Three
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Anteprima del libro
Three - Michele Viscusi
felici
PRIMA PARTE
Rea
innamorarsi a vent’anni
So che non dovrei piangere ma non riesco a fare altro da due giorni. Mangio a malapena qualcosa, ma solo affinché gl’occhi acuti di mia madre non mi leggano dentro. Poi corro subito qui, in questa stanza piena di polvere e ragnatele, tra stoffe, aghi, cotoni, bottini, gesso e quant’altro dovrebbe distrarmi o almeno dovrebbe farmi guadagnare qualcosa. A volte sembro una pazza, parlo e mi sfogo con la mia vecchia macchina da cucire e mi risponde anche. Parole che sono frutto della mia immaginazione perché nessuno può dirmi qualcosa di diverso da ciò che realmente è. La verità è che non dovevo innamorarmi di lui, che non dovrei piangere perché sapevo che era sposato, la verità è che non dovrei desiderare un figlio, perché lui ne ha già due, la verità è che non posso non desiderarlo perché abita accanto a me, condividiamo questa grande, lunga e vecchia masseria in un isolata campagna. Lontani dal paese dove non passa mai nessuno, circondati dal verde tenue delle foglie d’aprile, accarezzati dal vento e coccolati dal cinguettio degl’uccelli. Dove i nostri sguardi si sono incontrati per la prima volta e dove non hanno più smesso di cercarsi.
Poche settimane fa dalla mia camera ho sentito mia madre parlare con qualcuno. È stato strano vedere gente da queste parti, allora incuriosita mi affacciai alla finestra e vidi una grossa auto e un camion pieno di mobili, avevamo dei vicini e ne ero contenta, desideravo un po’ di compagnia. Da quando si è sposato anche l’ultimo dei miei sette fratelli siamo sprofondate nel silenzio. La nostra famiglia non è mai stata silenziosa e restare da sole io e mia madre è stato molto angosciante. La compagnia di una giovane famiglia con tanto di figli al seguito mi avrebbe fatto molta compagnia. Non avrei mai immaginato che nel giro di una settimana avrei provato tutte queste emozioni, che al sol pensiero mi fanno sorridere nonostante tutto, mi fanno fremere, mi smuovono lo stomaco e mi vien voglia di cantare.
La mia famiglia come ogni famiglia meridionale da subito è stata calorosa con i nuovi vicini e nei primi giorni dopo il trasloco abbiamo cenato insieme più volte. Da subito Davide mi ha guardata con occhi diversi, accennava un sorriso appena i nostri sguardi s’incrociavano. Era un ragazzo esile non troppo alto con un manto di capelli scuri e sottili come tanti fili di cotone. Aveva gli occhi piccoli e il naso lungo, ma ciò che mi attraeva era il suo sorriso accennato, dei piccoli denti velati da labbra carnose. Da lì a pochi giorni cominciò a farci visita da solo dopo il lavoro prima di rincasare dalla moglie. Veniva per un caffè diceva, ma io sapevo che veniva per me, perché era con me che parlava, era me che guardava, era a me che sorrideva ed era la mia mano quella che stringeva ogni sera prima di andare via.
Perché sto piangendo da due giorni nemmeno io lo so, forse non avevo capito bene la situazione, forse non avevo misurato i miei sentimenti, ma a volte succede qualcosa nella tua vita così velocemente ed è così bello che non ti dà il tempo di soffermarti a pensare.
Era un pomeriggio di primavera, il sole era cocente e io ero intenta a raccogliere delle cicorie selvatiche per la cena. Pensavo a Davide e ai suoi sorrisi accennati, osservavo il sole e speravo tramontasse presto per rivederlo, ma quel giorno fui sorpresa. Mentre ero assorta nei miei pensieri ecco che quelle mani delicate, esili, ma prepotenti mi afferrarono e io sobbalzai credendo il sogno materializzato. Credo di essere arrossita, di aver sgranato gl’occhi e sorriso come una bambina, ma non so descrivere le mille espressioni che l’innamoramento ti scolpisce in viso in un secondo. Fu di poche parole, salimmo su un albero di ciliegio in fiore, abbracciati guardammo giù attraverso un arcobaleno di colori sovrumani e ci lanciammo in un prato bianco di margherite sprofondando del tenue velluto di milioni di petali.
Se ora piango c’è un motivo, ma la colpa non può non essere che mia.
Da quel giorno non potemmo fare a meno l’uno dell’altra e i minuti che passava con me divennero ore. Come ho fatto a non rendermi conto che stavo sbagliando? La risposta è che non mi ponevo la domanda. Non m’importava, ma non per menefreghismo o indifferenza per la moglie e i figli, ma per la pura e semplice ingenuità e per la dolce e travolgente corrente del primo amore. Parlavo con la moglie, alla quale aveva giurato fedeltà, giocavo con i suoi figli, ai quali dovrebbe essere d’esempio e continuavo a amare il loro uomo, lo stesso fragile uomo che non controllava la sua passione per me. Non mi sentivo l’amante, che lo aspetta nei suoi momenti liberi, perché era con me che lui stava ed era come me che voleva stare, almeno così credevo.
Di li a poco svanì l’ingenuità del primo amore. Le cose cominciarono a cambiare dal momento in cui sua moglie si accorse della nostra relazione e cominciò a osservarci in modo sempre più minuzioso fino a quando ebbe la conferma. Una conferma che non si fece attendere perché noi non ci nascondevamo e come due fidanzatini al primo amore ci abbracciavamo, ci baciavamo e ci toccavamo in ogni angolo di quella masseria, sotto ogni albero di quel giardino e su ogni specie d’erba di quei prati.
Una notte successe quello che ingenuamente non avevo immaginato. Fui svegliata nel cuore della notte dalle urla stridule della mia vicina e appena realizzai che eravamo stati scoperti mi sentii in colpa e piansi. Pensavo ai suoi figli che non avevano colpe. Non posso riportare ciò che successe quella notte in quella casa perché sentivo solo urla e poi il portone sbatté bruscamente e sprofondammo nel silenzio. Ricordo che la mattina seguente mi aspettava qualcuno di sotto, scesi con ancora la camicia da notte. Mia madre discuteva con Davide. «Adesso te la prendi e ve ne andrete lontano» disse mia madre amareggiata. Non mi rivolse nemmeno lo sguardo, era una donna tutta d’un pezzo, con i suoi principi e soprattutto con la dignità e l’orgoglio di aver cresciuto otto figli senza un marito. Una donna che non concedeva il beneficio del dubbio, che non ammetteva errori e che non avrebbe mai compreso nemmeno quello seppur dettato dall’ingenuità dell’adolescenza. «Dovete andarvene»! Ribadì con voce dura. Davide mi guardò, abbozzo il suo sorriso e rispose: «andremo via stasera stessa».
Non mi resi conto di cosa stava succedendo, andava tutto così veloce che in un attimo eravamo in viaggio verso Padova, per ricominciare una nuova vita insieme.
Non so descrivere a pieno cosa provavo, pensavo alla facilità con cui avevo lasciato mia madre, pensavo alla troppa semplicità con cui Davide aveva lasciato sua moglie e i suoi figli, ma questi pensieri erano offuscati dal battito del mio cuore che era destinato ad aumentare e il pensiero di una nuova vita insieme mi spezzava il fiato, oscurava la mente, stringeva la gola e mi faceva venire solo la voglia di cantare.
Quante volte ci tuffammo dal ciliegio in fiore nel prato di velluto, non facevamo altro. È stato il periodo bello della mia vita. Davide era l’uomo perfetto, sempre accorto e gentile, ma soprattutto innamorato senza misura di me, e io non potevo che ricambiare e gioire.
Davide aveva accettato un lavoro come autista di una piccola azienda di metalli e stava a lavoro tutto il giorno. Trovammo un piccolo appartamento poco fuori dal centro in una zona molto silenziosa e tranquilla. Vivevamo al primo piano di una vecchia palazzina rivestita di mattoni rossi e l’aria intorno era sempre molto umida. Avevamo solo due vani, una camera da letto e una grande stanza con una piccola cucina a gas, un divanetto verde bottiglia con i braccioli in legno e un piccolo tavolo rotondo. Entrava poca luce dalla finestra e così poco calore che a volte facevo fatica a separarmi dal mio soffice plaid. Non ero mai stata in città e tutto mi era nuovo, il poco verde delle strade, la poca luce in casa, il riscaldamento centralizzato, ma ero decisa ad abituarmi perché dopo le diciannove sarebbe tornato da me Davide e era l’unica cosa che m’importava.
Avrei cantato per tutta la vita non potevo fare altro, ma presto avrei smesso di farlo! Passammo un po’ di tempo a Padova senza avere notizie di nessuno, sembravamo vivere in un altro mondo, in un’altra realtà, liberi da ogni forma di pensiero e preoccupazione, leggeri al punto da fluttuare, gioiosi al punto di cantare, ma la realtà non era poi così come la vedevo io e quando meno te l’aspetti il vero irrompe prepotentemente ristabilendo l’ordine delle cose. Era giunto il momento che venissi riportata alla realtà e ciò accadde dopo qualche settimana di soggiorno a Padova. Era buio pesto e Davide doveva rincasare a momenti da lavoro, ero un po’ in ansia, ma un’ansia pura, armoniosa, quell’ansia di attesa che preannuncia un momento festoso.
Ero incinta!
Aspettavo Davide, l’amore della mia vita, per condividere con lui questa nuova gioia. Quando arrivò le mie labbra si stesero involontariamente e sorridevo, mi avvicinai, lo presi per le mani e dissi: «non trovo le parole» Davide m’interruppe si scostò e disse che non era il momento giusto per parlare. Qualcosa lo turbava, pensai: «sarà per il lavoro» allora decisi di dirgli del bambino, serviva proprio una buona notizia: «sono incinta!» E continui a sorridere come presa da un morbo incontrollabile! Davide impallidì.
È dura ricordare. Davide non abbozzò il suo ingenuo sorrisetto col quale mi aveva fatto innamorare, non mi sfiorò le mani, non mi guardò nel profondo, ma si scostò e si scostò ancora poi tutto d’un fiato disse: «abortisci! Io non lo voglio» «Cosa»? Chiesi stentando a capire e lui aggiunse: «è stata solo un’avventura non lo capisci»? «E allora perché siamo scappati fin qui»! Urlai non volendo capire e allora lui, con fare viscido, rivelandosi per quello che realmente era, mi disse con voce sottile quasi sibilando: «sei la più bella della zona è risaputo, volevo solo cavalcare l’onda del momento. Ti chiedi se ho lasciato mia moglie e i miei figli? Mai! Sono a casa che mi aspettano. Un figlio da te? Preferisco morire! Ora prendi le tue cose che si torna al paese».
Non avevo parole, non riuscivo a formulare un pensiero unico, pulito. Non avevo la voglia di urlare, pensare, parlare, persino morire. Non ricordo nemmeno un secondo del viaggio in auto, il primo ricordo che ho è il calore del sole che entra prepotente dalla finestra della mia camera polverosa e mi colpisce in viso, un viso che sento bagnato da lacrime, intorno il nulla, del passato solo una ferita al cuore e un bimbo in grembo.
l’abbandono
«Ora avrai un bel da fare Rea» mi ripetevo nella mente ormai da due giorni senza avere la forza di alzarmi da quel letto, di mangiare e nemmeno di respirare. «Ora devi rialzarti» cominciai a pensare «e devi trovare il coraggio di affrontare tua madre». Sì, prima o poi dovevo prendere in mano le redini della mia vita, dovevo affrontare lo sguardo di mia madre, la sua severità, la sua rabbia. Avrebbe anche potuto picchiarmi, non era la prima volta che l’avrebbe fatto, è normale che un genitore bastoni i suoi figli per correggerli, è questo ciò che si dice, è questo quel che si pensa, è questo quel che si fa, è questo ciò che io mai farò. Respira profondamente, avvicinati a quella porta cigolante e tira giù la manopola. Tira quella porta non è poi così pesante come sembra ed esci fuori da quella stanza. Un gradino alla volta e riuscirai a scendere tutte le scale. Ero finalmente di sotto e scrutai in ogni angolo del salone per vedere l’ombra possente di mia madre, ma lì non c‘era, allora andai in cucina e mi aspettavo di trovare la solita pentola sul fuoco e lei intenta a girare, ma non era nemmeno lì. Uscii fuori a piedi nudi, l’erba di mattina è ancora ricoperta di un velo soffice d’acqua, mi abbandonai per pochi istanti a quella sensazione poi sentii un rumore dentro casa e subito rientrai chiamando ad alta voce mia madre. Era solo un topo, feci per prendere la scopa per cacciarlo quando al portone bussò qualcuno. Andai ad aprire, era il padrone di casa il signor Aldo, io ero in vestaglia e a piedi nudi e per di più bagnati, sentii subito il bisogno di scusarmi: «scusatemi signor Aldo, accomodatevi in cucina metto su qualcosa» Aveva un viso tetro, non aveva voglia di trattenersi e subito disse: «sarò breve Rea, tu non hai un buon lavoro e io sto in pensiero» pensavo stesse in pensiero per me saputo l’accaduto e subito mi portai la mano alla pancia, lui vedendo il gesto aggiunse: «no! No! Non fraintendete. Ora che vostra madre è partita ho timore per questa casa» «Cosa state dicendo»? Domandai scossa e lui subito precisò: «dovete pagare l’affitto da sola, se non riuscirete a farlo dovrete andare via. Avete un mese» sparata la sentenza andò via. Ero da sola. Mia madre era partita. Dov’era andata? Ero così ripugnate che non ce la fece a sopportare tanto scandalo. Pensavo che mi avesse picchiata, pensavo che avesse urlato, pensavo che non mi avrebbe fatta sposare più, ma sentivo ancora nell’aria il profumo del suo sugo sul fuoco, le sue ruvide mani da lavoro sul mio ventre e tra le braccia il mio bambino. Avevo bisogno di mia madre, ma ero sola e non potevo contare su nessuno. Quel giorno non ebbi la forza di pensare a cosa fare, ritornai nella mia camera polverosa, presi in mano una tenda vecchia e un paio di forbici e cominciai a tagliare e cucire con rabbia. Ne venne fuori un grazioso vestito. Lo indossai e andai a letto sperando di addormentarmi.
Il mese passò ed io non riuscii col solo cucire a pagare l’affitto e non ci vollero molti giorni prima che il signor Aldo si presentasse al mio portone per cacciarmi. Vagavo con la mente in cerca di un volto amico al quale chiedere aiuto. Potevo chiederlo ai miei vicini, se solo non fosse un padre che rinnega il suo bambino. Vidi Davide solo di sfuggita nei giorni dopo l’accaduto, era tornato ad essere felice con la sua bella e perfetta famiglia, incurante delle mia creatura che senza colpa aveva anche lei diritto di far parte di una famiglia, ma famiglia è dove c’è amore e io glie ne avrei dato tanto. «Maria e Michele» ecco mi vennero in mente due persone di una bontà assoluta, angeli che Dio ti manda sul tuo cammino. Pensai di chiedere a loro un aiuto. A quel tempo per racimolare qualche soldo in più facevo le siringhe alla gente e avevo un appuntamento fisso con Michele e Maria, perché lei soffriva di qualche disturbo strano, crisi epilettiche mi sembra, che di botto la facevano svenire, cominciava a tremare, cacciava schiuma dalla bocca e si graffiava con le unghie e subito ci voleva una bella siringa per farla addormentare. La sofferenza di quella famiglia era tanta come tanta era la loro bontà.
Tempo un giorno e bussai al loro portone. Ormai l’itero paese sapeva della mia sventura e già cominciavano a correre voci che io ero una poco di buono, quando uscivo c’era sempre qualcuno che bisbigliava alle mie spalle e qualche spavaldo che in faccia mi guardava nauseato o chi addirittura mi chiedeva di andare a letto con lui. Ero la puttana del paese ma ancora non lo sapevo a pieno. Comunque tornado a Maria e Michele davvero pensavo mi avrebbero guardato in modo diverso. Lo fecero, ma non perché non volevano evitare l’argomento creando un tabù, ma per affrontarlo e darmi il loro sostegno. Michele m’abbracciò e mi disse che mi avrebbe sostenuto in ogni momento e avrebbe aiutato il mio bambino come un padre, anche lui era già padre di due bimbi e aveva tanto amore da condividere. Spiegai la mia situazione, che non avevo casa, che non avevo soldi e che avevo tanta paura di stare da sola. La soluzione al momento fu tra quelle più convenienti, mi trovò una vecchia masseria abbandonata a poche decine di metri da loro. Cadeva a pezzi, il portone non si chiudeva, pioveva dal tetto e non avevamo riscaldamenti o quant’altro c’era di confortevole, ma l’affitto era basso, i vicini erano ottimi ed io accettai. Quel giorno stesso Michele venne col suo carro da me e ci trasferimmo. Mentre andavo via seduta sul retro del carro con le gambe a penzoloni incontrai lo sguardo di Davide e per non dimenticare, l’unica cosa che mi venne spontanea di fare fu quella di portarmi una mano al ventre e abbozzare uno dei suoi soliti sorrisetti.
Guardo le mie mani e a volte non ricordo come sono diventate così rudi, vecchie, tagliuzzate, guardo il mio volto, le mie rughe e ne vado fiera, perché tutta la mia vita è scolpita in queste mani, ogni lacrima che ho versato, ogni sorriso, ogni bicchiere di vino, sono tutti qui imponenti ed evidenti. Le mie mani non sono quelle di una sarta soffici come le stoffe dei suoi capi, le mie mani hanno sentito il freddo della terra, la vischiosità del fango, il calore del sole, il prurito per gl’insetti, la fatica e la soddisfazione di chiudere ogni sera da sole quel portone senza l’aiuto di nessuno, senza il controllo di qualcuno, libere di bruciarlo quel portone, libera di prendere da sola