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Una questione di cuore
Una questione di cuore
Una questione di cuore
E-book537 pagine7 ore

Una questione di cuore

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Info su questo ebook

Numero 1 in Italia

Autrice del bestseller internazionale Un diamante da Tiffany

1974. Elena Damiani ha una vita perfetta. Nata e cresciuta nel lusso, è indiscutibilmente bella: una condizione che le ha sempre aperto tutte le porte. Nessun uomo può resistere al suo fascino. All’età di ventisei anni è già al suo terzo matrimonio, quando capisce di avere incontrato la sua anima gemella. Eppure quello di cui si è appena innamorata è l’unico uomo al mondo che non potrà mai avere, e né il suo fascino né i suoi soldi potranno cambiare le cose. 
2017. Francesca Hackett sta vivendo la sua dolce vita romana: accompagna i turisti in giro per la Città Eterna e cerca di dimenticare i fantasmi del suo passato a Londra. Un giorno trova nella spazzatura una borsa: decisa a restituirla, scopre che la proprietaria è la famosa viscontessa Elena dei Damiani Pignatelli della Mirandola. Elena entra subito in sintonia con la giovane che le ha restituito la borsa rubata, contenente una lettera mai aperta, risalente a dodici anni prima. E Francesca si trova ben presto affascinata dai racconti di Elena, ricchi di storie sensazionali. Ma dietro quelle storie si nasconde un segreto sconvolgente…

«Il libro perfetto per l’estate.»
Daily Express

«Colta, capace di gestire la propria immaginazione con la lucida professionalità di un orologiaio svizzero, Karen Swan sa bene come creare un bestseller.»
Il Messaggero

«Un romanzo pieno di passione, ideale per chi ama le storie d’amore con un pizzico di ironia, intrighi e colpi di scena.»
Lancashire Post
Karen Swan
Ha iniziato la carriera di giornalista di moda, prima di rinunciare a tutto per prendersi cura dei suoi tre figli e realizzare il sogno di diventare una scrittrice. La casa in cui vive si affaccia sulle splendide scogliere del Sussex. Con la Newton Compton ha pubblicato numerosi bestseller tra cui Un diamante da Tiffany (numero 1 nelle classifiche italiane), Un regalo perfetto, Natale a Notting Hill, Il segreto di Parigi e Natale sotto le stelle. Una questione di cuore è il suo ultimo successo arrivato in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2018
ISBN9788822720603
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    Anteprima del libro

    Una questione di cuore - Karen Swan

    Prologo

    Roma, novembre 1989

    «C ara?».

    Bussò alla porta, l’orecchio teso per sentire i soliti rumori provenienti dalla camera di sua moglie: l’acqua che scorreva in bagno, i leggeri cigolii delle ante dell’armadio che si aprivano e si chiudevano, le note che mormorava sommessamente mentre si vestiva. «Elena?».

    Attese un altro istante, poi aprì la porta. Le tende erano tirate, gli abat-jour accesi, e una vaga silhouette impressa sul letto mostrava il punto in cui la donna si era distesa, i cuscini erano ancora sformati dal pisolino di poco prima.

    Sorrise tra sé e sé, e fece per richiudere la porta, ma con la coda dell’occhio scorse un oggetto che era stato creato esattamente per essere notato, così invece di uscire dalla stanza si avvicinò al comodino per prenderlo in mano. L’anello era ancora caldo per il contatto con le dita di sua moglie. Strofinò delicatamente le pietre preziose con il pollice, se le avvicinò alle labbra e le baciò delicatamente. Probabilmente si era dimenticata di indossarlo dopo il bagno, pensò mentre se lo infilava in tasca; magari avrebbe potuto controllare in biblioteca.

    Dev’essere….

    Il foglietto bianco era nascosto sotto il piattino portagioie. In condizioni normali, non lo avrebbe mai notato, ma lo spesso cristallo del contenitore ingrandiva come una lente ciò che c’era sotto, senza contare che avrebbe riconosciuto quella grafia ovunque. Prese il messaggio dal suo nascondiglio, lo lesse e capì tutto.

    Dopodiché si precipitò di corsa fuori dalla stanza.

    Capitolo uno

    Roma, luglio 2017

    «L a luce ambrata e i passerotti , ecco cosa ha scritto», disse Matteo appoggiando il telefono sul tavolo.

    «E sarebbe questa la cosa che ti piace di più della città?», chiese Alessandra incredula.

    «E ha ricevuto più like di quasi ogni altro post!». Cesca scoppiò a ridere, con le braccia tese e i palmi rivolti verso le stelle. «Che ti devo dire?»

    «Quello che di certo posso dirti io è che quasi tutti direbbero il Colosseo, o il Foro, o il Pantheon», replicò Alé con disappunto. «Capirei perfino i venditori di rose sulla scalinata di piazza di Spagna, ma di certo non quegli uccellini marroni che si mangiano tutti gli avanzi».

    «Ah, ma le persone non hanno immaginazione. Mi rifiuto di comportarmi come uno stereotipo. Magari è proprio per questo che apprezzano tanto il mio modesto blog».

    «Altro che modesto», replicò Matteo. «I tuoi follower aumentano così rapidamente che tra poco verranno a chiederti di inserire qualche annuncio pubblicitario, ed è lì che inizieranno ad arrivare i bei soldoni».

    «Sì, eh? Be’, se a tal proposito potessero darsi una mossa…», scherzò Cesca.

    Eppure era vero, L’avventura romana – il suo tributo online all’antichità, al pecorino e alla dolce vita – doveva aver colpito qualche sorta di nervo collettivo; era intimorita e affascinata al tempo stesso dalla sua popolarità in continua crescita. Da quando aveva pubblicato il suo primo ed esitante post sul blog, circa sette mesi prima, era riuscita a trovare una sua voce, riempiendolo delle sue riflessioni personali su qualsiasi argomento, dai dolci al miele prodotti sull’Aventino ai negozi vintage preferiti, o anche condividendo con i lettori una serie di aneddoti tratti dalle visite che faceva come guida turistica.

    Guido sorrise, la sua testa pelata e abbronzata brillava sotto la luce dorata delle lanterne. «Be’, se non altro immagino sia piuttosto evidente per quale motivo non potevi andare avanti con il tuo vecchio lavoro. Non si può pretendere che qualcuno che definisce Roma in base alla sfumatura delle sue luci lavorasse in un luogo arido come i tribunali inglesi».

    «Grazie, Guido», rispose Cesca sollevando il bicchiere verso di lui. «Brindo a te e alle tue parole».

    I suoi amici si unirono a lei, scolandosi la grappa e rilassandosi sulle sedie con sorrisi sereni. Erano giunti al termine di un’altra splendida serata, con la calura estiva che pesava sulle loro palpebre assonnate e il profumo del gelsomino tutt’intorno. Si erano abbuffati con piatti di pasta e pesce, e tutti i tavoli nel giardino del ristorante erano occupati; erano le dieci passate, ma per Roma era ancora presto; in quei giorni era presto anche per Cesca.

    «Che vogliamo fare? Andiamo da Zizi?», chiese Alé appoggiandosi di nuovo allo schienale della sedia. Si legò i capelli in una coda di cavallo, con le braccia magre in bella mostra nel suo vestito color cachi. «Stasera suona quella band, avete presente? Quelli che abbiamo sentito al Rock in Roma a giugno».

    «Quelli con la cantante strafiga?», chiese Matteo piuttosto interessato, come succedeva sempre quando si parlava di una bella donna.

    «Be’, sì, anche a me sembrava un gran figo il cantante». Alé scoppiò a ridere, lasciandosi ricadere i capelli sulle spalle. «Ma onestamente non credevo che avessi un debole per gli uomini con la barba».

    Si misero tutti a sghignazzare, e Matteo abbassò la testa quando gli lanciarono addosso un paio di tovaglioli. «Credevo ti riferissi a…».

    «Lo so, lo so, quelle tre sorelle».

    «A me Zizi sta bene», intervenne Guido. Lui invece aveva davvero un debole per gli uomini con la barba.

    «Be’, temo che dovrete andare senza di me», disse Cesca allungando la mano verso la borsa appoggiata a terra. «Domani ho un gruppo che ha prenotato una visita alle sei, perciò mi aspetta una bella sveglia alle cinque».

    «Dài, ma che noia». Alé aggrottò la fronte guardando Cesca che prendeva il conto dal piatto per calcolare la sua parte, muovendo le labbra senza parlare.

    «Già, non dirlo a me», rispose Cesca un attimo dopo alzando gli occhi al cielo. «Purtroppo, però, l’affitto non si paga da solo».

    Alé fece una smorfia disgustata. «Non riesco a credere che non siano gli altri a pagarti per vivere in quell’appartamento!», ironizzò rivolgendo uno sguardo sornione e vagamente malizioso al cameriere mentre il ragazzo tornava con un altro giro di digestivi.

    «Sei proprio carina. Be’, si dà il caso che secondo me è un posto molto affascinante. Dovresti vedere in che condizioni rischi di ritrovarti con un affitto equivalente a Londra. Perlomeno qui è tutto…». Cesca aggrottò la fronte. «Come si dice in italiano "quaint"? Avete presente, tipo… raccolto, adorabile e un po’ vecchio?».

    Tutti tradussero il termine all’unisono: pittoresco.

    «Ecco, proprio così». Annuì e prese a frugare nella borsa; per un attimo si ritrovò a desiderare che il suo italiano fosse buono anche solo la metà del loro inglese. Magari se avesse insistito perché le si rivolgessero solamente in italiano, sarebbe migliorata molto di più e più rapidamente, probabilmente però si sarebbero divertiti e avrebbero riso molto di meno.

    «Ma se una volta mi hai detto che uno scarafaggio ti ha camminato sulla faccia mentre dormivi», le ricordò Alé dandole una gomitata scherzosa.

    «È successo solamente una volta. Ed era la mia prima settimana. Ormai credo di averli spaventati tutti».

    «E poi le luci sfarfallano ogni volta che attraversi la stanza», aggiunse Matteo. «E la tua tv deve essere l’unica in bianco e nero rimasta in tutta Italia».

    «In tutta Europa», lo corresse Guido.

    Matteo gli rivolse un’occhiata. «Esatto».

    «Ma soprattutto, puzza di cavallo», rilanciò Alé arricciando il naso.

    «Nulla che una candela profumata non possa risolvere, e poi, sappiate che tutti pensano che la mia tv in bianco e nero sia una scelta di design – un po’ come la birra artigianale di Guido o la sua barba da hipster», aggiunse con un ghigno mentre accarezzava la barba dell’amico con affetto, come se Guido fosse un Irish Terrier. Non lo aveva mai visto senza, e non sarebbe proprio riuscita a immaginarselo rasato. Sarebbe stato un po’ come vederlo nudo. «E poi, ha una vasca da bagno…».

    «Bleah!». Matteo fece una smorfia. «Che problemi avete voi inglesi che amate starvene a mollo nell’acqua sporca?»

    «È rassicurante! Vorrei proprio vederti sopravvivere all’inverno inglese. A volte, all’università, farsi un bagno era l’unico modo per scaldarsi un po’». Fece un respiro quando notò i loro volti sorridenti che la fissavano, tutti intenti a godersi lo spettacolo delle sue giustificazioni. «E poi, non è che voi abitiate tutti in lussuosissimi attici». Mise il broncio, e i suoi amici scoppiarono a ridere.

    «E dài, rimani. Almeno per un ultimo giro», la imploro Alé.

    «Davvero, non posso», disse Cesca abbassandosi per baciarli uno dopo l’altro. «Ultimamente ho sfidato la fortuna troppe volte, e sapete bene come sono ridotta la mattina».

    «No, ma mi piacerebbe davvero saperlo», ridacchiò Matteo, stiracchiando le braccia verso l’alto per mettere in mostra i muscoli gonfi.

    «Sei incorreggibile». Cesca sorrise. «Ma questo lavoro mi serve. Per quanto cammino mi si sono bucate le scarpe e non posso permettermene un paio nuovo». Per dimostrare quanto appena detto, sollevò il piede per mostrare la tela consunta delle sue Converse gialle.

    «Ma ti puoi permettere di bere vino a cena, naturalmente», fece Guido, scuotendo la bottiglia vuota più vicina.

    «Ovvio. Priorità, baby», scherzò lei.

    «E io che pensavo che le tue scarpe dovessero proprio avere quell’aspetto», disse Matteo guardandole. «Tutte le altre cose che indossi sono stracciate».

    «Ehi! Solo perché tu non hai gusto per le cose vintage», commentò Alé difendendo Cesca. «Se non è un capo Gucci nuovo di zecca per te è spazzatura».

    Lo sguardo di Matteo cadde apertamente sul buco nel fianco della camiciola in stile edoardiano di Cesca, che si affrettò a coprirlo con la mano. «È solo che sono vestiti molto amati, tutto qua». Scoppiò a ridere, recuperando il suo panama (il cui bordo in effetti sembrava essere stato rosicchiato da un asino) appoggiato sulla sedia. Se lo mise in testa, mandando baci a destra e a manca. «Ci vediamo, amigos. Siete fantastici. Chiamatemi!». Li salutò con la mano e un sorriso stampato sul volto mentre iniziava ad allontanarsi, mentre le voci dei suoi amici sovrastavano il brusio indistinto del ristorante e tornavano a parlare dei programmi per il resto della serata.

    La camminata che l’aspettava per tornare a casa non era particolarmente lunga. Nessun posto era granché distante da un altro nel centro di Roma. Attraversò piazza San Cosimato, dove i banchi del mercato erano montati l’uno accanto all’altro, chiusi e pronti per riaprire al pubblico l’indomani mattina; si diresse verso il labirinto di stradine, con le facciate degli edifici che sparivano dietro muri coperti di edera e gelsomino. C’era gente ovunque, i tavolini ammassati addosso ai muri per lasciar passare la navetta per l’aeroporto, i motorini ammucchiati e in fila come tessere di un domino, e la musica che proveniva da quasi tutte le finestre aperte.

    D’accordo, magari il suo appartamentino nel centro storico, nascosto tra i vicoli tra piazza Navona e Campo de’ Fiori, non era in una posizione alla moda come quelli dei suoi amici a Trastevere – dove artisti, designer e hipster di tutta la città uscivano la sera affollando i bar e i ristorantini con i tavolini sulla strada – e probabilmente con la sua presenza aveva abbassato l’età media dei residenti del vicinato di una quarantina d’anni, ma comunque era al centro, cosa che lo rendeva davvero molto comodo per il lavoro. Per guadagnarsi da vivere in quei giorni camminava tanto che l’ultima cosa che voleva era ritrovarsi a dover fare una lunghissima passeggiata per rientrare a casa.

    E poi non era mai stata una a cui piaceva seguire il gregge; vestirsi in maniera vintage dalla testa ai piedi era solo l’inizio. Da adolescente ascoltava Patti Smith e Carly Simon quando tutti gli altri si strappavano i capelli per i McFly; aveva accettato da tempo che i suoi ricci color biondo ramato (d’accordo, rossi) non avrebbero mai obbedito alle piastre per capelli; e con il suo metro e settantotto, era decisamente troppo alta per nascondersi in mezzo alla folla. Quindi, sì, il suo appartamento magari aveva qualche scarafaggio e un impianto elettrico inaffidabile, ma aveva anche piastrelle turchesi originali degli anni Sessanta in cucina e una vasca da bagno in alluminio. La piccola terrazza sul tetto – poco più larga del suo tavolo da pranzo – le regalava un panorama sui tetti di Roma e almeno sette campanili (adorava guardare quelle campane che ondeggiavano fuori sincrono la domenica mattina). Ma la cosa migliore era forse che l’appartamento era posizionato su un lato di una piccola piazza molto silenziosa a cui si accedeva dalla frenetica piazza Angelica, e che aveva tutto ciò di cui Cesca poteva avere bisogno: in un angolo c’era un’osteria, sul lato opposto una pizzeria, e il forno migliore di tutta Roma proprio accanto al suo appartamento. Nell’angolo dell’osteria c’era un grande albero di fico, mentre proprio al centro della piazza c’era un antico ulivo con lunghi rami che ondeggiavano alla brezza come ballerine di hula. Si era sentita a casa dalla prima volta che ci aveva messo piede.

    Di tanto in tanto superava una piazza i cui edifici creavano linee nette che suddividevano il cielo sopra la sua testa in rettangoli, da cui la luce argentea della luna illuminava le strade sottostanti. Cesca camminava silenziosamente sui sanpietrini con le sue Converse malandate, mentre rivolgeva i pensieri al tour dell’indomani e agli aneddoti che avrebbe dovuto raccontare ai turisti se avesse voluto fare bene il suo lavoro. In un certo senso quel lavoro e il fatto di trovarsi in quella città erano ancora una novità. La sua vecchia vita le appariva ormai come un sogno distante, qualcosa di più simile a una storia raccontata da qualcun altro che a esperienze che aveva vissuto in prima persona, che l’avevano riguardata da vicino e che l’avevano resa quel che era.

    Svoltò nella sua piazzetta Palombella e superò l’Osteria Antica, sempre affollata nonostante non accettassero prenotazioni, non avessero piatti speciali e nessun menu – semplicemente si mangiava quel che il signor Accardo aveva cucinato e che sua moglie serviva ai tavoli. Passando davanti al ristorante Cesca alzò una mano per salutare la signora Accardo, indaffarata a riportare dei piatti in cucina con indosso il suo solito grembiule nero.

    Sul lato opposto della piazza, la pizzeria Da Franco aveva la solita fila di persone in attesa delle loro pizze davanti alla porta; le chiacchiere, gli oops e gli annunci a gran voce delle ordinazioni pronte rivolti ai clienti in coda risuonavano nella piazzetta, mentre all’interno gli esperti pizzaioli lanciavano in aria l’impasto con acrobatica eleganza e le fiamme del forno a legna inondavano la strada con una suggestiva luce arancione. La pizzeria era di Franco Luciano, un pizzaiolo di terza generazione, e attualmente veniva gestita dai suoi sei figli, ormai parte del progetto di famiglia tanto quanto il famoso impasto di Luciano. Era talmente difficile distinguerli nelle cucine – avevano tutti zazzere di capelli scuri, denti bianchi, occhi marroni e la carnagione olivastra, senza contare che si vestivano, urlavano e gesticolavano allo stesso modo mentre correvano da una parte all’altra inciampando l’uno sull’altro – che Cesca si era arresa al fatto che avrebbe padroneggiato l’italiano alla perfezione prima di riuscire a chiamarli tutti per nome. I ragazzi lavoravano lasciandosi guidare dall’istinto, era uno spettacolo vederli manovrare la pala da forno lunga tre metri con maestria. Cesca non aveva mai realizzato che fare la pizza richiedesse un’abilità simile finché non si era messa in fila lì fuori per la prima volta e aveva visto come impastavano e lanciavano e rivoltavano le basi con incredibile destrezza e i bicipiti ben in evidenza nelle loro t-shirt bianche.

    Ricci, il figlio maggiore di Franco, la vide passare e le rivolse un saluto mentre portava fuori un bidone dell’immondizia; Cesca rispose con un cenno della mano, sempre estasiata dal senso di accoglienza dei suoi nuovi vicini.

    Salì la rampa di scale laterale che conduceva al suo appartamento, facendo attenzione a non urtare i vasi di gerani sistemati su quasi ogni scalino dalla sua padrona di casa, la signora Dutti, una vedova che viveva al piano di sotto. Erano sette mesi che Cesca si svegliava alle sette e quaranta in punto, con il rumore della donna che puliva quei gradini; ormai era come se il suono dei vasi che venivano sollevati e rimessi al loro posto fosse l’equivalente italiano del tintinnio di tazze e teiere in ceramica per la colazione.

    L’interno del suo appartamento era buio e freddo, le tendine vintage di pizzo fatte a mano ricadevano immobili davanti alla finestra: Cesca aprì le imposte per lasciare che la brezza serale cambiasse l’aria stagnante della casa. Il pavimento di mattonelle in terracotta le trasmetteva sempre una bella sensazione sotto i piedi. Si sfilò le Converse e si diresse verso la zona in penombra che poteva essere usata per sedersi e per mangiare con una minuscola cucina in un angolo; si versò un bicchiere d’acqua e tagliò a metà una pesca su un piatto. Accese la tv e fece un po’ di zapping finché non trovò una vecchia replica del telefilm Il commissario Montalbano, poi entrò in bagno e aprì l’acqua per riempire la vasca – il suo rituale serale, alla faccia delle prese in giro dei suoi amici.

    Mangiò la pesca lentamente appoggiata sul bordo del divano mentre guardava una sparatoria in tv. In sottofondo, il rumore dell’acqua che andava colmando la vasca in alluminio si trasformava in uno scroscio sempre più rumoroso. Ormai riusciva a capire dal suono quando l’acqua raggiungeva il livello ottimale. Poco dopo si alzò e chiuse il rubinetto.

    Quando della pesca non rimase che il nocciolo, lo prese, lo riportò in cucina, sciacquò il piatto e fece un nodo al sacchetto dell’immondizia. Sollevò attentamente la busta, consapevole che la ciotola di cereali che aveva buttato il giorno prima conteneva più latte di quanto credesse, e si affrettò verso la porta, con l’esile bicipite teso dallo sforzo mentre cercava di tenere sollevato il sacco a mezz’aria. Si infilò al volo le scarpe come fossero ciabatte per non slacciarle, ma quando si voltò – ovviamente – vide grosse gocce di latte che macchiavano le mattonelle alle sue spalle. Schioccò la lingua seccata e si precipitò giù per le scale il più rapidamente possibile. Imprecò tra sé e sé quando con il fondo del sacco dell’immondizia colpì uno dei vasi della signora Dutti facendolo rotolare su un fianco e versando un po’ di terra scura sui gradini.

    Dopo aver imboccato la stradina sulla sinistra che divideva il loro edificio da quello del forno, sollevò la parte superiore del grosso cassonetto mentre con il braccio teso si preparava a lanciare il sacco all’interno trattenendo istintivamente il respiro: la puzza era sempre insopportabile.

    Ma poi corrugò improvvisamente le sopracciglia quando vide qualcosa appoggiato sugli altri sacchi dell’immondizia. Abbandonando per un istante la sua spazzatura per terra, allungò il braccio all’interno del cassonetto e ne estrasse una borsetta. Aveva tutta l’aria di essere nuova ed estremamente costosa. Era di pelle grigia, di quelle con i bordi rigidi che si chiudono a scatto, e aveva una serie di ricami in sopraffilo. Cesca non era un’esperta di moda, ma dalla chiusura in bambù perfino lei riusciva a capire che si trattava di una Gucci (nello studio legale dove lavorava era uno dei marchi più in vista della santissima trinità – Gucci, Prada o Céline – nonché uno degli accessori che definivano le avvocatesse di maggior prestigio, un modo per comunicare il proprio successo quando altri indicatori come orologi, abiti o la messa in piega settimanale da Hershesons venivano nascosti da toga e parrucca). Sfiorò con il pollice la superficie in cuoio: era morbida e flessibile; pelle d’agnello, addirittura. Non sembrava un falso; e non ne aveva nemmeno l’odore, pensò mentre l’annusava e si godeva il caratteristico aroma di pelle. Che cosa diamine ci faceva una borsa del genere lì?

    Ma un attimo dopo intuì il motivo.

    Dimenticandosi del tutto dell’ingombrante sacco d’immondizia tra i piedi, Cesca aprì la borsetta. Al contrario della sua, il cui contenuto non era altro che un marasma di oggetti più o meno casuali, quella che aveva tra le mani quasi la deluse per quanto era austera: dentro c’era un pettine (senza un singolo capello impigliato), una cipria Chanel Les Beiges, una boccetta di profumo Annick Goutal, diversi biglietti da visita tenuti insieme da un ferma-banconote argentato… quel che saltava maggiormente all’occhio, però, era ciò che la borsa non conteneva – niente portafoglio o cellulare. Probabilmente il ladro l’aveva presa e aveva tenuto solo quello che gli serviva, per poi gettarla alla prima occasione, magari in un cassonetto; se qualcuno l’avesse fermato sarebbe stata una prova schiacciante.

    Eppure, anche senza i contanti e le carte di credito, doveva trattarsi di una borsa da almeno mille euro, anche se senza i documenti sarebbe stato impossibile restituirla alla legittima proprietaria. Cesca si domandò cosa doveva fare. La polizia avrebbe potuto fare qualcosa? Oppure valeva la regola che chi trovava qualcosa se la teneva? Non che lei avrebbe mai potuto usare un accessorio del genere. Sembrava la borsa di una donna che poteva permettersi di andare dal parrucchiere ogni giorno, che considerava la manicure uno dei pilastri della civiltà e che indossava diamanti a colazione. Chissà, forse poteva rivenderla? In fondo aveva bisogno di soldi e…

    Ma poi le venne in mente una cosa: possibile che all’interno della borsa ci fosse un numero seriale, un po’ come quelli che si trovano su un Rolex o sulle macchine, qualcosa insomma che permettesse di rintracciarne la proprietaria? Una dei soci dello studio dove lavorava aveva una borsa Birkin di Hermès con all’interno cucita una targhetta con diversi numeri identificativi. Se anche quella borsa ne aveva una simile, avrebbe potuto riportarla a chi di dovere: una soluzione con cui si trovava molto più a suo agio, piuttosto che approfittare della sfortuna della proprietaria derubata.

    Aprì la zip della tasca laterale. Dall’esterno le era sembrata vuota, ma conteneva qualcosa. Estrasse una piccola busta da lettera blu con i contorni consumati e graffiati, sulla parte anteriore in un’elegante calligrafia c’era il nome di una donna: Elena.

    Cesca si mordicchiò il labbro. Era il nome della donna a cui la borsa apparteneva o era solo la persona a cui la proprietaria aveva scritto?

    «Buonanotte, Cesca».

    Colta alla sprovvista, Cesca alzò lo sguardo e vide la signora Dutti che innaffiava i vasi di gerani davanti alla sua porta, abbeverando un po’ le piante adesso che la calura del giorno non tormentava più le foglie. L’anziana donna indossava la sua abituale vestaglia blu scuro e un vecchio paio di sandali Scholl, mentre una retina per capelli le teneva i bigodini in posizione per l’acconciatura dell’indomani.

    «Buonanotte, signora». Cesca sorrise, salutandola con la mano che stringeva la borsetta senza nemmeno accorgersene. Ma si rese immediatamente conto che l’oggetto aveva catturato l’attenzione della sua padrona di casa: la qualità e il valore non sfuggirono alla signora che aveva dieci decimi di vista. «Oh». Cesca la raggiunse rapidamente sulle scale. «Ho appena trovato questa nel cassonetto».

    La signora Dutti scosse la testa e schioccò la lingua con disapprovazione. «Ladri». Abbassò l’annaffiatoio e prese la borsa dalle mani di Cesca che gliela porgeva, il cuoio liscio e chiaro era in netto contrasto con la pelle rugosa e consumata della padrona di casa.

    «Sì, purtroppo hanno preso tutti gli oggetti di valore – portafoglio, cellulare… ma la borsa in sé mi sembra piuttosto costosa; sono certa che qualcuno la sta cercando. E poi ho trovato questa». Mostrò la lettera alla donna.

    L’espressione della signora Dutti cambiò drasticamente nel momento in cui vide il nome scritto su di essa.

    «Immagino che non abbia idea di chi possa essere questa Elena». Cesca arricciò il naso. «Voglio dire, mi rendo conto che sarebbe come…». Si interruppe quando si accorse dell’espressione sul volto dell’anziana signora: soddisfazione. «Lei la conosce?».

    La signora Dutti annuì e molto lentamente sollevò un braccio, con il dito indice teso e puntato verso il palazzo azzurrino che si trovava dalla parte opposta della piazza. Le imposte dell’edificio erano di un colore beige chiaro, e in totale dovevano esserci almeno ventiquattro finestre – sei per ognuno dei quattro piani – e questo solo sulla facciata a loro visibile. In realtà il palazzo non dava sulla stessa piazzetta in cui si trovava l’appartamento di Cesca, ma dalla loro posizione riuscivano a vederne il lato destro, mentre la facciata principale dava su piazza Angelica. Nei sette mesi in cui aveva vissuto lì, Cesca non aveva mai visto nessuno entrare o uscire dal palazzo. Le persiane – per lo meno quelle su quel lato visibile – erano sempre rimaste chiuse.

    «È lì che vive?».

    La signora Dutti annuì, con un’espressione imperscrutabile negli occhi scuri. «È lì che vive».

    Capitolo due

    Piazza Angelica brillava alle sue spalle invasa dalle luci, con file e file di motorini allineati in formazione militare, e i giovani romani ammucchiati attorno alla fontana centrale come se il monumento fosse una specie di centro gravitazionale che li attirava senza via di scampo.

    Cesca era in piedi sui gradini e ascoltava il suono delle campane che proveniva dall’interno dell’edificio fortificato. Trovandosi lì, con il volto a pochi metri dal muro, il palazzo sembrava soverchiante e maestoso, decisamente troppo grande per trattarsi di una semplice residenza privata per un’unica persona e non di uno degli edifici amministrativi che di solito occupavano palazzi tanto enormi. Chi poteva vivere in un posto del genere nel ventunesimo secolo? A occhio e croce quell’edificio avrebbe potuto ospitare almeno un centinaio di famiglie o essere riconvertito in qualcosa come una scuola o un ospedale. Un’istituzione che potesse sfruttare tutto quello spazio, insomma, qualcosa di utile.

    Cesca strinse tra le mani la borsetta sollevando lo sguardo sul cornicione superiore del portone alto sì e no cinque metri; si accorse della telecamera di sicurezza puntata su di lei. Distolse lo sguardo, si sentiva fin troppo esposta senza il suo panama d’ordinanza; era raro che se ne andasse in giro senza il suo cappello con il caldo di quei giorni in città. Con la coda dell’occhio intravide la signora Dutti appostata accanto al fico, nell’angolo della piazza, che si puliva le mani sulla vestaglia senza staccarle gli occhi di dosso. La sua curiosità metteva Cesca ancora più a disagio. Che c’era di tanto interessante nel bussare a quella porta per restituire una borsetta?

    Già pronta a lasciar perdere, si voltò verso la sua anziana padrona di casa e alzò le spalle come a dire be’, io ci ho provato, quando la porta si aprì e Cesca si ritrovò faccia a faccia con un uomo di mezza età con indosso pantaloni neri e una corta casacca bianca, vestiti non troppo diversi da quelli di uno chef. L’uomo portava un paio di occhiali da vista con la montatura a tartaruga e sfoggiava un’espressione incredibilmente seria, il volto assurdamente regolare e inespressivo come una maschera mortuaria.

    «Sì?». Fissò Cesca con fare interrogativo, gli occhi indagatori si soffermarono sul buchino nel suo top, la tela rovinata delle sue scarpe e i talloni ancora appoggiati sulla parte posteriore delle Converse. Si chinò verso di lei di un paio di centimetri. «È tardi. Cosa desidera?», domandò seccato per il fatto che Cesca stesse tardando a rispondere.

    «Sì, mi scusi per l’ora», rispose accorgendosi solo in quel momento che l’uomo aveva ragione: probabilmente ormai erano le undici passate; doveva assolutamente andare a letto, la sveglia avrebbe suonato dopo circa cinque ore. «Ma ho pensato che volesse recuperare questa appena possibile». Sollevò la borsa di Gucci.

    L’uomo sembrò sorpreso, poi infuriato. Un istante dopo le aveva già strappato la borsa dalle mani, e l’aveva afferrata brutalmente dal gomito. «Non hai la più pallida idea di cosa hai fatto. Sei una di loro?». Oltrepassò la soglia mettendo piede sul gradino più alto della scalinata mentre si guardava attorno con sguardo inferocito.

    «U-una di chi?», balbettò Cesca colta di sorpresa mentre cercava di liberarsi dalla presa. Di chi diamine stava parlando?

    «La banda», disse l’uomo tornando a fissarla con disprezzo e palese ostilità e stringendole il braccio ancora più forte. «La banda che ha rubato questa borsa. Se credi che saremo tanto stupidi da offrirti una ricompensa per qualcosa che hai rubato tu stessa…».

    «Cosa? No!». Cesca sorprese se stessa tanto quanto l’uomo che aveva davanti con l’energia nel suo tono di voce, indignato e sbigottito al tempo stesso. Credeva che la ladra fosse lei? Aveva davvero scambiato il suo stile vintage elegante e volutamente trasandato per vestiti da barbona? «Come si permette! Vivo dietro l’angolo e ho trovato questa borsa nel mio cassonetto», sbottò liberandosi dalla presa dell’uomo. «La signora Dutti è la mia padrona di casa, e mi ha detto che una donna di nome Elena vive qui, e quindi sono venuta a riportarle la borsa, ecco tutto», proseguì, ormai davvero furiosa. «Vi stavo facendo un favore, ma ehi… che non vi passi per la testa di ringraziarmi. È stato un vero piacere!». Si voltò amareggiata e prese a scendere i gradini infuriata.

    Aveva fatto a malapena cinque passi quando l’uomo alle sue spalle la richiamò. «Aspetta!».

    Cesca si voltò e vide che il suo interlocutore aveva sceso qualche gradino, con la borsetta – aperta – tra le mani. «Seguimi, per favore».

    Cosa? Perché? Dove voleva portarla? Se credeva che l’avrebbe seguito in quel palazzo dopo il modo in cui l’aveva appena…

    Un attimo, dove era sparito?

    Cesca salì di corsa gli scalini e sbirciò nella penombra dell’ingresso. Nessuna traccia dell’uomo.

    «Ehilà?», gridò. Quando non ricevette alcuna risposta entrò e fece un altro tentativo. Il corridoio si estendeva a destra e sinistra per una sessantina di metri. Cesca avvertì un calo di temperatura di almeno cinque gradi mentre veniva circondata dagli spessi muri di pietra, l’umida calura della città era rimasta fuori dalla porta senza alcuna possibilità di penetrare all’interno. Si guardò furtivamente alle spalle, in direzione dei bagordi che ancora proseguivano in piazza, verso i ragazzini alla moda seduti sul bordo della fontana, con i volti illuminati dalle luci tremolanti riflesse sull’acqua; perlomeno la loro serata proseguiva come da programma.

    Poco distante, Cesca riuscì a sentire lo scalpiccio di un paio di scarpe che camminavano rapidamente; si precipitò in tutta fretta in direzione di quel suono, e dopo aver percorso una lunga galleria intravide l’uomo che svoltava un angolo.

    Mentre correva riuscì a cogliere solo alcuni dettagli essenziali degli ambienti che stava attraversando: c’erano davvero troppi elementi da analizzare e solo pochi istanti a disposizione, ma il suo occhio allenato da guida turistica si posò sugli affreschi che decoravano il soffitto, sui fregi barocchi e su una serie impressionante di dipinti rinascimentali appesi ad appositi cavi e disposti lungo le pareti.

    Cesca svoltò l’ennesimo angolo ritrovandosi davanti a una scalinata di pietra che salì di corsa, con il fiato sempre più corto mano mano che percorreva i gradini, un piano dopo l’altro, e l’illuminazione estremamente debole a dispetto del magnifico candelabro sopra la sua testa. Con gli occhi puntati a terra per non inciampare, quando la punta delle lucide scarpe bianche dell’uomo che stava inseguendo entrò nel suo campo visivo fu quasi troppo tardi.

    «Oh!», sussultò; cercò di fermarsi gettando il peso all’indietro, ma perse completamente l’equilibrio. Il braccio coperto dalla manica bianca scattò in avanti afferrandola per la seconda volta in cinque minuti, ma questa volta con uno scopo ben diverso. L’uomo rimase impassibile mentre Cesca recuperava l’equilibrio.

    «Da questa parte».

    Avanzava tenendo la borsetta stretta sotto braccio, e Cesca, sebbene ancora disorientata dal flusso degli eventi, dovette sforzarsi di trattenere un risolino davanti a quell’immagine assurda.

    Lo seguì attraverso altre gallerie, superandole una dopo l’altra, saloni lunghi e stretti con le imposte che davano sulla grande piazza all’esterno sbarrate. Notò una serie di dipinti identificandoli come pezzi da museo – Caravaggio, Raffaello, Velázquez, Tiziano – e camminò su tappeti fatti di raffinatissima seta. I colori delle pareti erano a dir poco brillanti, quasi simili a pietre preziose: rosso granata, verde peridoto e verde malachite… non era il suo stile, no davvero, ma non poté fare a meno di restarne impressionata. All’interno il palazzo era ancora più sontuoso, tanto da stridere con gli esterni, che ora al confronto apparivano anzi piuttosto sobri.

    Se da una parte era pieno di cose da vedere, dall’altra non c’era proprio un bel niente da sentire – esattamente come il calore esterno, anche le grida e le risate roche della piazza venivano attutite dai muri della fortezza – ma gradualmente le sue orecchie iniziarono a percepire qualche nota musicale distante, un suono che si diffondeva soavemente nei lunghi corridoi come pesci che seguono la corrente di un fiume. Ma… non si trattava forse de La traviata?

    L’uomo – il maggiordomo, ipotizzò a quel punto Cesca – si fermò davanti a due porte chiuse per poi voltarsi verso di lei. «Aspetta qui».

    Cesca sbatté le palpebre, rimanendo lì perplessa mentre l’uomo spariva dietro le porte, con la borsetta ancora sotto braccio. Un frammento di canto in falsetto proruppe a pieno volume per i brevi istanti in cui la porta rimase aperta.

    Poi girò su se stessa muovendo la testa a tempo di musica mentre analizzava la sala d’attesa: era di un colore che poteva essere descritto solo come verde assenzio, con l’enorme ritratto di un cardinale appeso a un muro, alcuni busti di marmo appoggiati su altrettante colonnine e diverse sedie vellutate. Era decisamente troppo, i colori opprimenti e claustrofobici. Tutto troppo pesante. Dov’era la luce? La delicatezza? Quanto ci sarebbe stato bene un po’ di cotone al posto di tutta quella seta; e un po’ di lino al posto di quel pesante velluto. Cesca si sentì schiacciata, come se la storia del palazzo fosse una presenza fisica che le gravava sulle spalle.

    Chiuse gli occhi continuando a oscillare la testa a tempo di musica, ma si rese conto un istante dopo che non c’era più alcuna musica. Si voltò e vide le due ampie porte di nuovo aperte, il maggiordomo in piedi sulla soglia intento a fissarla.

    Smise subito di muovere la testa.

    «La principessa ti riceverà immediatamente».

    …principessa?

    L’uomo si fece da parte, un gesto che Cesca interpretò come un invito a entrare, ubbidendo un istante dopo. Ma appena superata la porta si immobilizzò di nuovo. In netto contrasto con la sgargiante opulenza degli altri ambienti, quella stanza – di dieci metri quadrati e con un soffitto di circa tre metri – la lasciò a bocca aperta per la sua semplicità. Era brutalmente essenziale, con un paio di divani bianchi in lino al centro, un soffice e arruffato tappeto color avorio sul pavimento che assomigliava a una nuvola e tre gigantesche tele appese ai muri – qualcosa di astratto e moderno con un sacco di segni neri. Era tutto fuori scala: non solo i divani, ognuno dei quali avrebbe potuto ospitare tranquillamente otto persone, ma anche il camino di due metri scavato nel marmo e il trumeau riccamente intagliato alto fino al soffitto. E poi, un’impressionante collezione di enormi coralli bianchi – alcuni ricurvi su se stessi e con la forma dei fiori di calla, altri piatti come ventagli e con la struttura sviluppata come se fosse tesa su un telaio – era messa in bella mostra su espositori di legno, a loro volta appoggiati su tavoli appositi posizionati con gusto lungo i due muri della sala dotati di altissime finestre.

    Cesca si rese conto di avere la bocca spalancata, ma non riuscì a riprendersi abbastanza da richiuderla. Immergersi in quell’ambiente dopo la destabilizzante ricchezza del resto del palazzo era come tuffarsi nell’acqua fredda dopo un bagno bollente.

    «Mi sento esattamente come te, mia cara». Al suono di quella voce – americana, delicata come cipria – Cesca si voltò immediatamente. La donna, che un attimo prima probabilmente si trovava accanto alla finestra più distante dalla porta, si stava dirigendo verso di lei. «Devo indossare gli occhiali da sole solo per attraversare il corridoio dorato, altrimenti c’è il rischio che ne esca abbronzata, non è così, Alberto?».

    Il maggiordomo annuì condiscendente, ma Cesca lo ignorò: non riusciva a staccare gli occhi dalla donna che le si stava avvicinando. Indossava un pigiama di seta color avorio e un kimono giapponese verde oliva, anch’esso di seta; avanzava appoggiandosi a un bastone intagliato a mano, era minuta ed esile come un uccellino, con un caschetto di capelli grigi ben acconciati e un paio d’occhiali discreto appoggiato sulla punta del naso. Sembrava avere una struttura ossea leggerissima, come se fosse sostenuta da sottile vetro soffiato, zigomi alti e un naso aquilino – con le narici leggermente dilatate, come se fosse vagamente infastidita – e uno splendido mento ben pronunciato. Ma furono i suoi occhi ad affascinare e ipnotizzare Cesca: non erano blu, né verdi, ma di un purissimo color celadon, come le acque cristalline di un lago filippino.

    L’anziana donna le arrivava a malapena all’altezza della spalla, mentre i bordi inferiori del pigiama in seta che indossava strusciavano silenziosamente sul sontuoso tappeto. Tese la mano verso Cesca in modo tale che la ragazza fu incerta sul da farsi, se stringerla o baciarla, ma alla fine optò per la consuetudine più diffusa e scelse di stringergliela, rimanendo di stucco quando la donna – la principessa! – gliela coprì immediatamente con l’altra mano. «Come potrò mai ringraziarti?», le chiese calorosamente.

    Cesca finalmente ricordò di chiudere la bocca. La borsetta. Stava parlando della borsetta, si disse. «Non è nulla, davvero».

    La donna sorrise. «Tutt’altro, mia cara. Hai fatto una cosa più nobile di quanto tu possa immaginare. Sono rimasta sconvolta per tutto il giorno. Il contenuto di questa borsa per me era d’immenso valore».

    Cesca aggrottò la fronte. Il maggiordomo non le aveva detto che il portafoglio e tutto il denaro che conteneva erano spariti? «Be’ io… temo che il contenuto sia stato rubato. Sa, il suo denaro, le carte di credito…».

    La donna sorrise, facendo un cenno con la mano come se volesse accantonare la preoccupazione della ragazza, come se il denaro in sé non avesse alcun valore. «Vieni. Sediamoci. Voglio conoscerti meglio. Hai sete?». E prima che Cesca potesse rispondere, disse: «Alberto, due Bellini».

    Lo scatto alle sue spalle fece capire a Cesca che il maggiordomo era uscito dalla grande stanza; a quel punto lei e la principessa camminarono per quello che le sembrò circa un chilometro, fino a raggiungere i divani.

    «Dimmi come ti chiami», disse la donna mentre si abbandonava all’abbraccio dei cuscini. Con un gesto di cortesia, invitò Cesca a fare lo stesso.

    «Francesca Hackett», disse Cesca, mentre si domandava come facesse quella sala ad avere un odore tanto buono. Per quanto riusciva a vedere non c’erano candele profumate, né tantomeno fiori. «Ma tutti mi chiamano Cesca, a volte Chess».

    «Io sono la viscontessa Elena dei Damiani Pignatelli della Mirandola, ma mi chiamano tutti Elena. A volte Laney». Scoppiò a ridere, e il suono che emise non fu sorprendente tanto quanto quella sala del palazzo. Una risata roca e bassa, che Cesca pensò sarebbe potuta provenire da una donna grossa il doppio di lei, con la metà degli anni e che fumava dieci sigari al giorno.

    «Viscontessa? Ma il suo maggiordomo l’ha chiamata principessa».

    «Davvero?». Sospirò. «Oh, come vorrei che smettesse di farlo. Temo che tu lo abbia colto di sorpresa, mia cara; negli ultimi tempi Alberto è diventato un po’ permaloso se non lo si prende nel modo giusto. È molto più ambizioso di me. Preferisco viscontessa. Molto più amichevole e modesto, non trovi?».

    Le sopracciglia di Cesca schizzarono in alto per la sorpresa. «Quindi, lei è principessa e viscontessa?»

    «Doppia principessa, in realtà, più due titoli ducali, cinque marchesati…». Alzò gli occhi al cielo in modo teatrale. «Oh, Dio, potrei andare avanti a lungo. È come una lista della spesa. Credo che in totale i titoli siano circa undici».

    Cesca si rese conto che la stava fissando con insistenza e che la sua bocca era di nuovo aperta; le fu improvvisamente molto

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