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Catalogo dei gaetani
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E-book158 pagine2 ore

Catalogo dei gaetani

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Info su questo ebook

Dalla A di assedio alla V di vigili urbani, dalla camorra alla tiella, da Francesco di Borbone a Tiziana Rivale, da Reginella della frutta a Goliarda Sapienza. Una guida ironica alla città di Gaeta, a metà strada tra Roma e Napoli, con fatti, storie e personaggi. Per gaetani di nascita e d'adozione, per turisti che non badano a spese, per amanti della provincia italiana e curiosi che ancora si chiedono "ma non è un'isola?".
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2020
ISBN9788833466934
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    Anteprima del libro

    Catalogo dei gaetani - Luca Di Ciaccio

    Catalogo dei gaetani

    di Luca Di Ciaccio

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    ISBN 9788833466934

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2020©

    Saggistica – Storia e cultura

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Catalogo dei gaetani

    Luca Di Ciaccio

    AliRibelli

    Il Creatore ci ha consegnato una terra che non ha l'uguale sotto ogni punto di vista.

    Fateci i vostri porci comodi.

    Pasquale Di Ciaccio, Gaeta d'altri tempi

    Gaeta, Piazza Trieste, 1961 - inaugurazione dell'Istituto Nautico. Archivio Alfredo Langella

    Sommario

    Nota dell’Editore

    Acqua

    Americani

    Assedio

    Borbonici

    Camorristi

    Cinema

    Corbo Pasquale

    Ebrei

    Elezioni comunali

    Epidemie

    Flacca

    Formia

    Kappler Herbert

    Littorina

    Luminarie

    Mare

    Merola Mario

    Monte Tortona

    Morti in spiaggia

    Nudisti

    Orlando (monte ed eroe)

    Pascali Dino

    Pazzi

    Rivale Tiziana

    Santi e patroni

    Sapienza Goliarda

    Sciuscio

    Spiagge

    Televisione

    Temptation Island

    Tiella

    Ultras

    Vetreria

    Via Indipendenza

    Vigili urbani

    Ringraziamenti

    Indice dei nomi

    Nota dell’Editore

    Indimenticabili sfide a mignolino prima di entrare a scuola, con scambi di figurine al cardiopalma. A pensarci bene, trattavasi di un gioco innocente propedeutico alla giostra della vita.

    Al mondo esistono due categorie di giocatori. I primi accumulano fiches mentre i secondi, un po’ sul serio e un po’ bluffando, preferiscono collezionare brividi e sensazioni. Luca Di Ciaccio è tra questi: raffinato osservatore, negli anni ha collezionato nomi e volti di personaggi noti e meno noti, nozioni di luoghi ed eventi che, nel loro insieme, costituiscono un album di figurine ideale, un catalogo del genius loci gaetano.

    Lo potremmo definire un libro di storia, sebbene non sia propriamente tale. Assedi e bombardamenti sfiorano appena le sue pagine, borbottii di un tempo già remoto e fagocitato dal XX° e dagli inizi del XXI° secolo.

    Inesorabile è lo scorrere del tempo, dalla cui nebbia Luca pesca volti e accadimenti che hanno lasciato il segno nell’immaginario gaetano: scrittori, cantanti, pazzi tali o presunti, la scia dell’amarcord corre lungo le sfavillanti Luminarie natalizie, di quartiere in quartiere, illuminando il presente e le sue contraddizioni.

    Il merito principale di questo catalogo sta nell’essere riuscito a rendere universale il particolare, tanto che la sua lettura risulta godibile anche a chi, di Gaeta, conosce solo il carcere, le spiagge e la tiella. I suoi brani esordiscono sempre con una brevissima descrizione storica o etimologica del soggetto e sono accompagnati da citazioni e collegamenti che riescono a proiettare anche la situazione localissima in un contesto più ampio, dove la scrittura ironica e a tratti malinconica dell’autore ci accompagna come la migliore delle guide possibili.

    Annovero il Catalogo dei gaetani tra i libri che mancavano a Gaeta. Si fa appena in tempo a registrare qualcosa di straordinario, che quello stesso episodio è già passato, miticizzato o consegnato all’oblio. La lettura del libro non ci offre solo qualche buona ora di intrattenimento, ma soprattutto l’opportunità di sottoporci a una spensierata psicanalisi collettiva su chi eravamo, chi siamo, fors’anche chi saremo.

    La domanda resta sempre la stessa dal Dopoguerra ad oggi: che cosa vogliamo fare da grandi?

    Jason R. Forbus

    Editore in Gaeta

    Acqua

    Dal latino aqua, derivato dalla radice indoeuropea ak (piegare).

    L’acqua a Gaeta: quando non piove non c’è, quando piove esce torbida dai rubinetti. Se gestita dall’Acquedotto pubblico degli Aurunci si spreca e si disperde per colpa della burocrazia; se gestita dalla società privata Acqualatina si spreca e si disperde per colpa della sete di profitto. Nelle ultime estati, sulla strada tra Formia e Gaeta, è facile imbattersi in una sfilata di anfore, serbatoi, contenitori, cisterne. «Vanno via come il pane, anzi come l’acqua» ride il venditore, mostrandone alcune dall’apparenza mimetica, color argilla. «Ti sembrerà di avere un’antica anfora romana sul balcone», pare che una uguale uguale l’abbia comprata anche il sindaco, per non dare nell’occhio di fronte ai concittadini esasperati. «Mi sono fatto l’autoclave» ci si sente sussurrare da un amico, come a voler mettere a parte di una confidenza, di un segreto, quasi a voler rassicurare che non sarà questo ad allontanarlo dalla lotta, a renderlo un privilegiato che ha messo le sue barche all’asciutto, quasi come il compagno di scuola della canzone di Venditti, ti sei salvato dal fumo delle barricate e dalle docce con le bottiglie o ti sei fatto l’autoclave pure tu?

    C’è chi si compra su Amazon una doccia da campeggio, c’è chi si trasferisce in una seconda casa di campagna miracolosamente scampata alla crisi idrica. Tutto cambia nell’ordine delle priorità quando il proprio pensiero, appena tornato a casa la sera, si riduce a quanto sapone usare. Il popolo si abitua a tutto, anche alla mancanza d’acqua; le mamme fanno piatti e lavatrici prima che vada via. «Alle sei torna a casa per la doccia», dicono ai bimbi, «ché va via l’acqua».

    Nel 1920, alla solenne inaugurazione dell’acquedotto di Gaeta proveniente dalla sorgente di Capodacqua, davanti a ministri e autorità, il poeta Ignazio Pollastrello compose questa filastrocca, riportata nel libro Gaeta d’altri tempi di Pasquale Di Ciaccio: «Chest’acqua ‘e Capudacque / bevimmo finalmente / e cu ‘stu rubinette / te puozze rinfrescà».

    Pochi anni fa, nella stessa piazza, si ricorda invece l’inaugurazione della cosiddetta fontana artistica: un incongruo San Francesco circondato da schizzi d’acqua, giochi di luci colorate, tutto a ritmo di musica. Altro che "humile et casta et pura", la povera sorella acqua. Sembra di vederli ancora lì: il sindaco, il parroco, gli assessori, le autorità civili e militari, la banda musicale. Applausi in superficie mentre sotto terra i tubi dell’acquedotto marcivano e perdevano acqua sotto l’incuria di decenni di gestioni pubbliche e private, pronti ad arrendersi alla secca della prima siccità.

    Per chi ha sete non c’è nulla di più blasfemo dello spreco del più prezioso degli elementi. Né la processione del santo patrono, il cui percorso nell’anno della siccità fu deviato fino alla fontana, né il girotondo di protesta di alcune centinaia di cittadini hanno risolto nulla. È l’emergenza, come al solito, che ci governa: serve un dissalatore, serve una nave-cisterna, serve un appalto speciale e veloce, serve chiudere gli occhi con l’alibi della fretta, del tempo che manca. Se non si conosce il territorio, se non si ha coscienza dei cambiamenti della natura e della manutenzione delle opere dell’uomo, se non si è mai vista una sorgente, allora il rubinetto resterà soltanto un prodigio dovuto quando l’acqua scorre e una maledizione inspiegabile quando l’acqua manca.

    Bisognerebbe almeno una volta provare a lavarsi i denti con una bottiglia per avere solo una vaga contezza di quanta acqua ogni giorno usiamo senza farci caso. Forse ha ragione chi dice che basterebbe toglierci l’acqua, e poi peggio ancora toglierci l’elettricità, per vedere la patina di civiltà che ci ricopre scomparire come un velo sottile, sciogliendosi al sole. Tutto scorre, diceva il filosofo, ma forse pure lui s’era fatto l’autoclave.

    Americani

    Da America, continente che prende il nome dall’esploratore fiorentino Amerigo Vespucci. Nel linguaggio corrente è più comunemente riferito agli Stati Uniti d’America.

    La scoperta dell’America avvenne il 14 dicembre 1966. Alle ore 9 l’incrociatore americano Springfield, agli ordini dell’ammiraglio Ashworth, comandante della Sesta Flotta degli Stati Uniti, gettò le ancore nel porto di Gaeta. Alle ore 10 il sindaco Giuseppe Calise, accompagnato dalle locali autorità militari, salì a bordo della nave per portare agli ospiti il saluto della città. Il giorno dopo il comandante Ashworth ricambiò la visita varcando il portone del Municipio di Gaeta. La nave era enorme, dalla vecchia fortezza, che aveva perduto i suoi bastioni eppure ne aveva visti di bastimenti; sembrava una grande balena metallica appena spuntata dalle acque, un castello costruito in mezzo al mare nel giro di una notte, con la sua mole occupava l’orizzonte. La voce si sparse subito: sono arrivati gli americani, e stavolta sono arrivati per restare. I più informati lo avevano letto sui giornali: il presidente Charles De Gaulle aveva deciso di mandare via le basi della Nato dalla Francia e così il comando della Sesta Flotta di sede a Villefranche, in Provenza, doveva trovarsi in fretta e furia una nuova sede. E cosa ci sarebbe stato di meglio di questo paesino con la vecchia fama di cittadella militare, al centro dell’Italia che stava al centro del Mediterraneo, esattamente in mezzo tra il blocco dell’Ovest e il blocco dell’Est?

    Quasi tutti se li ricordavano gli americani, arrivati appena ventidue anni prima con i carrarmati, le caramelle e i viveri nella città distrutta dalla guerra. Gli americani profumavano di progresso, di civiltà, erano alti e avevano le spalle grosse, mangiavano enormi panini pieni di carne, guidavano macchinoni che rombavano senza paura. Pure gli zii e i cugini emigrati che tornavano dall’America avevano un odore e una faccia diversa da come erano partiti, e poi portavano le gomme da masticare, le caramelle di liquirizia, i palloncini colorati, le palline per giocare a "cicc’ in buc". Stavolta i gaetani non si sentivano più i sottomessi vassalli davanti alle truppe straniere dei secoli passati, e nemmeno i poveri disposti a elemosinare una tavoletta di cioccolato. Avevano seconde case, appartamenti appena costruiti da affittare ai militari con le loro famiglie, vecchie botteghe nei bassi pronte a essere riconvertite in bar, night, sale da ballo, club privati. Mille insegne al neon illuminarono le strade oscure della vecchia fortezza: Red Light, Hideaway, Splash, 8 & 1/2, Bill’s Bar, Monique’s, Casablanca, California, Vic’s…

    L’Italia è un paese amico dove al massimo si sparano tra di loro, questo veniva detto ai marines che circolavano liberamente per la città, con le loro divise linde e pulite. Sbocciarono grandi fregature, il più delle volte grazie ai calcoli disinvolti del cambio dollaro-lira e alle mance generose offerte in cambio di qualche chiusura d’occhio, ma sbocciarono anche grandi amori: ragazze gaetane felicemente impalmate da marinai biondi e con gli occhi azzurri oppure da altissimi neri. In un condominio come tanti su Corso Italia c’era la sede del comando di divisione e, al piano terra, lo spaccio alimentare dove, con qualche raccomandazione, si poteva comprare la Coca-Cola americana che, così voleva la leggenda, aveva tutt’altro sapore rispetto a quella italiana. Nella zona periferica di Calegna fu costruita la scuola per i figli dei militari, dove i giovani gaetani scoprirono il basket e il baseball e i giovani americani scoprirono il calcio. Sul lungomare Caboto era tutta una sfilata di Mustang, Corvette, Lincoln lunghissime. Ogni domenica pomeriggio la grande nave apriva al pubblico per le visite, si poteva salire anche sulla plancia di comando dove troneggiava la poltrona con scritto Captain, oppure guardare dentro il potentissimo binocolo da cui le automobili di Formia, dall’altra parte del golfo, sembravano stare a un metro. All’apice della presenza militare nella base c’erano tra i tre e i quattromila americani, tra personale civile, militari e

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