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Strade negre
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E-book162 pagine2 ore

Strade negre

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Personaggi in cerca di lavoro, in cerca di cibo, in cerca di sesso, in cerca di umanità, esistenze che si giocano a testa o croce; suore, arcivescovi, mendicanti, monumenti, smog: “Castel Sant’Angelo m’appare rossiccio nel fresco tramonto romano questa sera, tutto è crepuscolo, tutto è Trastevere, e minaccia tramonti all’infinito. Io me ne sto in silenzio, pelleossa, col cuore dell’Impero che continua a palpitarmi dentro, a pomparmi di bianchitudini, dimentico per un istante gli etruschi e fisso Roma dalla finestra, nel traffico – Roma scheletrica succhiamarmi – Roma vegetale – Roma crocifissa – Roma comatosa – dolce morte a leggerne il prezzo – partono ancora altri applausi e intuisco che la lezione ci è stata data – la tortura è finita.”.

Strade negre” è un canto ininterrotto che si snoda per esperienze, affabulazioni, chilometri, bestemmie, sonore risate e abissi vertiginosi.
“Noi ci siamo spezzati, i vulcani eruttano ubriachi stracarichi di lamenti, e noi chissàchi, noi negri forse, col nostro impossibile, i nostri boschi e membri e schiume, con le nostre scimmie pesanti, noi risaliamo indemoniati incontro alle foci per farci un tiro fra milleonde, distrutti, squarciati, strafottenti, avanziamo decisi, drastici, dicendo addio all’amore, mai quieti nello splendore mai quieto… noi col nostro burrascoso desiderio d’approdare altrove, non contro, ma oltre, noi così carichi di teorie e sigarette, noi dementi, mai rabbiosi, noi magri e squattrinati, noi costruttori di ordigni e rotte, noi che puntiamo il dito negro, noi chissà chi, noi ce la ridiamo”.

Sono la Roma e la Lecce e Parigi a far da sfondo alle vicende del nuovo romanzo di Davide Morgagni, “Strade negre”, un nuovo colpo inferto alla lingua, alla sintassi, alle buone maniere, romanzo visionario, perché totalmente incollato alla superficie febbrile di ciò che descrive, attuale e immanente, perché racconta la realtà e la crea mentre essa stessa accade sotto i nostri occhi.

Dopo avere esordito nel 2014 con il romanzo “I pornomadi” (Musicaos Editore), ritorna con una nuova storia.
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2017
ISBN9788899315801
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    Anteprima del libro

    Strade negre - Davide Morgagni

    Table of Contents

    Davide Morgagni

    Strade negre

    Davide Morgagni Strade negre

    STRADE NEGRE

    Prima parte

    Seconda parte

    Profilo biografico

    Davide Morgagni

    Strade negre

    Musicaos Editore, 2017

    Fablet 8

    Progetto grafico

    Bookground

    Ogni riferimento a fatti, cose, persone, è da ritenersi puramente casuale.

    Musicaos Editore

    Via Arciprete Roberto Napoli, 82

    Neviano (Le) - tel. 0836.618.232

    www.musicaos.org

    info@musicaos.it

    Isbn 978-88-99315-801

    Davide Morgagni Strade negre


    STRADE NEGRE

    Prima parte

    Puah! sto catarro! come lo sento arrivare, dolciastro, vischioso, che brucia e s’increspa e lo inseguo nei polmoni disperati, come lo bracco, per espellerlo con brevi contratti colpi di tosse crr – mentre forse è solo tutto un abbaglio, un altro brutto quarto d’ora nella mucosa bronchiale – o forse è il diavolo che mi bisbiglia nell’orecchio di sputarlo fuori, di sputarlo via, da qui sino a non so dove, puah... fallo... fallo bastardo, mi dice, crr... staccalo via dalle tue labbra e lascialo colare schiumoso nel lavandino, sto brutto catarro appiccicaticcio – puah! –

    Oh sì, ne so una in più della donna io e batto i pugni su tutti i chicchirichì del mattino e fumo e strafumo sigarette tropicali, dorate, mescolate al caffè e al chissà che, per inciampare nell’espettorato, sì sì ahimè coi mal di gola, fra i batteri impercettibili e le infezioni del caos, per cascare fra i baffi di un gattino che dorme laggiù, o per sentire i limiti della luna o il silenzio dei manganelli forse, puah!

    Ah sì, io casco dolce che cristo, traballo sconosciuto qui nel sud angelico, farfuglio secreto, sono troppo vivo mi dico, certo troppo vivo, è questo il rischio che si pone, il rischio che risucchio assieme allo sciroppo e cazzo, perché lo sento come monta e s’accumula ed è una guerra di albe guadagnate e mal di pancia benvenuti, trincea dopo trincea, di siga in siga, sino all’ultimo nervo.

    Lo tiro su, ce l’ho qui ora viscido e torbido e me lo giochicchio fra i denti e m’abbandono a sognare i giorni delle mie tenere fughe, i giorni delle mie strade negre, e casco tremendamente di buonumore, come il congolese strafatto che rifila pacchi di fazzoletti all’angolo della strada o la colombiana che spompina i vecchi del quartiere a trenta euro e se la ride, oh anch’io casco, non c’è che dire, nullatenente nel monossido di carbonio e me la rido, e non appena lo sento che s’agita e che fa crr e non mi lascia mangiare, non mi lascia dormire, non appena mi prende a manate e mi trascina con la sua lunga criniera mucosa melodiosamente dentro una sputacchiera, una febbre negra mi prende, mi penetra grado grado, mi sfiamma e sbilancia a destra e a manca! oh è un attacco di panico internazionale, lo sento, fra le mischie di piazza affari, fra le temperature delle recessioni, negli occhi di un budda negro, nell’amore che ti odia, nei baci che mi passano per la bocca, tiro su questa polpettina di polvere da sparo, sta purulenta nocciolina americana, che è una bomba, è una bomba che pulsa, una bombatomica che mi pulsa nel cuoricino e dai miei passi ne affretta la deflagrazione, puah mmm sì, è un dispositivo tutto negro che lancia i suoi dadi inarrestabili inesauribili perdio e boom...

    Perdio ecco che lo sento sbuffare, due botte di tosse e sale su in canna pronto allo sparo, perché io ho gli occhi che vanno a fondo tra gli spari, ed è tutta una questione di catrame, nicotina e sognare un aerosol, e st’albero bronchiale prende fuoco, con tutte le sue foglioline morte, penose, incravattate, perché diciamolo... al risveglio... è un albero che prende fuoco...

    Puah!

    Si vive così quaggiù, come pochi anni fa, quand’ero lassù nell’alba romana, nella capitale dell’Impero, lassù, a Roma, sognando che andasse tutto in fiamme e vaffanculo.

    È l’Impero che te lo insegna, te lo programma, te lo consiglia, te lo offre nel banco dei surgelati, te lo pianta nella cassetta della posta e tu lo afferri valicando il Rubicone, lo assorbi e sei fatto di acqua, fredda speranza, non ci fai più caso, accetti la resa e di crepare in fretta, alla svelta, a occhi stretti.

    Sì, bisogna fare presto, questo non è un romanzo che si può prendere del tempo per carburare, bisogna essere rapidi secchi purulenti e gettarlo via sto catarro... a ritmo, questo sapore romano, questo sapore apostolico che trattengo ancora oggi nella bocca e mi fa cascare qui, nel sud cascante.

    Perché sono uno che sprofonda a dovere se c’è da sprofondare – ve lo assicuro – se c’è da sputare la rospa, questo sapore della rottura – o resta nella gola e ti soffoca oppure fugge per un’altra via – e l’altra via è sempre la più pericolosa, la più disgraziata, la più solitaria, certo.

    È la via negra.


    Ricordo un luglio come tanti, sono a Roma da quasi un anno, si crepa dal caldo lungo la Casilina, la casa è colma di ansie e bacherozzi, io non so che mi prende, sono colmo d’ansia e devo trovarmi un lavoro.

    Io che sono un pescespada connesso alla rete, io che sono il più grande poeta di questa cippa, mi gratto la barba un po’ lunga da naufrago nel web, quarantasei morti da qualche parte, il foglio illustrativo dello sciroppo sul comodino, con le illusioni dei mentecatti e Amleto sulla punta della lingua, niente visioni, presto! presto! devo trovarmi un lavoro, un posticino, pagare l’affitto e le bollette, sudo sputacchio m’accendo una sigaretta, scrivo nel motore di ricerca... lavoro a roma...

    Ci sono oltre duecentomila offerte nei miei occhi perduti, posso scegliere dove schiantarmi o attendere la buona sorte.

    Un eurostar non troppo lontano passa lento e già me lo fischia, già me lo trasferisce nella Tromba del signor Eustachio, me lo dice che resta ancora poco, che non sei un cazzo, mi ricorda squattrinato, me lo dice con la vocina cruda d’una fatina morta, ed io mi sogno catturato d’improvviso da un flusso astrale o un flusso statale, a fare un passo indietro e diventare una pianta grassa che si lamenta del tempaccio, o m’immagino un passo in là a scrivere poesie di merda sulla luna – oddio m’imparanoio, temo l’apocalisse, il lunedì in cui giungerà una lettera dalle poste centrali, quando saprò se è una multa o un pacco di veleno da Singapore, una coltellata in faccia o un contratto d’assunzione, sì sì e poi prenderò ossessivamente posizione, già lo so, schieramento sulla mappa dei piombati, e mi ficcherò la decisione sbagliata in bocca... oh sì lo farò... ingoiando pugni di mosche e cacamenti di minchia e arrosti misti – e continuerò a sudare forse, a sudare per schiantarmi nel buio!

    Perché lassù non c’è nessuno e ti schianti, ti devi dare una smossa, una sprazzz una zzaaa qui in fronte, o strapazzarti altrove, perché è una faccenda di passi, un passo qui o un passo in fondo al canyon, non c’è altro, soltanto tu e lo schianto. E un po’ di immaginazione.

    Mi affaccio dalla finestrella nella gelida calura della città eterna, nel vento umido della civiltà romana. È un altro giorno in paradiso.

    Ho l’anima come pensierosa sul porto dell’Havana.

    Roma duemilasette.

    Fumo, nel fumo della ferrovia che si stende per km e km sotto casa sulla Casilina, ho voglia di uscire, andare via da non so che, prendere un treno, farla finita per sempre con non so chi, intanto tutto urla sul fiumelettrico, urla e si schianta schizza e scricchiola sul fiume ferroso, abbaia sul pepato fiume atomico, urla Roma con la sua fica depressa e quasi s’avvinghia al mio pisello magnetico, Roma urla sbotta e si sballa, fra le gelide carrozze gonfie di carne, che filano filano dentro al nervo taciturno sottoroma...

    L’atmosfera è gassata – color ruggine – tossisce –

    Delle casalinghe incazzate espongono laggiù degli striscioni polverosi, le sento contestare di buonora lungo la strada, è già una settimana che sono in protesta. Credo si tratti a causa di una bella antenna che un’azienda telefonica vuole piantare sulle nostre teste.

    Le casalinghe mugugnano e a volte m’è parso che s’abbracciassero entusiaste, presto pianteranno l’antenna ma a quanto sembra hanno ancora tutto il diritto di farla rimuovere, di protestare o di ritardare la crocifissione...

    Non ci capisco nulla, sono una casalinga infuriata, tutto muore sul fiume che crepita, ogni cosa s’ammucchia nel mattino e parla di rovine e fischietti e comitati e aborti e tumori e pance terribilmente dilatate, di politici di merda ladroni assassini, ogni cosa è una definitiva cancerogena coltellata fra i denti.

    Passa un’Interregionale ed io fisso rotolare profili addomesticati e mani selvagge – tutto è bosco e pineta dentro il fondo dei vagoni sciolti – tutto è passatempo e luna gelida e mi sembra febbrilmente confuso.

    Che mattino assoluto casilino.

    Gesù mi dico e comincio a tossire a grattarmi a perder peso... c’ho una strana paranoia, ce l’hanno tutti sta paranoia d’angioma celestiale che soffia nella cecità romana, angelica, sino a scoprirne gli unghioni.

    Che delirio di nervi ad alta tensione nel dolce marmoreo fibroma delle connessioni barocche!

    Oh lo sento, lo sento non so che cosa ma se ne sta lì, col forcone sotto al culo di Roma, sulle masse tumorali sulle banche i senatori le casalinghe e a chi vale una caccola, lo sento fra i cigolii dei carri, mentre mi faccio il caffè, siamo un po’ tutti assassinati o impiegatucci della morte stamane, siamo caccole ammassate nella fossa comune in cerca di quattrini, risentiti, ai piedi dei palazzi industriali. E a breve esploderanno nuovi mucchi di idee eterne e con l’appoggio dei Beni Culturali ci erigeranno giganti monumenti in onore al Sarcoma, per noi negri eternamente in protesta.

    L’aria di Roma ce lo dice, ce lo dice da millenni spremendoci i foruncoli e i fori intimi, ce lo dice adesso o lo afferri mai, nel vento postumo di Costantino, nello smog cosmico, dal mattino-cocaina all’alba imputtanita, e noi ce ne stiamo imputtaniti, finiti, incatenati in attesa sulla sedia elettrica – la prognosi è leggera – la diagnosi è luce negra –

    Ok ok ma ora mi riprendo mi faccio una doccia è una bella giornata ok ok ora finiscila finiscila con tutti sti malumori perdio eh basta... che catastrofismo... dai dai pensa alle cose da fare... mi cerco un lavoro... qui cercano in un call center...

    Come si esce? come si esce? ho bisogno di prender aria, lontano da qui, come si esce? mi sciacquo la faccia sputacchio borbotto lo sento, c’ho la paranoia, la sento scorrere, è un massacro taciturno nel sangue acido che s’accompagna ai croissant, per accelerare l’assalto al colle, l’assalto della militanza, Gesù come scorre cazzo e scorre nella nebbiosa cinecittà delle rovine e tira lo scarico e se ne lava le mani.

    Va bene va bene viva la patria uh Gesù uh che visione nel mattino casilino, Gesù come rumoreggia l’onda anomala dei miei pensieri, eh sì, mi tocca mi dico, la sento la magnitudine dispotica nel regime dei nervi sbatacchiati, mi tocca, i finanziamenti ontologici, i patrimoni mondiali dell’umanità, lo sento il notiziario radio, il muschio che cresce fra le colonne doriche e i giorni che se ne andranno, quaggiù nell’interpiano di manifestazioni pacifiche in piazza e par condicio telluriche nelle periferie... lo sento... sì sì ci stiamo staccando come gli iceberg e presto smetteremo di piangere, smetteremo di protestare e di sanguinare, smetteremo di stancarci, percuoteremo i motori sino a farli ridere a crepapelle e porteremo le lenzuola alla bocca per squarciarle, per lasciare le nude caviglie al morso delle zanzare, mi dico, e intanto lancio una cicca dalla finestra che sfiora la testa d’una donnona che urla nnatevene a fanculo... e mi viene d’improvviso una smodata sognante voglia di pisciare nei giardinetti del Quirinale...

    Deraglia deraglia mi dico, deraglia e lascia che sgorghi questa bufera della Madonna, puah, non arrivare subito al dunque, non arrivare subito al dunque, non esitare.

    Stiamo morendo finalmente.


    Pigio il pulsante del portone e inciampo per la via, sono le nove del mattino sulla Casilina.

    Tre donne del comitato per la tutela di non so che mi corrono incontro, temo il peggio e ho voglia di tornare indietro, mi dicono qualcosa in dialetto romano... non so... rispondo... ti tocca firmare qui bello mio... mi dice una grassona con indosso una specie di vestaglietta da notte, forse è un sogno, un film, bisogna lottare contro sti pezzi de merda che ce vogliono infilare st’antenna ne er culo... firma qui bello... stavolta l’antenna se la mettono a

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