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La chiusa
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E-book232 pagine3 ore

La chiusa

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Info su questo ebook

All’estero, lontano dai luoghi in cui è nato, il nostro architetto ha fatto fortuna.

Giunto alla maturità, lo incaricano di un progetto nelle terre d’origine. Non ci credeva, ma lo prende la nostalgia, così si mette alla ricerca del tempo perduto. In questo viaggio mentale, si trova sulle rive di una chiusa che spezza e organizza a modo suo lo scorrere di un fiume. E si accorge che indietro non si torna. Occorre guardare avanti: solo così si può vivere e trovare un amore infine ingenuo e tranquillo.

Per farlo deve attraversare la scoperta di vicende inaspettate e inquietanti, imbattersi in personaggi minacciosi, venire a capo di violenze e persecuzioni, far luce su misteri, rimasti tali fino ad allora solo perché nessuno aveva voluto vedere.

Partito alla ricerca di storie, comprende che la sua vita è passata accanto alla Storia senza che lui lo sapesse, e che forse è stato meglio così.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2017
ISBN9788826016870
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    Anteprima del libro

    La chiusa - Giuliano Pasqualetto

    Giuliano Pasqualetto

    La chiusa

    © Copyright 2016 by Giuliano Pasqualetto

    www.giulianopasqualetto.it

    La versione cartacea di questo volume è pubblicata da

    CLEUP – Padova - http://www.cleup.it - info@cleup.it

    ISBN 9788867876778

    Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,

    totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese

    le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

    UUID: 6056a244-f9c6-11e6-8b5e-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Nel freddo lume notturno del 18 agosto 1986 le rane gracidavano alla luna piena intorno alla grande chiusa; le paratie lucidate dall’acqua sciabordante rilucevano col nitore del bronzo brunito, la bitta gettava un’ombra tagliente sul cemento appena ruvido, uguale al fumaiolo spento di una nave inabissata proprio lì, quando era ancora tutta laguna e i piroscafi, dicono i nonni dopo bevuto, arrivavano fino al mulino di Treponti. I grilli straziavano l’aria leggera con i loro sistri acuti, pungendo le orecchie agli allocchi che stazionavano sul tiglio di fronte, quello che copre con la chioma maestosa il tetto della casa rossa, dove dorme di notte il guardiano della chiusa; e dorme anche di giorno, si direbbe, da quanto è difficile trovarlo per farsi travasare fra la parte alta e quella bassa del fiume, fra la rada a monte, morbida sopra il fondo di argilla e tinche, e quella più vivace a valle, dove puoi ancora veder schiamazzare i cavedani. Bel lavoro quello del guardiano! che lavoro in fondo non è, modo di guadagnarsi la vita piuttosto, tu che lo conosci e lo vedi alla sera, uscito da dietro i pietrami foderati di edera e vite americana e vecchie lapidi, dove qualche oscuro maggiorente della Serenissima ha fatto murare la sua opinione su prezzi, pesci e pozzi d’acqua dolce. Esce alla sera, il manovratore della conca, perché essa si può aprire solo dall’alba al tramonto, e va all’osteria, trecento passi, e tu lo conosci e lo saluti, le volte che, vagabondando sulla riva del fiume, oltrepassato il ponte, ti dirigi verso la piazzetta adagiata sopra la vecchia acqua corrente e ribollente, e incalzi il sole che imporpora i riflessi di statue, di ville e di passanti. Lo vedi e lo saluti; come sempre lo fai.

    Che poi chissà se le rane davvero gracidavano, quell’estate. Di notte, poi. Non siamo mica in campagna! intorno alle case vengono di rado, non è come una volta. Si andava a rane con il faro a carburo, quando i nostri nonni erano giovanotti e si tenevano i baffi dritti con la merda di gatto. Poi smisero, via i baffi e via la lampara, e alla fine trovarono le nostre nonne: schifiltose e piene di paura, i baffi gli facevano ribrezzo e gli scoppi dell’acetilene, che spavento! e a ragione, sentendo del Mario che ci aveva rimesso l’occhio, del Franco che aveva perso tre dita, senza dire di Silvestro, quello a cui il cartoccio era esploso quatto quatto in mezzo alle gambe, sì, proprio lì, gesummaria! Ma ormai, nel 1986, l’acetilene era scomparso, e nemmeno c’era più la scusa di farlo incendiare per scacciare gli spiriti cattivi: spariti anche loro, travolti dalla rivoluzione industriale, coi contadini tutti traslocati a lavorare in fabbrica, e alla sera l’orto e l’osteria. Amen per gli spiriti, addio alle rane, cuccucià a un mondo finito, sfinito, partito, durato secoli e zac! appena accesa la luce elettrica si era disciolto, trasformato in fantasma e abolito come un sogno all’alba. Per sempre? per sempre? Per sempre!

    Dunque, forse, alla chiusa fra le due piccole rade, la sera del 18 agosto 1986 non c’erano le rane a cantare, e lo scrittore se le è inventate, suggestionato dai mille libri di storie di campagna che ha letto e che ormai non contano più nulla e bisogna buttarli via tutti. C’era bene la luna piena, però, che inargentava l’acqua pigra e sorniona, il cemento grezzo e ruvido, la bitta, piccolo fumaiolo spento di una nave fantasma, ultimo richiamo di una laguna ormai interrata e dimenticata.

    La chiusa, se uno non la conosce, non sa cosa sia: i tecnici, che hanno una lingua tutta loro fatta apposta perché non si capisca niente, la chiamano invaso di sollevamento, ed è davvero un sollievo sentirlo dire. Solleva, solleva: la forza del-l’acqua, tra spruzzi e mulinelli, tira su la barca entrando dallo sportello, e le grandi braccia aprono le paratie, e oplà, signori, il battello che prima era giù, lo vedi?, ora è quassù, s’è arrampicato, come fosse una trota, o un salmone (i salmoni, si sa, risalgono la corrente: e questo pone un problema, grave: quanti salmoni ci sono alle sorgenti dei fiumi? li pescano lì per affumicarli? e poi, dove e come nascono, i salmoni? alla foce? ma se quelli adulti sono alla sorgente? sarà meglio tornare alla chiusa).

    Giusto perché non si arrugginisca: la si apre ormai un paio di volte al giorno, per far passare le barche dei turisti, e solo d’estate; eppure i vecchi ricordano ancora bene il via vai di burchi e burchielli che alimentavano, negli anni lontani della loro gioventù, tutta un’economia, mercati, negozi, fabbriche, e avevano bisogno di porti, e facchini, e di carri per portar via le merci, di carrette e carriole per menarle di qua e di là, di cavalli a trainare le barche, e uomini per manovrarle, e via scendere al gran porto del mare, e via salire, di chiusa in chiusa fino al colle, fino al monte, e le botti di vino, i sacchi di grano, le tavole per il falegname, i mattoni per il muratore, la lana per il tessitore, senza dire della cucitrice e dei suoi spagnoletti di filo, e dei viaggiatori per affari e diporto, e di tutto quello che intorno vi cresceva, locandieri biscazzieri prosseneti e venditrici di zucche cotte, fichi secchi e fiche bagnate… Altro tempo, altra storia: tout passe, tout casse, tout lasse, avanti un altro, prego, signori, si accomodino su questo palcoscenico, lo spettacolo va a incominciare, anzi è già cominciato, è per sempre questo spettacolo, mai uguale a se stesso o a qualcos’altro, eppure corre come un film ad anello, un’eco che risponde un tono più alto o un tono più basso…

    Lo capivi, che lo spettacolo era finito, proprio da quella lastra di marmo appesa di fianco alla chiusa. Il servizio, diceva la scritta, è dall’alba al tramonto, d’inverno e d’estate, e si paga al manovratore della conca, senza indugio, lire quattro per ogni burchio, centesimi dodici per ogni persona, e in proporzione che il soprastante dichiarerà, per piccoli navigli o burchielli più grossi che il burchio. Nessuno aveva aggiornato le antiche tariffe, si passava gratis, ora. Quando il manovratore c’era, e non era andato a prendere il pane, o le sigarette nel monopolio in piazzetta, o la marsala dall’oste Fenicio. E ti poteva capitare di peggio: che avesse dovuto, al caso, accudire le capre del padre, nel campo vicino dove andava in bicicletta, o, più lontano, oltre il fosso, oltre la riva dei grilli, le galline del suocero, ché aveva anche moglie, e giovane e piacente, il manovratore, nonostante la sua lieve invalidità di guerra, che gli aveva portato via, ancora bimbetto che giocava con le bombe trabocchetto che gettavano gli aerei, a destra, la pinna del naso, un pezzo di zigomo, l’orecchio quasi tutto e un buon tratto di palpebra, per cui dormiva poco, poco, e gran parte del tempo tormentava la moglie, povera donna!, ad avere un marito sempre ingallato, nonostante l’età e le magagne di guerra, e questo era l’ultimo ma fondamentale motivo di poca puntualità del servizio, però gran vantaggio per lui, ché alla giovane non restava velleità alcuna di renderlo becco: la voglia l’avrebbe avuta, ma le forze, vivaddio, le forze mancavano!

    Poi le porte le apriva, le apriva: con calma. Dopo che l’acqua s’era ben bene portata a livello, filtrando per i bocchettoni che, un po’ sotto il pelo della corrente, potevano essere manovrati da sopra la chiusa, con i grandi volani di ghisa che facevano girare immense viti a filetto quadro, e arrivavano fin sott’acqua, e non arrugginivano, perché tutti i giorni si muovevano avanti indietro, pure nel caso frequente che non vi fosse da traghettare su o giù per l’ascensore liquido nemmeno un sandaletto o un saltafossi, altro che un burchio o un barcone. I bocchettoni! che soddisfazione, quando l’acqua era alta a monte e bassa nell’invaso, spalancato verso valle come la bocca del turista a San Marco, vedere il liquido scorrere comunque dalla chiusura malcommessa, tra spruzzi e gorgogli: a mezzogiorno dei lunghi ozi d’estate le gocce che si avventuravano più lontano dalla lamiera e dal pelo dell’acqua diventavano iridescenti e suggerivano che vi fosse, proprio là, una qualche ninfa scappata dallo zoo della mitologia, una sorridente naiade che sarebbe stato oh quanto suggestivo andare a trovare.

    Quant’acqua passava per le fessure mal chiuse dei bocchettoni? difficile dire. Abbastanza, però, perché la pressione era elevata, tre metri d’acqua sopra, si sente. Litri al minuto, forse decine. Sul piano generale dell’idraulica che regge l’impianto, contava ben poco, questa perdita: trascurabile in confronto ai milioni di metri cubi del fluido che si accalcava, spingeva, si affannava a monte. Pure si faceva sentire: e, lungo la paratia, una flusso discreto attirava a pelo di corrente verso la chiusa ogni genere di materiale galleggiante, per lo più improprio e ripugnante, e, giusto vicino alla lamiera, un piccolo gorgo faceva supporre che le sostanze più pesanti si inabissassero, se non proprio fino al fondo, almeno fino ai passaggi dell’acqua (altra ne usciva lungo i bordi, all’altezza delle enormi cerniere che univano l’invaso ai sostegni). Anche questi materiali, detriti, schifezze o cose preziose e smarrite come il sandalo che la signora Evelina aveva chissà come perduto presso il ponte la sera della sagra (dieci secondi ed era fuori portata, dieci minuti e già bello al centro della corrente, navigante quasi di furia verso la chiusa) ogni cosa insomma che il fiume raccattasse, veniva traghettata a valle col sistema medesimo delle barche, quando alle barche si apriva il varco che le portava vuoi a valle, vuoi a monte. Così era, ogni volta che ci fosse movimento, sennonché i detriti accumulatisi alla chiusa non sapevano che scendere a valle, per finire nelle velme e nelle barene in laguna, nelle bocche di porto, nel mare e infine chissà dove.

    Così era anche la notte del 18 agosto 1986, sotto la luna piena: non avresti visto bene gli spruzzi dentro l’invaso, forse qualche scintilla fredda, diamantata, e null’altro, ma il gorgoglio, il gocciolio, il chioccolio, questa musica naturale che si accompagnava fine fine a quella acuta e metallica dei grilli c’era eccome, e forse c’era pure qualche nota più gracchiante, le rane, o stridula, uccelli insonni in cerca di preda. In quanto a topi e pipistrelli, invece, è noto che il registro dei loro squittii è così alto, ma così alto, che gli uomini in genere non li sentono; li intendono invece i cani, il che spiega, talvolta, come mai si mettano a uggiolare guaire abbaiare senza causa apparente: hanno, si vede, avvertito l’insinuante ultrasuono della nottola. Oppure si limitano, come da contratto di categoria, a ululare caninamente alla luna, tale essendo il caso quella sera, avendocela con costei non si sa bene perché, neanche fossero compiuti poeti futuristi. Tanto ululavano, le bestiacce, quella notte, che il manovratore, saltando giù dal letto dove non si sa bene se stesse dormendo o progettando amplessi con la fedele mogliettina, si affacciò al riverbero caldo della finestra, per vedere cosa fosse. Questi strepiti notturni! l’acqua, le rane, qualcosa che era caduto in acqua, i grilli, le civette, Nanni ubriaco che rincasa cantando e gridando al cielo la sua infelicità. Tutte cose normali, note e arcinote, ma amplificate dalla luna piena, dal caldo, dalla finestra aperta. Ci mancavano i cani, ci mancavano, a dare il colpo di grazia. Non che si trattasse di dormire, ma se uno sta a letto, ha piacere a essere tranquillo, no?

    – Bestiacce! – si disse, passandosi la mano sugli occhi, come a pulire l’umor vitreo di quello senza palpebra. – Cagnacci! – ripeté, e tornò fra le braccia della giovane infelice, che l’accolse con un sospiro. Lui lo intese di piacere, in realtà era un singulto disperato. I ragazzi, si sa, avrebbero necessità di dormire. Un pochino di più, almeno, accidenti!

    Non era tanto più tardi dell’alba, quando lo svegliarono daccapo; oddio, forse sì, potevano essere le otto o qualcosa del genere, ma il macchinista della conca sarebbe rimasto ancora a letto, ad aspettare il risveglio della moglie per inaugurare la giornata, prima di andare via per il pane, per l’oste, per la capra, per le galline e per chissà cos’altro in questa vita che non finisce mai di impegnarti. E cominciava bene, la chiusa andava aperta, c’era un barcone pieno di vecchie pietre che voleva passare per andare verso monte. Pochi, uno due al mese, ma passavano. Era già entrato nell’invaso, e il barcaiolo, un tipo dai capelli bianchi dritti dritti, con la barba di due giorni, il naso paonazzo e lo sguardo iniettato di sangue, stava facendo starnazzare il clacson del suo infernale battello, così che sembrava d’essere nelle paludi stigie, o magari alle feste di qualche potentato orientale, in quella noiosissima Cina dove erano così depressi che hanno inventato i fuochi artificiali, pare per tirarsi su.

    – Suona, suona, che ti porti via il canchero e anche il carabiniere! – era davvero incazzato, il guardiano, a essere distratto così dalle sue attività mattutine. – Suona, suona! vedrai che ti danno un posto nel manicomio di Preganziol! O chi ti credi di essere?

    Ma queste parole, o meglio questi pensieri appena articolati in suoni ben poco umani non raggiungevano la barca, dove il nocchiero continuava a strepitare. Gettatosi sulle spalle un gabbano e infilati alla meglio certi calzonacci cilestrini, il concaiolo uscì bestemmiando per fare il suo lavoro. Controllò che lo scafo fosse assicurato al muro dell’invaso nella maniera solida necessaria a evitare troppi sbattimenti, chiuse col comando elettroidraulico la porta a valle, salì sopra la porta a monte, nello stretto margine superiore che costituiva l’unico passaggio fra le due rive, e, aggrappandosi, quasi timoniere di una nave enorme sprofondatasi nel letto del fiume, alla ruota di manovra, cominciò ad aprire le serrande, pian piano, e l’invaso prima titubante, poi con più intensità, si riempiva d’acqua, sollevando di centimetro in centimetro il grosso natante con tutte le sue pietre. Potenza dell’acqua, intuita da Archimede bagnante! applicata a risolvere problemi su problemi dal grande genio barbuto di Vinci, lui di origine piuttosto montanare applicarsi a faccende così legate all’acqua e al mare!

    Qualcosa non andava. A fondo, all’altezza delle serrande della porta, c’era una specie di fagotto, un’ombra scura velata dalle consuete immondizie e dall’acqua giallastra di limo. Cristo! ferma tutto, ma quello è un uomo, accidenti, guarda cosa mi capita stamattina, è un morto, annegato, lo tirava giù la corrente della serranda, ma insomma, già alzarsi presto con questo del burchio, ora ci perderò tutta la mattina coi carabinieri, e anche lui, io la chiusa la lascio com’è e il barcaro se ne sta lì finché qualcuno non deciderà che se ne vada via.

    — Ehi della barca, vi tocca stare qui. C’è un cadavere che si è appeso dall’altra parte della chiusa. Adesso faccio chiamare i carabinieri!

    I carabinieri arrivarono dopo un quarto d’ora, con l’ambulanza, i pompieri, il sindaco del paese e don Sinesio, il parroco di Santa Fosca. Ci mancava solo la banda a suonare la marcia funebre. I pompieri tirarono su il morto, lo adagiarono su una barella vicino alla riva, sulla spalletta di cemento. Intanto i carabinieri presero misure, interrogarono il chiusaio, il barcaro, due pelandroni che passavano proprio allora, stesero verbali, iniziarono le indagini. Il medico dell’ambulanza constatò che il morto era effettivamente morto e che restava solo da portarlo all’obitorio. Dopo, però, ché doveva venire il giudice, a dare il nulla osta. Venne, infine, il giudice. Fece esaminare il cadavere: aveva in tasca sassi per circa quattro chili, una cartellina di nailon con dentro un bigliettino (era, come fu messo a verbale, il conto di una cena al ristorante del Gallo Fugazza, risalente a quattro sere prima, l’indizio più importante in mano agli inquirenti) e un portafoglio che aveva salvato, oltre a poche lire e a carabattole di nessun conto, una carta d’identità: senza alcun dubbio, anche a una osservazione rapida e sommaria, e nonostante l’umidità, quella del morto. Era un certo Marco Dordi, un tipo tranquillo, pareva facesse il pittore, ma non esponeva certo in paese: a Padova, a Venezia, a Milano. A casa lo conoscevano poco, girava qua e là, con un cane labrador, talvolta con degli amici da fuori. Al massimo buongiorno o buonasera. Questo dissero al brigadiere e al procuratore, curiosi. Due ore, e se ne andarono tutti via, pure il burchio che infine aveva potuto passare la conca. Marco Dordi, il pittore, è morto suicida, si è buttato nel fiume proprio a monte della chiusa. Epperché mai? Mistero, dissero i giornali all’indomani.

    I giornali, persino quelli nazionali, s’erano mossi subito e bene, non erano passate due ore e già formicolavano inviati e fotografi e reporter. Non si era mai vista tanta confusione, da quelle parti. La maggior parte restarono a confabulare tra di loro al bar Isolabella, sbuffando per il caldo, riempiendosi di birra neanche fossero tedeschi. E il mistero restò appunto mistero.

    Ce n’era però uno, di questi pennaioli, un Francesco Tribalzi veronese, che scriveva per un giornale di Udine – città dove Marco Dordi aveva fatto più di

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