Questo nostro mondominio
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Anteprima del libro
Questo nostro mondominio - Vanessa Chizzini
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Avvertenza
Questo nostro mondominio si svolge nell’arco di un pomeriggio, come se avvenisse in diretta davanti agli occhi di chi legge, senza tagli, in una sorta di lungo piano sequenza. Per questa ragione non è suddiviso in parti né in capitoli. Ci sono solo alcuni stacchi di una riga, che però non rappresentano una cesura tra quello che c’è prima e quanto segue, ed equivalgono piuttosto a prendere un respiro profondo. Hanno lo scopo di rendere più agevole la lettura offrendo delle piccole pause e degli appigli. Suggeriscono, insomma, un momento per un’eventuale interruzione, nella consapevolezza che l’azione continua e che semplicemente riprenderà da dove ci si è fermati.
Questo nostro mondominio
La Milano che più mi piace è quella delle case di ringhiera con l’intonaco scrostato. La Milano dei palazzi di periferia, i colori delle facciate sbiaditi, le porte scure un po’ ingrigite, le finestre aperte, i panni stesi sui fili, le persone sui ballatoi a prendere una boccata d’aria, quello stare raccolti intorno a un cortile.
L’ho detto a Sam e alla signora Adriana un pomeriggio d’agosto, ormai quasi un anno fa, mentre con il treno partivamo alla volta di Venezia e io guardavo fuori dal finestrino. La Milano che più mi piace è quella dell’intonaco scrostato.
Certo, se poi c’è anche un’infiltrazione, una goccia che a intervalli regolari cade dal soffitto, tanto meglio, immagino
ha prontamente replicato Sam. Che sciocchezze dici?
Tra l’altro le case di ringhiera, quelle che vengono chiamate ‘vecchia Milano’, sono un po’ delle case chioccia. Non avete anche voi quest’impressione?
Già, tu infatti non potresti mai vivere in un posto così.
Se c’è una goccia che cade dal soffitto, magari giusto giusto sul letto, no, sono d’accordo con te, non potrei, temo che la cosa finirebbe col darmi un po’ di fastidio.
Non è per l’infiltrazione e neanche per l’intonaco, è per il tipo di case. Viste da fuori ti piacciono, ma non potresti mai viverci.
Di cosa stai parlando, Sam?
Di cosa stai parlando tu, Mic? Delle case di ringhiera, ho capito bene? Mi illudo sempre di aver capito male
ha aggiunto girandosi verso la signora Adriana. E poi a te non piaceva l’Hotel des Bains immortalato da Visconti?
Tra l’intonaco scrostato e l’Hotel des Bains ce ne passa, eh...
ha commentato la signora Adriana.
Cosa c’entra? Sono due cose diverse che stanno su due piani ben distinti
ho protestato io. L’Hotel des Bains è un modello da tenere sempre a mente, un ideale se non addirittura un’utopia. Le case di ringhiera con l’intonaco scrostato invece mi riguardano più da vicino, rientrano nel mio orizzonte quotidiano, potrei anche viverci.
No, Mic, è proprio questo il punto, tu non potresti mai viverci. Hai presente come sono fatti quei palazzi, no? Si sviluppano intorno a un cortile e c’è un ballatoio che corre lungo tutto il perimetro, o comunque per una buona parte. Ecco, prova a immaginare: casa tua è lì, su quel ballatoio. Le persone passano continuamente davanti alle tue finestre, guardano dentro, ti salutano, si fermano a parlare a un metro da te, si chiamano da un appartamento all’altro. La privacy è lasciata alla discrezione personale, e c’è anche chi viene ad affacciarsi alla tua finestra. Non sei tu che da dentro casa ti affacci per guardare fuori, ma qualcuno altro che dal ballatoio si affaccia per guardare dentro casa tua. Ti ricoverebbero dopo un mese, sicuro
ha chiosato Sam. Preferiresti una goccia che ti cade dritta sulla fronte. Quella almeno non ti parla.
Oh, be’, non ci deve per forza vivere
ha obiettato la signora Adriana. Può anche rimanere una cosa così, no? Una fantasia come l’Hotel des Bains...
Una suggestione, più che una fantasia
ho precisato io. Una specie di suggerimento che pur rimanendo irrealizzabile dà comunque un orientamento.
"Già, signora Adriana, ma tutte queste... ehm... suggestioni... ha ripreso Sam scandendo le sillabe
ecco, tutte queste suggestioni completamente slegate dalla realtà... be’, mi dica lei che senso hanno."
Quello che dico io è che se le case di ringhiera a Mic piacciono così tanto, una volta voi due dovete venire con me dalla mia amica Ume. Soprattutto se le piace l’intonaco scrostato, eh
ha aggiunto guardandomi e ridacchiando.
Ume?
ha chiesto Sam, mentre io domandavo: Che nome è Ume? Da dove viene?
.
La risatina che sa di rincorsa della signora Adriana si è impennata. Oh, be’, ve lo farete raccontare da lei. A Ume piacciono un sacco queste vecchie storie.
È una sua amica di gioventù?
Di gioventù non proprio, ma quasi. È la mia sarta. Ci siamo conosciute così. Nel palazzo con l’intonaco scrostato, eh... Dove c’erano le mie precedenti sarte, quando l’intonaco era meno scrostato o forse non lo era affatto. Ume sostiene che quello è il posto più speciale del mondo. Lei magari esagera un po’, ma io che negli anni di tanto in tanto l’ho frequentato vi confermo che merita almeno una visita. Ci dobbiamo assolutamente andare. Un palazzo come quelli che piacciono a lei, Mic, e vedrà che intonaco... Appena finisce la stagione estiva e torno a Milano dal mare ci organizziamo. Al massimo a ottobre ci andiamo.
In realtà ottobre è passato da un pezzo, e anche l’inverno. Tra una cosa e l’altra abbiamo finito per aspettare aprile e la primavera, ma almeno non fa freddo e io posso starmene qui fuori senza problemi. Gironzolo sui ballatoi, ogni tanto mi fermo a osservare lo stabile. Il quadro abbozzato da Sam per descrivere la vita che si fa in una casa così era completamente falsato. Sono da poco passate le tre del pomeriggio e c’è un gran silenzio, nessuno parla con nessuno, nessuno guarda dentro la casa di nessuno. Cammino davanti alle porte e alle finestre dei vari appartamenti cercando di non fare rumore, ho la sensazione di essere l’unica persona in movimento. Mi appoggio alla ringhiera del terzo piano. Sento lo strepito di una tivù in lontananza, mi guardo attorno, noto un paio di finestre aperte e penso che il suono potrebbe provenire da lì, però non sono in grado di stabilire esattamente da dove.
Il terzo è il piano più alto di questo palazzo a pianta rettangolare dove gli appartamenti si sviluppano su tutti e quattro i lati. Solo al pianoterra la disposizione è differente. Uno dei due lati più corti ospita il portone e il retro di alcuni negozi che si affacciano sulla strada. Sul lato a sinistra dell’ingresso c’è un negozio di calzolaio con una vetrina buia piena zeppa di scarpe e subito dopo dei locali che, a giudicare dai bancali piazzati lì davanti, pieni di bottiglie di vetro vuote, hanno tutta l’aria di essere dei magazzini. Sugli altri due lati ci sono invece le porte di alcuni appartamenti. Due scale permettono di salire ai piani superiori: una rampa si incunea a destra del portone, l’altra esattamente dalla parte opposta, in fondo, dietro i bidoni delle immondizie. Il cortile lì in mezzo è una macchia di cemento senza un angolo di verde.
È uno stabile grande ma non enorme, e continuo a pensare che la signora Adriana abbia esagerato a voler essere qua alle tre, quando Sam non ci raggiungerà prima delle cinque e la festa in programma per stasera avrà inizio alle sei. Una festa a sorpresa che un po’ a sorpresa lo sarà anche per noi, dato che la signora Adriana non ha voluto rivelarci quasi nulla. Ci ha detto che è per la sua amica Ume, si è raccomandata un’infinità di volte di non lasciarci sfuggire niente con lei, sennò che festa a sorpresa sarebbe?, e si è rifiutata di specificare altro. Non è per il suo compleanno
è l’unica informazione che si è degnata di darci. Ho provato a farmi raccontare qualcosa in più, facendole presente che tanto io tendo a starmene in disparte e in silenzio, ma non c’è stato verso. Com’è noto, il vero pericolo è Sam perché, a forza di fare sfoggio di affabilità, nel suo caso la gaffe è sempre dietro l’angolo. Non mi stupirei se più tardi arrivasse e, per l’ansia di dimostrarsi amichevole, in un tipico slancio di affetto preventivo dicesse a Ume: Che gioia essere alla sua festa
.
Avrà tutto il tempo di guardarsi intorno con calma, come piace a lei, senza nessuno tra i piedi
mi ha risposto la signora Adriana quando le ho fatto notare che presentarsi alle tre era forse eccessivo. Sia chiaro che se vuole stare con me da Ume, va benissimo, eh, si figuri, io sono solo contenta, così mi dà anche qualche consiglio. Ma scommetto che appena saremo là le verrà voglia di guardarsi in giro. Se le piacciono le case di ringhiera e i muri scrostati non vorrà più venire via, in barba a quello che dice Sam.
Anche perché a volte Sam dice delle gran fesserie. In questo momento sento il pianto di un bambino, è vero, un singhiozzo sincopato e intervallato da urletti di protesta, ma il suono arriva comunque smorzato, magari schermato da una finestra chiusa o attutito dalla distanza che ci separa. Per il resto, c’è silenzio. Sarà che sono le tre, che qualcuno starà riposando, che molti saranno fuori casa, ma è tutto tranquillo. I muri che racchiudono il cortile tengono fuori i rumori della strada. Eh, Mic, le tre non sono poi così presto: intanto si ambienta un po’, prende confidenza con il posto, e quando sarà il momento di fare un po’ di vita sociale sarà più a suo agio.
La signora Adriana mi conosce e cerca di venirmi incontro. Sa che mi fa piacere accompagnarla qua, fare un giro in questo stabile, ma sa anche che me ne andrei volentieri prima che la festa abbia inizio. Non escludo di farlo, quando ci raggiungerà Sam, magari...
Sto fissando da un po’ le due panchine che ci sono davanti al negozio del calzolaio. Esercitano su di me un effetto ipnotico. A Milano è abbastanza raro trovarne qualcuna nei cortili dei condomini. Ma forse l’effetto incantatore è anche dovuto al fatto che queste due panchine sono molto simili all’intonaco scrostato dei muri, piuttosto malconce per quanto posso distinguere da qua, arrugginite e di un verde fattosi più simile al marrone là dove la vernice ha lasciato progressivamente il posto al legno sottostante. Chissà quando sono state messe... Mi immagino il cortile ricoperto non di cemento ma d’erba, sento il fresco e il profumo che salgono, e chissà se è ancora laggiù che le persone si incontrano e vanno a chiacchierare, invece di farlo davanti alle finestre degli altri sui ballatoi.
Mi stacco dalla ringhiera con l’intenzione di andare a sedermi lì sotto e osservare l’edificio da quella prospettiva, tanto per fortuna adesso non c’è nessuno in giro ed è meglio che ne approfitti subito, prima che il palazzo riprenda vita. Percorro il ballatoio del terzo piano, torno verso la rampa più vicina al portone d’ingresso, scendo fino al pianoterra e ai piedi delle scale noto le cassette di posta del condominio, appese al muro. La Milano che mi piace è questa, penso ancora una volta, e mi viene in mente che in fondo è un po’ come con le scarpe. Non so a quando questo casellario postale possa risalire, magari alla stessa epoca delle panchine, è di un legno molto scuro, tranne nei punti in cui è stato scalfito dall’uso e dal tempo. Le tre file di cassette sono contrassegnate solo da numeri impressi su targhette tonde di metallo, e i loro sportellini sono in gran parte privi del vetro che le dovrebbe tenere chiuse. Sono un pertugio in cui uno infila la posta e da cui chiunque la può sfilare. Ce ne sono diverse che traboccano di buste e di pubblicità, molti opuscoli sono appoggiati sulla mensola inferiore che completa il casellario. Accanto, in una vecchia bacheca col vetro un po’ opaco, c’è un elenco di numeri abbinato a un elenco di nomi: alcuni numeri non hanno accanto nessun nome, altri hanno nomi cancellati, altri ancora un nome scritto a macchina e uno a penna, altri solo nomi scritti a penna, più o meno comprensibili.
Già, è la stessa cosa delle scarpe, come quel giorno al mare di due anni fa, sulla spiaggia delle cabine spalma-crema, a pochi passi dalla famiglia del mistero composta da genitori napoletani e figli veneti. La mamma napoletana e uno dei ragazzini veneti si fronteggiavano fissando un paio di scarpe da ginnastica che il ragazzino aveva indossato per andare in spiaggia e ora si rifiutava di mettere per attraversare la strada oltre lo stabilimento balneare. Mamma e figlio pronunciavano la stessa parola senza che fossero le stesse scarpe, quelle del ragazzino scomode, dure, un impiccio, quelle della mamma morbide come ciabatte, avvolgenti e accoglienti. Ecco, a me le scarpe piacciono consumate, sporche non di incuria ma di vita, le scarpe con la sc
strascicata che conoscono il piede e lo accompagnano, quelle che loro malgrado mantengono traccia della pioggia presa, dei gelati mangiati, del fango calpestato, degli ostacoli che non abbiamo fatto in tempo a schivare. È la stessa cosa delle facciate scrostate, delle panchine scheggiate, delle cassette postali senza chiusura.
Le cassette, tra l’altro, non sono solo aperte e prive di nomi, ma anche difficili da raggiungere, alcune in modo particolare. Al di sotto c’è un ammasso di biciclette che parte da qui, percorre questa porzione di muro, arriva all’angolo e continua su quello successivo fino al portone. Le bici sono appoggiate l’una all’altra, certe quasi cadute a terra, impolverate e arrugginite, palesemente in disuso da tanto, forse abbandonate da qualcuno che se n’è andato anni fa, altre vecchie ma funzionanti e anche alcune quasi nuove. Sono talmente tante che per un attimo mi viene la curiosità di contarle, mentre mi giro verso il lato opposto del cortile dove ci sono le panchine. Sembra quasi che un ciclope nervoso le abbia prese tutte insieme e sbattute in questo angolo. Ce ne sono altre disseminate per il cortile, un paio anche legate alle ringhiere del ballatoio al primo e al terzo piano, però in gran parte sono ammassate in questo punto. Per un attimo ho davvero l’impulso di contarle e poi di contare il numero di appartamenti, ma alla fine prevale la voglia di andarmi a sedere sulle panchine. E di piegare la testa all’indietro per scoprire che effetto fa guardare questo palazzo dal basso verso l’alto.
Sì, è la stessa cosa delle facciate scrostate, delle panchine arrugginite, delle cassette postali senza il vetro dello sportellino. Ma non ho intenzione di raccontarlo a Sam quando più tardi sarà qua, tanto lo so che mi direbbe che una cassetta aperta è proprio una meraviglia, la cosa ideale per quando capita di ricevere una busta importante, una raccomandata, una comunicazione di lavoro. È che noi proviamo a prevenire gli imprevisti con la precisione, scegliendo le scarpe buone per ogni occasione, penso mentre mi allontano dal casellario condominiale e mi avvio verso le panchine. Cerchiamo di arginare quello che non possiamo controllare, di trovare un riparo anche quando il temporale ci coglie all’improvviso senza ombrello, di valutare come muoverci per avere il massimo risultato non solo con il minimo sforzo ma anche con il minimo dei danni, di segnare il cammino come Pollicino e di tenere tutto sott’occhio. Le cassette postali devono corrispondere a nomi e cognomi, sono uno spazio privato, destinato soprattutto a notizie riservate, al sicuro dalla confusione, dagli scherzi e il più possibile dagli errori. Il casellario di questo palazzo è uno scoglio in una baia dove confluiscono e s’impigliano dei messaggi in bottiglia che non c’entrano niente con noi e ci proiettano altrove.
***
«La madama bionda è con voi?» mi chiede il tizio in canottiera bianca che poco fa, al nostro arrivo, mi è stato presentato come Mario.
Appena mi volto verso di lui rabbrividisco. Come fa a stare in canottiera?
È alla mia destra subito oltre le scale, proprio di fronte al negozio di calzolaio e alle panchine, davanti a