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Tuono d'estate
Tuono d'estate
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E-book151 pagine2 ore

Tuono d'estate

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Fantascienza - romanzo (113 pagine) - Nell’Italia di D’Annuzio, Enzo Camisasca sbarca il lunario come cronista di Nera. Una mattina è convocato in fretta e furia dal suo direttore si trova trascinato nel vortice delle indagini, dove, con l’aiuto di vecchi commilitoni, di qualche poliziotto sopra le righe, di piccoli delinquenti e di una prostituta fiumana, individua uno dei colpevoli del rapimento.


Nella torrida estate del 1924, la Roma pigra e sonnolenta che non ha ancora guardato in faccia il vero volto del governo di D’Annunzio è scossa da un’ondata di crimini: rapine, omicidi, un delitto politico. La Polizia brancola nel buio. Così Enzo Camisasca, cronista della Nera, più per sbarcare il lunario con i suoi articoli che per amore della Verità, indaga. Con l’aiuto del commissario Francesco Ingravallo, di delinquenti di mezza tacca e di una prostituta fiumana, riuscirà ad avvicinarsi alla Verità? Un gioco letterario che omaggia uno dei capolavori dei Novecento…


Alessio Brugnoli, nato nei turbolenti anni Settanta a Roma, ingegnere e giramondo, nella vita normale si occupa di cose alquanto banali come il Cloud Computing o l'Intelligenza Artificiale. Allevatore di pappagalli, in passato è stato curatore di mostre d'arte e vicepresidente di un'associazione dedita alla musica e alle danze popolari.

Attualmente si occupa di street art, prima o poi metteranno al gabbio e butteranno la chiave, e, ogni tanto, si ricorda di scrivere romanzi e racconti.

Due volte vincitore del premio Kipple, con i romanzi steampunk Il Canto Oscuro (2011) e Lithica (2015), ha pubblicato i romanzi Marciare per non marcire per Soldiershop e Navi grigie per Edizioni Scudo. Ha partecipato con i suoi racconti a numerose antologie, come Operazione Europa (Elara) o Penny Steampunk di Roberto Cera.

LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2022
ISBN9788825419306
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    Anteprima del libro

    Tuono d'estate - Alessio Brugnoli

    Capitolo I

    10 giugno 1924

    Non so cosa diavolo voglia Alberto, per farmi chiamare così di fretta: ero nei giardini di Piazza Vittorio, gettando briciole alle papere del laghetto, in attesa del commissario Ingravallo, per avere qualche dettaglio con cui arricchire e condire il mio prossimo articolo di Nera. Scrivere è cucinare, sotto tanti punti di vista, e le parole, gli aggettivi e gli avverbi sono come salse e spezie; poche e il risultato è sciapo, con il lettore che sbadiglia. Troppe e perde il filo, con il cervello che digerisce male i concetti.

    Mentre inseguivo questi pensieri, che Alberto definirebbe oziosi, da scrittore frustrato invece che da buon giornalista, all’improvviso mi sono trovato davanti uno dei garzoni del mercato, con i pantaloni di fustagno e la camicia bianca, sporca di grasso e sangue. Puzzava anzi che no.

    – Sete voi Camisasca?

    mi ha chiesto, tutto affannato, cogliendomi alla sprovvista. Mi sono grattato il capo, improvvisando un paio di smorfie.

    – Avete qualcosa da dirmi sulla rapina alla vedova Menegazzi?

    Il garzone ha scosso il capo con vigore.

    – Magari, almeno ce guadagnavo quarcosa… Me manda ‘nvece Don Umberto, er pretonzolo de Sant’Eusebio… Ce l’ha presente no? Quello ‘mpettito come l’Alberone, co’ l’occhiali tonni e la faccia che pare la Luna.

    – Sì, sì… Ma non capisco cosa possa volere… Non sono tanto di messa, io.

    Il garzone si è fatto un paio di segni della croce, per poi guardare preoccupato verso la scalinata della chiesa, temendo di vedere spuntare all’improvviso la tonaca nera del parroco.

    – E che j’hanno telefonato ‘n sagrestia, dicenno de trovalla con prescia. Io ero appena ‘ntrato, ma dalla porta de dietro, a Principe Amedeo, pe’ consegnà ‘na chilata de braciole d’abbacchio e la coratella, che subito zi’ prete m’ha fregato.

    Non perdere tempo Pisciarè, che è una cosa importante, altrimenti la prossima volta che ti confessi, oltre a un centinaio d’Ave Maria e di Pater Noster, ti ammollo pure tre o quattro ceffoni.

    Così m’ha gridato don Umberto… Detto fra noi, dato che c’ha du’ mani che parono palanche, me so’ sbrigato.

    Ho cominciato a giocare con i polsini della camicia, scacciando una farfalla che vi si era posata. Un gruppo di monelli si è accampato, simili a un’orda di abissini, sulla panchina accanto alla mia. Uno di loro, non sapendo come perdere tempo, si è messo a fare il verso al garzone, imitandone positura e smorfie. L’ho visto con la coda dell’occhio, trattenendo il sorriso. A fatica, ho ripreso a conversare.

    – Tutto molto interessante, ma chi mi cerca? Don Ciccio è in ritardo? Oppure ci sono novità al commissariato di Santo Stefano del Cacco?

    Il garzone ha allargato le braccia. I due monelli più annoiati hanno cominciato a bersagliarlo con bucce di lupini.

    – Ve cerca er vostro Direttore, Bergamotti, o quarcosa der genere.

    – Bergamini…

    – Proprio lui… Aho, ah pischè, se nun la smettete, ve corco come zampogne… Me scusi, ma questi so’ tempacci, nun c’è più rispetto e educazione… Mi’ padre, se provavo a fa’ ‘na cosa der genere, me pijava a cinghiate, altroché… ‘Nvece co’ ‘sta gioventù d’oggi. So’ tutti forestieri, burini, frascatani, ciociari. Er Vate li dovrebbe spedì a zampate a li paesacci loro…

    Ho sbuffato un paio di volte. Sembravo il trenino con cui i piccoli sono sbattuti qua e là per i giardini, mentre le loro balie si intrattengono con i fidanzati.

    – Concordo, ma venendo al sodo, cosa vuole il mio Direttore?

    – Che deve core da lui, ma a casa sua, no ‘n Redazione. Don Umberto me l’ha ripetuto tre volte, mica una.

    Mi sono liberato delle ultime briciole, subito assalite dai piccioni. Mi hanno ricordato i miei commilitoni, in trincea sul Carso, quando arrivava il rancio.

    – Va bene, va bene…

    Ha allungato la mano, sporca di grasso, terra e sangue. Gli ho dato un paio di monete: lui ha sorriso. A quanto pare, il blocco dei salari voluto dal Vate ha cominciato a farsi sentire.

    – Ragazzo, se vedete Don Ciccio, ditegli che ho avuto un’emergenza…

    – Mejo che nun lo vedo… Sa, pe’ arrotondà quarcosa lavoro pure pe’ er Braz…

    – Capisco.

    Uscendo dai giardini, mi cade l’occhio su dei tizi, impegnati a prendere misure e a scattare fotografie a quel vecchio rudere che era l’ingresso secondario di Villa Palombara, tutto decorato da simboli strampalati. Benchè il Governatorato abbia proposto più volte di spostarlo, per porlo in una posizione più acconcia, ora è un vespasiano per gatti e per sbandati, non possono essere operai. Sono sia troppo eleganti, vestono all’ultima moda londinese, sia troppo solerti nel prendere appunti.

    Il primo, vestito con un abito grigio, troppo pesante per questo giugno così afoso, pare uno dei costumi di scena di Petrolini, è più alto di me di un paio di palmi, ha il viso allungato, un naso importante, quasi michelangiolesco, orecchie a sventola e la fronte alta. I suoi capelli neri cominciano a diradarsi. Mi colpiscono gli occhi, due pozze d’acqua torbida.

    L’altro è vestito con un completo di lino celeste: sarebbe un bell’uomo, con la sua chioma folta e corvina e i suoi lineamenti regolari, alla lontana somiglia ad Angelo Ferrari, non è che mi sia piaciuto tanto negli ultimi film, ma qualcosa, una paresi o un animo troppo severo, li rende ben poco amichevoli. Socchiude troppo spesso gli occhi, forse è miope.

    Mi avvicino, per impicciarmi, sono pagato per fare questo. Il tizio alto, con evidente accento straniero, cosa che lo rende assai buffo, solo la discrezione mi impedisce di ridere, biascica

    – Il sentimento più forte e più antico dell'animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell'ignoto.

    Il suo compare sta per rispondere, poi si accorge della mia presenza, aggrotta la fronte, mostrando tutto il suo cipiglio e imponendosi di tacere. Scuoto la testa, deluso. Turisti, nulla più. Da quando un ciarlatano, in un baedeker dedicato all’Urbe, ha chiamato Porta Magica quel rudere, scrivendo tante baggianate sull’alchimia e su riti magici, fanno sempre più capolino. A sentire il nonno del mio vicino di casa, che abitava nella Casa Tonda, prima che la demolissero, lì c’erano solo campi di carciofi. La campana di Sant’Eusebio ricorda alla mia pancia che è quasi ora di pranzo. Se mi sbrigo, forse posso scroccare qualcosa ad Alberto.

    Così corro dal mio Direttore, scapicollandomi. Chissà che diavolo è successo, per farmi tutta questa fretta. Al di là dei fatti di via Merulana o della rapina alla Standard Oil, la Mala a Roma è tranquilla in questi giorni. C’è stato solo qualche fermento tra gli anarchici, giù a Centocelle: mi accennavano qualcosa, sempre a mezza bocca, non sia mai che ci sia in Redazione qualche informatore al soldo dell’Idra, i colleghi che scrivono di politica. Ci credo pure, vista la scena di macelleria messicana a cui mi è capitato di assistere.

    Però sono vicende che riguardano Ettore ed è salutare, in questi casi, nascondere la testa sotto la sabbia, come fanno gli struzzi, giù in Abissinia.

    Una bonaccia, forse un effetto delle nuove leggi di D’Annunzio, per mettere in sesto l’ordine pubblico, che di certo non aiuta a fare guadagnare la pagnotta a noi cronisti di Nera. Prima o poi toccherà inventarmeli, i delitti, qualcosa di simile a quelli che leggevo prima della Guerra nei romanzi. Eppure, sento un’elettricità nell’aria, come un navigante che si approssima a uscire dall’occhio per ciclone, per rituffarsi nell’anello di temporali torreggianti. Forse è solo una speranza, oppure mi ha suggestionato l’improvvisa chiamata di Alberto.

    Nonostante sia giunto in fretta e furia, dopo un poco di anticamera, la governante mi fa segno di seguirla nel salotto, senza offrirmi né una bibita, né uno spuntino. Dall’accento, mi pare sicula. Tutto si può dire, tranne che il mio Direttore non abbia gusto per le belle donne. I lineamenti e il colore dei capelli mi fa pensare a un’ascendenza normanna. Sbuffo, dopo aver rischiato di inciampare sul bordo di un tappeto malmesso, dalle geometrie sgargianti.

    – Alberto, se non hanno ammazzato il Re o il Papa…

    Non faccio in tempo a finire la frase che il mio Direttore, seduto sulla sua vecchia poltrona, che secondo me risale ai tempi di Pio IX, agita la mano, facendo segno di tacere. Indossa ancora la giacca da camera, di un rosso cardinalizio. La persona che gli è accanto apre bocca, dandogli fiato.

    – Quasi, Camisasca, quasi

    Oddio lo riconosco, anche se non mi occupo di cronaca politica: è Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, mi pare. Tra scissioni e fusioni, quelli cambiano nome una volta per due. Non è che sia uno dei loro potenziali elettori. Come diceva mio padre, è possibile costruire costruire il Socialismo in un Paese, purché si viva in un altro: i fatti della Russia, o come diavolo si chiama ora, sembrano avergli dato ragione. Sempre per citare uno dei suoi aforismi, con cui cerca di atteggiarsi a uomo di mondo, in Italia avremmo già il Comunismo, se non ci fossero i Comunisti.

    Matteotti è tutto sudato, con i pantaloni grigi sporchi di polvere. Sembra molto scosso. Agita senza tregua le dita e continua a guardarsi attorno. Do uno sguardo sul tavolo: non un piatto, anche piccino, di companatico. Me ne debbo fare una ragione. D’altra parte, Alberto, in Redazione, quando ci vede uscire per il pranzo, scuote il capo, ripetendo sempre ad alta voce

    – Un giornalista affamato è un giornalista motivato.

    Purtroppo, è una delle rare persone che fanno seguire i fatti alle parole. Per distrarre lo stomaco, cerco di rompere il ghiaccio. Mostrarsi amichevole è il modo migliore per fare cantare i criminali e i politici, come dicono tutti, sono delinquenti che hanno avuto successo. Come dice sempre Er Biondone, cattura più api un goccio di miele che un litro di aceto. A dire il vero, la frase originale è riferita alle mosche a al letame, ma in Redazione fanno tutti finta di avere orecchie da educande.

    – Buongiorno, Onorevole.

    Alberto si alza. Una polverina biancastra cade dai braccioli della sua poltrona, assai consunti. Un paio di toppe colorare spiccano sul suo schienale.

    – Mettiti comodo, Enzo, che abbiamo tanto da parlare… Vuoi del caffè, della cioccolata?

    Ci penso un istante, mi carezzo la pancia, per poi scuotere con vigore la testa.

    – Con questo caldo non è il caso… Magari un’anisetta, con qualche sfizio a farle compagnia.

    Il mio Direttore

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