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Tango di famiglia
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E-book262 pagine4 ore

Tango di famiglia

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La famiglia secondo la versione di Ciro Bonsignore da San Vincenzo al Piano (immaginaria cittadina campana), raccontata dal primogenito Nicola. Ciro e Nicola, una stampa e due figure. Uniti dalla passione per le donne e per il tango, divisi dal modo d’intendere quella per l’amore e per la vita. L’uno si nutre dell’arte di arrangiarsi senza averne necessità, l’altro della voglia di stare al passo del tempo che attraversa. Entrambi protagonisti di una storia familiare piena di comparse che gira a ritmo di tango. Nicola può dire di avere una mamma e solo fratellastri e sorellastre. Ciro – che di mamme ne ha già amate cinque senza mai ammogliarsi – decide di sposare la sua sesta fiamma che ha da poco partorito Ivan, l’ultimo Bonsignore. Come mai? Che cosa è successo?
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2020
ISBN9788835830979
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    Anteprima del libro

    Tango di famiglia - Giuseppe Petti

    Aires)

    Prologo

    «Allora, a che punto eravamo rimasti?»

    «Non lo so più, papà.»

    «Ti sei distratto, vero? Fa niente, mi sembra normale. Oppure mi sono spiegato male.»

    «No, ti sei spiegato benissimo. Ne hai dette solo tante, di cose.»

    «E tu hai finito per perdere il filo dei ragionamenti.»

    «Sarà...»

    Non erano affari di poco conto quelli che mio padre mi volle riferire nel giardino di casa sua, una domenica pomeriggio, dopo un pranzo davvero luculliano. Ciro Bonsignore aveva deciso di vuotare il sacco, facendomi precipitare addosso il suo contenuto con la stessa furia di una valanga, così, senza rendersene conto. Si era liberato di sé stesso, come fanno i peccatori quando restano inginocchiati per ore davanti a un confessionale.

    Credevo di conoscerli, i sommi capi della sua vita. Mia madre mi parlava spesso di lui, specie quand’ero piccolo o solo più giovane. Per non dire del ricordo delle nostre chiacchierate, dei suoi giudizi e dei rimproveri, quando non mi comportavo bene come al solito. Tante altre volte, avevo sorpreso mamma a fare delle confidenze sul suo conto a qualche amica, dentro casa, durante le noiose sere invernali trascorse davanti al televisore o a giocare da solo. Pensava che non la udissi.

    Parlavo di papà anche con i miei fratelli e sorelle, quando ci incontravamo o, più spesso, al telefono. Il resto lo avevo immaginato nei miei sogni. In quelli che facevo a occhi aperti, quando riuscivo a vederlo o quando mi chiamava, oppure a scuola, durante le lezioni che mi stufavano. Ma le cose davvero belle della sua vita le sognavo nei sogni veri, quei sogni che da sveglio mi facevano sentire forte come un leone.

    «Forse hai ragione, Nicola. Ti ho detto troppo, e tutto troppo in fretta. Mi dovevo rivelare a piccole dosi o, chissà, nemmeno dovevo farlo. Non volevo offenderti. Ho sbagliato, mi dispiace.»

    «No, papà. Non è così e non mi hai offeso. È che... dipende da me, ecco.»

    Riprese a camminare sul viottolo del giardino, con le mani dietro la schiena, pensieroso. Da lontano ci giungevano le note dei successi di Fabrizio De André. Le donne di casa avevano deciso fosse più distensivo conversare e spettegolare con il sottofondo di una musica meno impegnativa dei tanghi fin lì ascoltati. Salvatore – il fidanzato di mia sorella Rosaria – si era appisolato con una radiolina incollata all’orecchio. Sentivamo, confusa alla musica, la voce di uno speaker snocciolare i commenti e i risultati delle partite di calcio. Il Napoli stava vincendo una partita fondamentale per il suo campionato. Papà era da sempre un gran tifoso del Napoli. E lo ero anch’io.

    «Vinciamo, vero?»

    «Cosa, papà?»

    «Come cosa? Il Napoli, Nicola! Stiamo vincendo, no?»

    «Scusa... sì, vinciamo ancora. È che riflettevo su quello che hai detto.»

    «Capisco, ma le cose stanno così. Prima o poi, bisogna farla finita con le mistificazioni, diventa addirittura ridicolo continuare a fingere e a starsene rinchiusi nel proprio orticello. È necessario aprirsi, confrontarsi. È da adulti. Io ho voluto dirti le cose che non potevi conoscere; dirti, in sostanza, chi sono. Vedi, Nicola, nella vita non è importante sentirsi grandi o piccoli, vincere o perdere come quando si gioca al calcio. È importante essere onesti. Chi ci vuole bene, ci capirà. Ed è meglio vivere...»

    «Intendi dire alla grande?»

    «No, i protagonisti che conosco io sono gli attori del cinema e i poveri illusi. Stavo per dire: senza vergognarsi di essere ciò che si è. È qualcosa che ha a che fare con il rispetto, ecco, verso sé stessi e verso coloro che contano su di noi, o che hanno molto a che fare con noi. Sperando, nel bene e nel male, di non deluderli troppo e di non restarne noi stessi troppo delusi.»

    «Uhm. E tu, per questi principi, hai combinato tutto il bel casino che...»

    «Sì. È per questo.»

    San Vincenzo al Piano, terra di sogni e di dolori

    È difficile stabilire quanti strascichi lascerà nella mia coscienza e nella mia vita il ricordo del giorno solenne del matrimonio di mio padre. Lo strano e inaspettato evento che si è consumato con il fragore di un fuoco d’artificio lo scorso 16 luglio, nel bel mezzo di un’estate abulica e rovente come non ne ricordavo da anni. Un giorno quasi senza fine, sospeso a mezz’aria, come la bruma mattutina su un calvo pianoro. Un giorno per me denso di significati, terribile nella sua sostanza e, insieme, curioso per la sua stravaganza.

    Senza considerare i comprensibili timori, gli intimi turbamenti, che quel giorno potrà lasciare nelle coscienze e nei ricordi dei miei fratelli e sorelle. Meglio dire fratellastri e sorellastre, perché papà è stato così abile e incisivo da imprimere il suo marchio indelebile in molti dei suoi tanti approdi.

    Chissà poi cosa sarà passato, e cosa starà passando ora, per la testa delle sue compagne, informate su ciò che lo riguarda. Specie quelle che hanno voluto dargli la gioia di abbracciare un figlio tutto suo e accorrere alla sua festa per fargli gli auguri di persona, le donne che ha amato e mai dimenticato. Per noi e per loro, per i suoi figli e per quelle donne che mai si è sognato di trascurare e che a modo suo ama ancora, si sarebbe lanciato a peso morto persino nel cratere infuocato di un vulcano.

    Con la bilancia dell’alchimista papà continua a preparare pozioni magiche e il fondo del suo cappello non smette mai di sfornarci sorprese. Per noi e per loro, ha plasmato filtri fantasiosi e speciali, con china, zenzero e cannella; con polvere d’osso, ambra e sangue di ranocchi; con peli di scimmia, lacrime di coccodrillo e chissà quali altri intrugli. Lo hanno aiutato a puntellare senza sosta le armature degli insoliti equilibri su cui ha lasciato scorrere gran parte della sua esistenza.

    D’ora in avanti, oltre che preoccuparsi di equilibri, dovrà imparare ad arrampicarsi sugli specchi e ad appropriarsi di ogni tecnica di mimetizzazione. Per continuare a fare ciò che in cuor suo aveva già deciso da tempo. Non so se cambierà idea. Io credo di no. Se solo gli altri lo sapessero.

    Ora che l’estate è volata via, avverto come un senso di smarrimento e di vuoto. Me ne accorgo sempre più spesso quando da Roma rientro a San Vincenzo al Piano, più o meno ogni due settimane, per rivedere mia madre e Azzurra, la mia fidanzata, o per passare qualche ora spensierata insieme agli amici. Non solo. Con un po’ di fortuna, a volte incrocio qualcuno dei miei fratelli che come me passano a salutare le loro mamme, le persone che io chiamo zie. Non saprei dire se il mio malessere dipende da un mio maledetto stato d’animo o dal fatto che mi è ora nota gran parte della storia di papà. Entrambe le cose mi agitano. Tutte e due mi lavorano dentro con la pazienza e la perizia di un castoro, dimenandosi per ostruire il varco al flusso di ossigeno che mi alimenta.

    Come adesso, per esempio.

    Un ondivago disorientamento quasi mi annebbia la vista. Mi sento assediato da fiotti di vertigini che vogliono per forza spingermi in un baratro. Può darsi sia solo stanchezza, nonostante abbia fatto una sonora dormita. Mi confondono le lunghe strisce di pioggia che vedo precipitare copiose, lì fuori, ad appena un palmo dai vetri della finestra, in questa domenica mattina che si annuncia giornata fiacca e piena di risentimenti.

    O sarà per i brividi di freddo. Mille solerti aghi acuminati si accaniscono a pungermi la pelle, decisi a darsi da fare anche nei giorni di festa. Sarà perché sto ascoltando le nostalgiche e vibranti melodie dei tanghi di Piazzolla, standomene accucciato sul divano per arginare l’ostile tremolio che si diverte a scuotermi. Lo amo tanto, il tango, e da qualche tempo vado anche a prendere lezioni di ballo.

    Un flebile fuoco, lento e inesorabile, sta consumando nel posacenere un’altra sigaretta, la terza dopo il caffè, bruciando con caparbia convinzione un’altra possibilità. Il filo di fumo sale dritto per qualche attimo, traccia rotte verso mondi immaginari, per poi ingarbugliarsi e disperdersi in quest’aria di casa barbosa e viziata, carica di rimandi e aspettative disattese.

    D’altronde qui a San Vincenzo al Piano, in questo lembo di sud fertile e ciarliero, non tanto distante dalla capitale, tutto stenta ad avviarsi, tutto prima o poi torna al punto di partenza.

    Nel mondo che corre e cambia, San Vincenzo al Piano ama starsene a riposare nelle retrovie, è allergico al clamore, si modernizza senza strafare. Con passo calibrato, assorbe il lato snob e opulento del cambiamento senza mai disonorare gli annosi precetti della tradizione. Si muove al riparo dalla corrente, San Vincenzo al Piano. Un pellegrinaggio quasi a ritroso capace di salvargli l’anima dalle perfide mire del diavolo.

    Ogni tanto qualcuno tenta una sortita, facendo attenzione a non spingersi troppo oltre le linee. Come zia Lucia, una delle sorelle di papà. Due settimane fa ha fatto squillare il mio smartphone: «Sono zia Lucia, Nicola, o devo chiamarti ingegnere?» Mi ha invitato a casa sua a prendere un caffè e per chiedermi se potevo occuparmi del progetto di ristrutturazione del suo bagno. Quando le ho chiesto come stesse, ha risposto stizzita: «Come al solito! Non mi sento bene! Sono anni che non sto bene cu tutte ‘sti dulure. Sta molto meglio tuo padre. A proposito, si è ripreso dalle fatiche del viaggio di nozze?»

    Zia Lucia soffre, secondo lei, di una rara malattia ereditaria che le indolenzisce le gambe, accompagnata a una forma acuta di diabete che non farebbe altro che gonfiarla, appesantirla e riempirla di dolori. Si lamenta di non essere quasi più in grado di camminare. Un bel tipo zia Lucia, una donnina graziosa con quel viso rubizzo. La sua testa tonda poggia su un corpo somigliante a uno spazioso comodino e la grazia tornita dei suoi polpacci poco si distingue dalla silhouette di un melone invernale.

    Secondo me, da quando è nata zia Lucia non ha mai smesso di rimpinzarsi di dolci e manicaretti, che sa peraltro preparare benissimo. Combatte la solitudine e la depressione ingolfandosi di zuccheri.

    «Caro Nicola, i dolori sono un vero castigo! Per farmeli passare, tu lo sai, ho pregato i santi del paradiso che sempre mi sono stati cari. Tutti quelli che stanno in mostra sul comò e che ho sempre adorato. Però nessuno mi ha voluto stare a sentire. Si vede che non me lo merito! E pensare che per loro ho speso un sacco di soldi. Sono andata sempre a trovarli, ovunque li avessero messi a riposare, pace all’anima loro. Per salutarli, per farmi vedere, ho fatto decine e decine di gite e visitato le loro chiese, trascinandomi dietro queste gambe pesanti. Ho girato come un’anima del purgatorio. Fortuna, sennò a quest’ora sarei già con un piede nella fossa! E loro che fanno? Niente. M’avessero fatto maje nu miraculo! Non mi hanno mai fatto niente. Se so’ scurdate ‘e me. M’hanno avutata ‘a faccia. E allora saje mo’ che sto facenne? Non li prego più! Ma dimmi una cosa: secondo te faccio bene o devo perdonarli?»

    Stregati dall’amaro pragmatismo che alberga nei loro cuori, dominati da un conservatorismo degno de Il Gattopardo, alla maggioranza dei cittadini di San Vincenzo al Piano piace molto cambiare a patto che poco o nulla cambi. È inutile intestardirsi a fare cose che imbarazzano e non danno soddisfazioni. Vuoi per questo, vuoi anche per necessità, da un certo momento in poi papà si è tenuto il più possibile alla larga dalle grinfie e dalle ipocrisie dei suoi concittadini, preferendo fare vita da zingaro piuttosto che restare a rodersi il fegato.

    A San Vincenzo al Piano venticinquemila anime in lento movimento convivono sotto un cielo largo, spesso dipinto di turchese, e su una terra arsa dal sole per almeno sei mesi l’anno, a farsi sentiti dispetti e a nutrire reciproci sospetti.

    Tra limonate sorbite al fresco dei chioschi, ore e ore passate davanti al televisore, squilli di telefonini che si rincorrono, partite a carte fuori dai bar, viavai senza meta di motorini e di pensionati, traffico di camioncini stipati di casse ricolme delle primizie della terra, capatine al mare in auto linde e profumate, folate di fresco maestrale e umide carezze di scirocco, lavoro che viene e che va, a San Vincenzo al Piano tutto resta magistralmente costante.

    Costante il numero delle faide familiari scatenate da futili motivi, costante il chiacchiericcio pettegolo delle comari, costante l’alto numero dei matrimoni e quello basso delle separazioni. Costante la durata dell’antico rito della processione che chiude i festeggiamenti per il Santo Patrono. Costanti gli scandali che a turno travolgono le misere signorie locali, costanti le speculazioni edilizie, costanti gli adulteri, quasi mai smascherati, di cui ognuno sa.

    In questa domenica surreale mi si sono conficcati in testa molti pensieri, compreso uno fortissimo per mio padre. Dopo tutte le sue rivelazioni, le mie indecisioni sono diventate, se possibile, ancor più ballerine. A quest’ora si starà riposando, credo. So per esperienza che cimentarsi in nuove attività assorbe un enorme flusso di energie. Ci si incanala su declivi pronunciati, nemici giurati dell’ozio. E pensare che non è poi passato molto tempo dal suo rientro dal viaggio di nozze.

    Ho sempre avuto idea che un viaggio di nozze sia soprattutto snervante. Troppe cose da fare e da vedere, tempi tirati, impossibile permettersi di sbagliare qualcosa. Passata la tempesta, dimenticata l’ansia dei preparativi, attraversato il guado della cerimonia nuziale, conclusa la luna di miele, conviene tirare il fiato per bene. Dopotutto, restare sotto carica rasserena. Rinfranca il cuore e i sentimenti. Si ricostituiscono le riserve di allegria. Figurarsi se in luna di miele ti sogni di lasciarla a casa, l’allegria!

    Chissà se in luna di miele papà ronfava tenendosi aggrappato alla sua Rebecca o se otteneva il privilegio di andarsene a russare in pace in un’altra stanza. Quando si è stanchi mi sembra inutile perdere tempo a farsi le moine. Non credo ne avessero un gran bisogno, loro due si conoscono da tempo. In comune hanno già il loro piccolo Ivan, il mio ultimo fratellastro.

    Ciro Bonsignore e Rebecca Prati si sono frequentati per oltre due anni, prima di fare l’eroica pensata di sposarsi, fatto che di per sé ha dell’incredibile. Una sostanziale necessità, sembra. Papà mi ha raccontato che Emma Ridolfi, la sua penultima fiamma, non faceva altro che chiedergli di sposarla, di ...regolarizzare la nostra posizione soprattutto per fare in modo che il nostro Luigino non diventi, come già lo sono gli altri, un figlio quasi orfano di padre. Luigino, come Ivan, è un altro dei miei fratellastri. Come lo è Rosaria. Come lo sono Elvira e Salvo. Tra tutti, Luigino è quello che amo di più, perché mi fa più tenerezza. Papà alla fine si era sposato, ma con tutt’altra donna.

    Oltretutto, pare che Emma si opponesse sempre più spesso al fatto che lui non smetteva di occuparsi, se non degli altri suoi figli, delle sorti dei suoi vecchi amori. Su tutte, non si capiva bene perché, Emma ce l’aveva con mia madre.

    Un’eresia! Emma era andata a toccare un tasto delicatissimo, la famiglia. La sua famiglia. Ciro Bonsignore aveva un concetto largo e privato della famiglia. Qualcuno potrebbe dire comodo, ma sarebbe fuori strada. La famiglia era, insieme, la sua forza e la sua debolezza. Era il suo nutrimento, la sua croce, la sua stessa vita.

    Nonostante la pioggia, dovrei uscire per fare quello che faccio sempre la domenica mattina: quasi fosse una penitenza, andare a fare la spesa al centro commerciale sempre aperto, per evitare l’insorgere di ogni patologia da denutrizione; fermarmi alla lavanderia a gettoni per dare una ripulita agli stracci sporchi di queste due settimane di molto lavoro e poca baldoria. Più tardi mi informerò sui programmi che Azzurra ha ideato per la nostra serata, per avviarmi verso Roma, sulla strada del ritorno, a notte già inoltrata.

    Io continuo a vivere da solo. Come a Roma, anche qua ho preferito prendere un bilocale arredato in affitto. Da questo punto di vista, San Vincenzo al Piano offre convenienti opportunità. Poi non mi andava di piazzarmi a casa di mia madre e stravolgere il suo tran tran. È questione di abitudini. Chi come me si ostina a vivere solo, anche quando avrebbe ottimi motivi per non farlo, ha di queste splendide fisime. Le abitudini finiscono per essere teneri pretesti utili a sopravvivere, seguaci dalla fede incrollabile, silenti e tenaci aneliti di vita.

    Azzurra a quest’ora starà dormendo ancora. Speriamo si svegli di buonumore, che è cosa di fondamentale importanza. La nostra storia langue, fatica a trovare sbocchi, comincia a essere lunga e indolente come una soap opera. Si trascina come i capitoli di un interminabile romanzo d’appendice, rubacuori e strappalacrime, pieno di rospi da ingoiare e di colpi di scena, dal finale per nulla scontato.

    Non so se riusciremo mai a combinare qualcosa di buono, incollati come siamo alla voglia di restarcene ognuno per conto proprio. Può darsi che io sia poco incline ai raduni. Può darsi lo sia anche lei. D’altra parte, non conviene forzare la mano. Le decisioni che contano hanno tutto il diritto di servirsi del tempo che ci vuole per maturare. Ognuno ha i suoi dannati limiti, dopotutto.

    Nessuno oserebbe sperare, per esempio, di poter un giorno giocare a calcio come Diego Armando Maradona, l’idolo dei miei anni spensierati, per me l’unico che allora contasse qualcosa. Quando riguardo le immagini delle sue prodezze, mi convinco sempre più che ognuno ha il suo destino da vivere, volente o nolente, e che ci sono magie che nessuno può illudersi di fare.

    Guardando avanti, sono perciò sicuro di poter disputare solo onesti campionati, viaggiando inchiodato a metà classifica. Sinora ho provato col cuore a strappare qualche esaltante vittoria, talvolta riuscendoci e godendo fino in fondo del risultato, tante altre naufragando, castigato dai sogni stessi, troppo belli per essere veri, o dalle sviste del solito arbitro prezzolato dall’avversario.

    Tuttavia, sono certo che un sogno si avvererà: imparerò perfettamente a ballare il tango. Per ora me la cavo bene. Prendo lezioni di tango perché quella musica e quel ballo hanno il potere di trarmi dagli impacci, facendomi sentire libero di levitare. A Roma ci sono ottime scuole di tango, tutte ben frequentate.

    Le mie ammirate doti naturali non ne vogliono però sapere di esercizi e di figure, di sacrifici e di sudore. Me lo gridano spesso Linda e Pedro, i miei maestri. Il mio talento e il mio trasporto, a loro dire, desiderano restare cautamente nascosti, compressi nelle spoglie di uno svogliato e mediocre ballerino. Un allievo sempre distratto, ma che non smette mai di far brillare gli occhi quando si tratta di guardare il bel paio di gambe che gli rotea intorno. D’altra parte, sono un ingegnere edile: i solidi, le linee, i volumi, le figure geometriche, sono il mio pane quotidiano.

    E poi, a scuola di tango non si va solo per imparare a ballare. Ha ragione papà, si sente ogni tanto il bisogno disperato di cambiare panorama, di ascoltare voci meno atone del solito. A scuola di tango i corpi si trasformano e si cercano, si allungano e si snodano. Poi si avvinghiano. Voci nuove affiorano da labbra di carminio, soffiano aliti inebrianti, mentre si prova a procedere a passo di danza in direzione del piacere.

    Quando ci incontrammo la prima volta, Linda e Pedro pensarono di trovarsi di fronte un perfetto ballerino. Per caso, ero vestito di nero da capo a piedi. Videro una faccia incavata, sin sotto gli zigomi sporgenti. Guardarono i miei neri capelli ondulati, la mia carnagione scura, le sopracciglia folte, il colore liquido di due occhi spiritati. Notarono il mio fisico asciutto e slanciato e il mio vizio di gesticolare. Gli sembrai il prototipo di un moderno compadrito, solo stranamente timido, visto che non mi decidevo a farmi avanti. Un tanguero frastornato, apparso per miracolo sulla soglia della loro scuola, portato da un vento furioso di una calle di Buenos Aires.

    «Vieni avanti, unisciti pure a noi senza alcun timore» ricordo mi disse Linda quando feci cenno di entrare la prima volta, spaesato e titubante. La musica si arrestò quasi di colpo e tutti si voltarono a guardarmi. «Pedro, vieni a vedere. Questa sera tra noi abbiamo un vero compadrito argentino. Perché tu sei argentino, no?»

    «Per servirla, señorita» risposi per rompere il ghiaccio in modo carino. «Permetta che mi presenti. Mi chiamo Nicola Vicente Bonsignore y Esposito. Sono nato e vivo nel conventillo di San Vincenzo al Piano, a migliaia

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