addormentare, era capriccioso e irrequieto come se avesse la piena percezione della tragedia in corso.

    Solo una persona se ne stava in un angolo, in piedi e con gli occhi asciutti, quasi gongolando. Anna. Aveva il viso pallido, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso solo su don Ciro.

    I funerali di donna Assunta furono celebrati nella chiesa del Carmine, dove ancora oggi si può assistere al miracoloso scioglimento del sangue di san Gennaro. La chiesa era gremita di gente, dolore e senso di colpa. Di persone che sapevano e che avevano taciuto.

    Con il passare dei giorni, in quartiere, il gran chiacchiericcio sulla vicenda sbiadì.

    In una città come Napoli, intrisa di superstizioni e colore, ogni episodio di rilievo induceva la gente a smorfiare, sviscerare i fatti e giocare i numeri a lotto. Succede ancora oggi e, anche dopo la morte di donna Assunta, la tradizione venne rispettata. In quartiere si giocarono tre numeri, ma in diverse combinazioni: ambi e terni o solo terni. 72, la meraviglia; 90, la paura; 71, l’uomo di merda.

    Perché dopo un fatto che suscita scalpore o dopo un semplice sogno, si ricorre immediatamente alla smorfia, che fa parte da sempre delle usanze di ogni buon partenopeo.

    Proprio nello stesso anno, in un quartiere vicino, veniva al mondo Giuseppina Esposito, l'unica femminuccia di sei fratelli, la principessa di casa.

    Il padre, don Vincenzo Esposito, era un operaio dell’Alfa Romeo, mentre la madre, donna Rosetta, era una venditrice ambulante di vestiti usati che arrivavano dall’America: i panni americani. La donna comprava gli abiti all’ingrosso, anche sporchi e malconci, poi li lavava, li stirava e li rivendeva.

    La famiglia Esposito abitava nel quartiere del Carmine, a pochi passi da Borgo Loreto. A quei tempi, se il capofamiglia aveva un posto fisso da operaio e sua moglie in qualche modo lavorava, la famiglia veniva considerata benestante.

    In trattoria, anche per distrarsi dal dolore della perdita della moglie, Don Ciro lavorava con zelo, trascurando il piccolo Luigi che ormai cresceva sotto la custodia della zia. Don Ciro usciva presto la mattina e rientrava tardi la sera, trovando spesso il piccolo già addormentato. Anna aveva rimpiazzato in tutto e per tutto la sorella defunta: cresceva il nipote, rammendava, cucinava, stirava e lavava per tutti. Ma al piccolo Luigi non andava per niente a genio la zia, che lo picchiava spesso e per motivi futili.

    Era sufficiente una piccola disubbidienza, una distrazione, un bicchiere rotto, per scatenare la rabbia della donna. Il bambino si lamentava col padre, perché veniva picchiato continuamente, ma don Ciro non dava importanza alla cosa.

    In verità, la cognata gli faceva molto comodo: era la governante e la cuoca, quindi poteva essere giusto, o quantomeno tollerabile, qualche ceffone al suo bambino. Lo sciarmantone approfittava dei sentimenti che Anna

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