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Economia decente: Come crescere senza umiliare le persone
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Economia decente: Come crescere senza umiliare le persone
E-book151 pagine2 ore

Economia decente: Come crescere senza umiliare le persone

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Info su questo ebook

Il 24 giugno 2014 papa Francesco scrisse un tweet semplice e inconsueto che, se realizzato, ribalterebbe le regole che guidano, da alcuni decenni, l’economia: «Quanto vorrei vedere tutti con un lavoro decente! È una cosa essenziale per la dignità umana». Un lavoro decente, un’economia decente devono essere l’obiettivo di chiunque si occupi di questioni economiche. Decente vuol dire «conforme al decoro, alla dignità, al pudore». Ebbene, è proprio di un’economia decente che c’è, oggi, bisogno: di un’economia rispettosa della dignità umana (e per questo capace di contrastare la disoccupazione e il precariato), conforme al pudore (e, dunque, in grado di evitare le retribuzioni “spudorate” di alcuni top manager e l’arricchimento vertiginoso di una minoranza), decorosa nel suo funzionamento (cioè ancorata alla produzione industriale più che alla finanza speculativa). In questo libro l’autore mette a nudo l’inadeguatezza del modello economico dominante e spiega come rendere l’economia decente, ridurre le disuguaglianze, crescere senza umiliare le persone. È una strada percorribile, ma solo – come dice la dedica – per «chi sa ravvedersi».
LinguaItaliano
Data di uscita6 mar 2017
ISBN9788865791516
Economia decente: Come crescere senza umiliare le persone

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    Anteprima del libro

    Economia decente - Francesco Maggio

    www.museoluzzati.it)

    Il libro

    Il 24 giugno 2014 papa Francesco scrisse un tweet semplice e inconsueto che, se realizzato, ribalterebbe le regole che guidano, da alcuni decenni, l’economia: «Quanto vorrei vedere tutti con un lavoro decente! È una cosa essenziale per la dignità umana». Un lavoro decente, un’economia decente devono essere l’obiettivo di chiunque si occupi di questioni economiche. Decente vuol dire «conforme al decoro, alla dignità, al pudore». Ebbene, è proprio di un’economia decente che c’è, oggi, bisogno: di un’economia rispettosa della dignità umana (e per questo capace di contrastare la disoccupazione e il precariato), conforme al pudore (e, dunque, in grado di evitare le retribuzioni spudorate di alcuni top manager e l’arricchimento vertiginoso di una minoranza), decorosa nel suo funzionamento (cioè ancorata alla produzione industriale più che alla finanza speculativa). In questo libro l’autore mette a nudo l’inadeguatezza del modello economico dominante e spiega come rendere l’economia decente, ridurre le disuguaglianze, crescere senza umiliare le persone. È una strada percorribile, ma solo – come dice la dedica – per «chi sa ravvedersi».

    L’autore

    Francesco Maggio, economista e giornalista, da molti anni insegna e scrive sui rapporti tra etica, economia e società civile. Con le Edizioni Gruppo Abele ha pubblicato Bluff economy (2013). Tra gli altri suoi libri: Nonprofit (con G.P. Barbetta, il Mulino, 2008), La bella economia (Fazi, 2008), Economia inceppata (Donzelli, 2004).

    Indice

    Premessa

    Introduzione

    I. La notte del pensiero economico

    II. L’industria e gli alberi

    III. Finanza mattanza

    IV. Il nonprofit tradito (da se stesso)

    V. Umanità coraggiosa

    Conclusioni

    Bibliografia

    A chi sa ravvedersi…

    Premessa

    Qualche anno fa, recensendo un libro sul domenicale del Sole 24 Ore, il cardinale Gianfranco Ravasi raccontò questo episodio avente come protagonista un grande Padre della chiesa ambrosiana, David Maria Turoldo:

    Erano gli anni del primo dopoguerra, padre Turoldo predicava ogni domenica alla messa più frequentata nel Duomo di Milano. Si cominciavano a delineare i primi squilibri sociali, un tema che era congenito e congeniale con la figura del frate… E così una domenica nell’omelia egli dette fuoco alle polveri del suo arsenale oratorio, e le sue parole fiammeggianti incendiarono di sdegno alcuni fedeli che si premurarono di raccoglierle e di portarle sul tavolo dell’arcivescovo. Allora a capo della diocesi ambrosiana c’era un benedettino diafano, segnato dalla semplicità geniale dei santi, il cardinale Ildefonso Schuster. Egli chiamò padre David e lo invitò a essere meno ardente e gli suggerì di scrivere la predica della domenica successiva così da contenere nello stampo freddo di un testo il turgore della sua passione. Cosa che il frate fece. Quella mattina una folla ancor più numerosa era in attesa sotto le navate del Duomo. Con gesto ieratico padre Turoldo dispiegò i suoi fogli e col registro della sua voce tonante, da cattedrale appunto, iniziò la lettura: «Fino a dove, o ricchi, estendete le vostre bestiali cupidigie? Vorrete forse finire ad abitare soltanto voi la terra, rivendicandone solo voi il possesso? La terra fu data in possesso a tutti, ricchi e poveri: perché allora vi arrogate il diritto di proprietà esclusiva del suolo?... Il mondo fu creato per tutti e, invece, voi pochi ricchi cercate di appropriarvene. Anzi, volete non solo la proprietà terriera per l’uso di voi soli pochi, ma volete anche il cielo, l’aria, il mare… Le vostre mense si alimentano col sangue dei poveri, i vostri bicchieri grondano del sangue di molti che avete strangolato col cappio… Le vostre donne sono travolte da una smania di indossare smeraldi, giacinti, berillio, agata, topazio, ametista, diaspro, sardonice e, pur di soddisfare i loro capricci spendono metà del loro patrimonio…Tu, o ricco, quando fai l’elemosina, non elargisci i tuoi beni al povero, ma semplicemente gli restituisci il suo. Infatti, ciò che giustamente è stato dato in uso a tutti, lo usurpi tu solo. La terra è di tutti, non dei ricchi… Restituite allora al povero, pagate il vostro debito a chi è indigente, perché non potete placare in altro modo Dio a causa della vostra malvagità!». Naturalmente subito quel gruppo zelante di fedeli corse dall’arcivescovo a segnalare con indignazione il nuovo e peggiore misfatto del frate, che fu così riconvocato dal cardinale. Turoldo si presentò e stese davanti a Schuster i fogli con la sua predica. L’arcivescovo scorse le prime righe e si mise a sorridere, continuò a leggere ed esclamò: «Ma questo è Sant’Ambrogio!». Si alzò, benedisse il religioso e, com’era suo uso, lo congedò dicendogli un motto che spesso ripeteva: «Faccia bene il bene!».

    Ho voluto riproporre ampi frammenti di questo articolo di Ravasi perché quanto accadde a David Maria Turoldo è emblematico di ciò che succede anche per il discorso economico, diventato ormai una sorta di religione: se parli tenendoti sul vago di grandi temi come, per esempio, il bisogno di una riforma del capitalismo, i rischi della globalizzazione, quelli della finanziarizzazione dell’economia e dei seri pericoli che per sua causa corre la democrazia allora in tanti ti ascoltano, ti stringono la mano, ti danno una pacca sulla spalla, ti porgono anche il loro biglietto da visita accompagnato da un immancabile «dobbiamo risentirci per riprendere l’argomento». Se, invece, dalle grandi questioni astratte infarcite di numeri incomprensibili e slides pirotecniche passi a quelle concrete riempite di volti umani sofferenti, porti alla luce le contraddizioni tra il dire e il fare di certe testimonianze, metti in guardia dal buonismo di facciata che impera anche in molte organizzazioni nonprofit, ridicolizzi eccessi di protagonismo e di egolatria, allora no, allora non va bene, allora diventi sovversivo, pericoloso, ingestibile. E subito c’è qualcuno che va a riferire a chi di dovere per farti mettere in riga, come gli zelanti fedeli del Duomo inorriditi dal parlare così forte, chiaro e destabilizzante di padre Turoldo.

    Purtroppo spesso trovano ad ascoltarli personaggi pavidi, fatti della loro stessa pasta. Così tutto si blocca, la zizzania fa il suo miserabile corso, le anime non si svegliano e il nuovo non fiorisce. Qualche volta però capita anche che si trovino di fronte persone miti, belle, coraggiose, simili per indole al cardinale Schuster: economisti lungimiranti e ancorati alla realtà, imprenditori capaci e innovativi, manager disinteressati ad accumulare prebende, dirigenti del Terzo settore autenticamente al servizio del bene comune, governanti onesti e competenti. In tal caso tutto può cambiare. Maldicenze e menzogne non fanno breccia e chi è già in cammino viene spronato ad andare avanti e a fare «bene il bene». Succede. Più di quanto non si possa pensare. E questo libro vuole sottolinearlo.

    Introduzione

    È sempre la solita solfa. Purtroppo. I ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e chi sta in mezzo di solito va presto a fare compagnia ai secondi.

    Anche stavolta non c’è stato scampo. Anche l’ultima infinita crisi economica, scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti e poi propagatasi nel mondo intero, non ha fatto altro che confermare la vecchia, spietata regola secondo la quale quando le cose vanno male quelli che già arrancano cascano in peggio, chi sta in bilico spesso li segue mentre chi se la passa bene finisce poi per stare ancora meglio. Molto, ma molto meglio.

    I dati abbondano in proposito. A cominciare dalle consuete classifiche dei Paperoni planetari di Forbes o Bloom­berg che vedono al top multimiliardari con ricchezze personali pari al prodotto interno lordo di interi Paesi. O, all’opposto, le rilevazioni sulla disoccupazione, vero termometro dello stato di diffuso malessere, che celano storie di vita e a volte, ahimè, anche di tragici fine vita.

    Le prime sono note, le conosciamo più o meno tutti, con al top i famosi Bill Gates, Carlos Slim, Amancio Ortega, Warren Buffet, Ingvar Kamprad, i cui patrimoni, è stato calcolato, valgono rispettivamente quanto il Pil di Stati come Azerbaigian, Ecuador, Costarica, Uzbekistan, Libano. Per un ammontare complessivo di circa 300 miliardi di dollari in mano a sole 5 persone.

    Per non dire poi, sempre avendo a riferimento come termine di paragone l’unità di misura del Pil, di come i super ricchi del Pianeta sottraggano al fisco, depositandoli nei paradisi off shore, una gigantesca montagna di soldi, dell’ordine di 21.000 miliardi di dollari, l’equivalente nel 2012 del Pil di Stati Uniti e Giappone messi insieme.

    Quanto al nostro Paese è sufficiente sottolineare che il patrimonio delle 10 famiglie più ricche è uguale al patrimonio dei 20 milioni di italiani più poveri, che nelle disponibilità del 10 per cento degli italiani si concentra quasi il 50 per cento della ricchezza nazionale, in quelle dell’1 per cento il 23,4 per cento e che l’evasione fiscale è così diffusa che meno del 2 per cento degli italiani dichiara più di 100.000 euro all’anno e solo lo 0,1 per cento più di 300.000 euro.

    Pure di chi sta peggio, i più, si sa molto. Soprattutto in anni recenti perché finalmente le notizie girano più liberamente, i canali di informazione (e controinformazione) sono molteplici, quello che accade in qualsiasi parte del mondo è a portata di mouse e l’effetto domino di grandi manifestazioni di denuncia delle disuguaglianze riesce talvolta a rivelarsi inarrestabile, convincente, illuminante.

    Basti pensare al movimento, di breve durata ma di vasto impatto culturale Occupy Wall Street, nato nell’estate del 2011 a New York su impulso di Kalle Lasn, fondatore della rivista anticonsumista Adbusters, per denunciare le derive banditesche della finanza speculativa all’insegna dello slogan, pur grossolano ma sicuramente efficace, «Noi siamo il 99 per cento». Una protesta contro quell’1 per cento, appunto, che detiene il grosso della ricchezza mondiale e decide le sorti del restante 99 per cento della popolazione mondiale. Spiegherà Lasn:

    Questo movimento è essenzialmente un’idea che ha radicato milioni di giovani nel mondo attorno a una presa di coscienza: che i conti del futuro non tornano, non quadrano né dal punto di vista socio-economico, né dal punto di vista ambientale.

    E gli farà eco il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz:

    Il sistema economico è non solo inefficiente e instabile ma anche profondamente iniquo. La grande recessione non ha creato la disuguaglianza, ma di certo l’ha aggravata. Con le opportune politiche possiamo migliorare la situazione. La domanda è: possiamo farlo? Sì, a patto che il 99 per cento della popolazione si accorga di essere stato ingannato dall’1 per cento: che ciò che è nell’interesse dell’1 per cento non è nel loro interesse. L’1 per cento ha lavorato sodo per convincere il resto della società che un mondo alternativo non è possibile.

    Ha pienamente ragione Stiglitz, quell’1 per cento, che naturalmente è una percentuale simbolo più che una stima inappuntabile, ha lavorato sodo e incessantemente per far passare l’idea che le disuguaglianze non devono essere demonizzate. Anzi, che sono fisiologiche alla crescita economica, perché solo così può realizzarsi quella che certa teo­ria economica, tanto screditata quanto amata dalle élite, chiama «economia dell’effetto a cascata» (trickle­-down economics). Un tipo di economia, per dirla in estrema sintesi, che sostiene che è necessario che i ricchi si mangino il grosso della torta affinché poi si possa liberare qualche briciola anche per i poveri. Tanto vale quindi, è la conclusione che traggono, non andare troppo per il sottile. Per esempio: vengono elargiti immeritatamente super bonus a banchieri e top manager? Imprenditori senza scrupoli licenziano da notte a mattino

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