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L'amore non ha freddo
L'amore non ha freddo
L'amore non ha freddo
E-book313 pagine4 ore

L'amore non ha freddo

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Info su questo ebook

Maurizio, un distinto ingegnere di stanza a Milano, decide di fare ritorno alla sua dimora di Gavirate, in provincia di Varese. Ad accoglierlo trova Antonio e Teresa, un'anziana coppia che si occupa della manutenzione della casa. I coniugi sono molto sorpresi dall'inaspettato rientro di Maurizio che, esausto dalla frenetica vita dei salotti milanesi, sembra deciso a ritirarsi a vita privata...-
LinguaItaliano
Data di uscita18 feb 2022
ISBN9788728078853
L'amore non ha freddo

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    L'amore non ha freddo - Maria Volpi Nannipieri

    L'amore non ha freddo

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1932, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728078853

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    L’AMORE NON HA FREDDO

    Antonio uscì di corsa dalla portineria: un’automobile si era fermata dinanzi al cancello della villa. Gli salì dal cuore alle labbra una esclamazione di meraviglia:

    — Il signor padrone!

    La voce di Maurizio ribattè con gioia:

    — Sono io, Antonio!

    — Senza avvertire! — protestò Antonio, pensando a Teresa, sua moglie, alla quale non piacevano le sorprese.

    — Ho preso la decisione di partire da un momento all’altro. Se avessi dovuto perdere tempo a scrivere per avvertire del mio arrivo, avrei forse finito col rimanere a Milano...

    Intanto, Antonio aveva aperto il cancello, e Maurizio guidava la macchina verso il garage, chiuso.

    — Lascio la macchina fuori, Antonio; ha bisogno di una spolverata di prim’ordine. Bisognerà chiamare il meccanico.

    — Ha intenzione di fermarsi molto a Gavirate?

    — Ho deciso di stabilirmi qui. Domani, Giuseppe spedirà da Milano i bauli.

    Antonio non parve molto contento della decisione, ma sorrise ugualmente e pronunziò le doverose parole che non pensava:

    — Finalmente, signor padrone... Ora starà un po’ con noi...

    Maurizio si spolverò con le mani le maniche incipriate del soprabito e chiese con una gioia nuova che pareva gli venisse dal cielo aperto e dal lago scintillante di sole:

    — E Teresa, dov’è la vostra Teresa?

    — In paese, per le spese. Ma tornerà presto: vuole accomodarsi, intanto, in portineria? È Teresa che si occupa della casa e guai se ci metto le mani io: il mio dovere è limitato al giardino...

    — Preferisco rimanere fuori, Antonio. Ho bisogno di respirare un po’ d’aria buona, che non puzzi di benzina, che non sporchi la pelle e che riempia i polmoni di ossigeno. Aria di campagna, aria da persone per bene.

    — Il signor padrone si annoierà, qui, solo con due vecchi come Teresa ed io. Gavirate, specialmente ora che l’inverno non è lontano, non è paese per un signore come lei abituato alla città, alle feste, ai teatri...

    — Ma sono venuto per sfuggire appunto alla noia delle feste e alla delusione dei teatri, mio vecchio Antonio. Ho deciso di mutar vita, e soltanto a Gavirate la mia decisione potrà essere attuata, visto che qui distrazioni non ce ne sono. C’è da lavorare in paese?

    — Vorrebbe lavorare, signor padrone? Brutto momento, questo, per tutti, e specialmente per un ingegnere: la stagione è ormai troppo inoltrata. I lavori in corso potranno andare ancora avanti, sì e no, per questa quindicina che è ancora buona: poi viene l’inverno e bisogna aspettare fino a primavera. Lei sa che, da queste parti, neve e gelo non chiedono il permesso a nessuno.

    Curvo sulla bordura di un’aiuola, Maurizio esaminava attentamente tra le foglie, scostando i gambi con le mani, ridendo dentro di sè un riso quieto di felicità. Voleva trovare le viole; le viole di novembre.

    — No, signor padrone — suggerì Antonio, calandosi il cappello sugli occhi: — non le cerchi a ponente dove fa freddo e dove non ci batte il sole. Dall’altro lato, a mezzogiorno: ne ho viste ieri cinque o sei già sbocciate.

    Maurizio girò attorno all’aiuola e si curvò, guardando con attenzione.

    — Tre soltanto, ce ne sono. Antonio: le altre chi le ha prese?

    Antonio arrossì, fingendo di guardare il sole che orlava d’oro infocato le Alpi già candide di neve poi disse con tono indifferente:

    — Mah.... Chi lo sa! Magari qualche ragazzo o magari Teresa...

    — I ragazzi scavalcano i cancelli, ora?

    — Per un paio di violette, caro lei, i ragazzi fanno questo ed altro, e noi purtroppo, — sospirò allargando desolatamente le braccia, — non si può essere sempre presenti.

    Maurizio non rispose. Con una mano sugli occhi per ripararsi dai raggi rosso-viola del tramonto, guardava lungo lo stradone che conduce al paese: una donnetta più che sessantenne veniva verso la villa, camminando lentamente, sorridendo ai suoi pensieri ingenui come quelli d’un bambino o maliziosi come quelli d’una donna che ha servito gli stessi padroni dall’età di dodici anni, e di essi conosce virtù e debolezze meglio di tutti.

    — Teresa! — gridò Maurizio, agguantando con le mani le sbarre del cancello di cinta.

    La vecchia si volse indietro, non vide nessuno ed alzò le spalle come chi pensa di avere sognato.

    — Teresa!

    — Oh, Signùr! Il signor padrone!

    Giunse le mani con gioiosa meraviglia, ed arrossì fino ai capelli candidi, ricciuti, ben ravviati a cocuzzolo sulla sua testa di vecchietta pulita e sempre di buon umore.

    Andò incontro a Maurizio con tale slancio che per poco non l’abbracciò: poi lo guardò attentamente, con gli occhi umidi di commozione, di ricordi, di tenerezza, come se, guardandolo così fisso, lo rivedesse fanciullo, ragazzo, giovanotto, uomo.

    — Il signor padrone si ferma definitivamente a Gavirate, Teresa: bisogna subito preparare la sua camera — disse il marito per evitare le prime domande e le prime meraviglie.

    — Ma la casa è ghiacciata... Accenderemo il camino perstanotte: domani poi Antonio penserà al termosifone.

    — Una bella fiammata, Teresa, vale tutti i termosifoni del mondo.

    — Non lo dica: quel caldo disuguale non va per i signori che abitano in città: la fiamma del camino ormai la godiamo soltanto noi poveri vecchi. Non che disprezzi i termosifoni — corresse Teresa col timore di essere dispiaciuta al padrone: — è soltanto questione di abitudine.

    — Ma per una notte, sia benedetta la fiammata!

    — E non le ho nemmeno domandato come sta! A vederla, grazie a Dio, pare benissimo ma questo ritiro in campagna, che cosa vuol dire?

    Intanto Teresa aveva staccato le chiavi dal credenzino della portineria, avviandosi verso l’ingresso principale della villa, perchè le pareva irrispettoso far passare il signor Maurizio dalla sua cucina odorosa di minestrone lombardo.

    — Non si spaventi per l’impressione di freddo e di tristezza che dà la casa chiusa da tanto tempo: due anni, no?

    Maurizio calcolò il tempo, mentre accendeva una sigaretta.

    — Mi pare... sì... Eh, sì, Teresa! Proprio due anni compiuti in ottobre: dopo pochi giorni dalla morte del nonno.

    — Quel povero signor padrone, così buono.

    Nel vestibolo, dalla porta spalancata, entrò una sfrecciata di rosa: il tramonto autunnale, violento di colori ora, pareva portasse in quello stanzone buio, freddo, odoroso di solitudine, un’inondazione di allegria.

    — Apro tutti i giorni, sa! — esclamò Teresa, e aggiunse subito, perchè aveva detto una bugia alla quale nessuno avrebbe potuto credere: — Quasi tutti i giorni, ecco.

    — Me ne sono accorto subito, Teresa: manca l’odor di chiuso.

    Teresa sorrise, attraversando il vestibolo e si avviò per la scala di legno, tutta scricchiolii e risatine come se Teresa, salendo, le facesse il solletico.

    — Domani metteremo i tappeti all’aria aperta, e quando avranno perso l’odore della naftalina li stenderemo nelle stanze. Lo crede che non rammento nemmeno più com’erano disposti?

    — Troveremo una nuova disposizione, Teresa. Ma non c’è fretta. Ho tanto tempo dinanzi a me, qui!...

    Aperse una porta ed accese, nella stanza, la luce elettrica. Sospirò profondamente, contento di riempirsi gli occhi con l’azzurro caldo della tappezzeria, commosso di ritrovare, se non la stessa simmetria ottocentesca dei mobili, certamente la stessa atmosfera di famiglia: un’atmosfera densa, composta forse dei mille e mille respiri di tutta la gente sua che non c’era più; un’atmosfera che egli aveva tentato inutilmente di creare negli appartamenti cittadini, estranei quasi sempre a chi li abita, coi loro corridoi chiari, le loro comodità, la loro sonorità.

    Forse il suo cuore palpitava più rapido, e lo teneva immobile, sulla soglia, come se lo avesse turbato il ritorno di un ricordo dimenticato, o una meraviglia trepida... la meraviglia di ritrovare con la propria casa anche la propria personalità, dispersa dalla vita cittadina e per molto tempo perfino dimenticata.

    — Il letto, una volta, era qui... — fece Teresa, con soggezione come se dovesse aspettarsi una sgridata. — Poi... poi ho pensato ch’era meglio ripararlo dalla luce troppo diretta della finestra...

    — Benissimo, Teresa...

    — Ho fatto levare il baldacchino che non si usa più per una camera da giovanotto, e siccome le tende della finestra erano troppo stinte, con la stoffa del baldacchino le ho rifatte...

    Un po’ sorpreso, Maurizio si volse verso Teresa, sorridendo:

    — Ma bene, Teresa! V’intendete anche di quello che usa per la camera d’un giovanotto...

    Ma Teresa non potè proseguire, perchè Antonio entrava in quel momento con le valigie del signor padrone.

    — Le metto tutte e due sulla tavola?

    — Sì, Antonio: ma portate subito della legna chè fa troppo freddo, qui.

    — Allora consiglio il signor padrone di scendere nella sala da pranzo che è più tiepida perchè ci batte il sole tutto il giorno; intanto che accendo il camino e preparo il letto, Teresa le porterà nell’office dell’acqua calda e degli asciugamani. E per la cena, se le piacesse il nostro minestrone...

    — Se mi piace, Antonio? Mi piace ora più di quando ero bambino, e mi facevano mangiare la minestra per forza.

    Teresa, stordita e confusa, girava per la stanza toccando tutto senza concludere nulla, guardando Maurizio che apriva le valigie, e ridendo sotto un risolino furbo di contadina che la sa lunga. Una contentezza viva, palpitante pareva irradiasse fuori da lei, come un’aureola.

    — Scappo a preparare: fra due minuti l’acqua calda sarà pronta nell’office con gli asciugamani. E faccio il fuoco nel camino della sala da pranzo.

    Si avviò per le scale, aggiungendo forte:

    — Giù si fa presto: ci sono già pronti due ciocchi che danno allegria solo a vederli.

    Antonio portò su la legna, accese il camino nella camera azzurra e cambiò l’aria spalancando la finestra che parve respirare, con lo sbadiglio delle persiane che si aprivano, l’ultima luce del tramonto e la prima ondata del crepuscolo. Spolverò alla meglio i mobili, levò lenzuola e federe dall’armadio della guardaroba, e ammucchiò accappatoio e asciugamani nella stanza da bagno, commentando:

    — Proprio per diligenza, perchè il bagno, fino a domani, non lo fa di certo! Ci dev’essere l’acqua a pezzi; ghiaccio naturale, qui!

    E scese ad aiutare la moglie.

    Maurizio, chiuso nell’office dove compieva una toilette da vagone-letto, ascoltava lo zoccolare ritmico di Teresa che, dopo aver appiccato fuoco alle fascine ammucchiate sotto il ciocco del camino, apparecchiava la tavola in un angolo, spolverando accuratamente piatti e bicchieri.

    — Ho molto appetito, Teresa! — esclamò Maurizio, entrando nella sala alta di soffitto e tutta contornata, a mo’ di cornicione, di vecchi piatti stagnati. — Un appetito da campagna!

    — Non dubiti che il pranzo farà onore da buon campagnolo al suo appetito;

    Gli parve di trovare nella sala un’atmosfera nuova, come se qualche cosa fosse mutato, ma non seppe scoprire nulla che giustificasse la sua sensazione: si avvicinò al camino per scaldarsi. La casa disabitata era fredda, e tuttavia egli provava la curiosa certezza che qualcuno di tanto in tanto venisse a rimuovere e a rinfrescare le vecchie cose, lasciando una scìa di tepore. Teresa? Possibile?

    Sul cassone antico coperto di cuscini che formava un comodo sedile nel vano della finestra, una pianta verde, col vaso di terra nascosto in una ceramica di Laveno, si drizzava con slancio, curata e annaffiata, come se si trovasse in una serra vigilata continuamente dal giardiniere. I cuscini, che nel mezzo della cassapanca erano stati scostati per far posto al vaso, non avevano nulla di vecchio e di polveroso, ripuliti com’erano, con gli orli di pizzo d’oro ben tesi e come stirati. Le tendine chiare delle finestre erano lavate e leggermente inamidate. I nastri che legavano i cuscini di cuoio ai seggioloni alti, non avevano sfilature, come se il tempo distruttore non fosse trascorso...

    Teresa guardava il padrone di sottecchi, senza dir nulla, apparecchiando in fretta, attizzando via via il fuoco, andando e venendo col passo timoroso di chi ha voglia di passare inosservato.

    Dritto dinanzi al camino al quale voltava le spalle, Maurizio rifletteva: non era possibile che Teresa avesse apportati tanti perfezionamenti gentili alla sua vecchia casa abbandonata. Era certo che ella aveva chiamato qualcuno, senza chiedere la sua autorizzazione, per pulire, modificare, migliorare. E magari, ora, non sapeva come scusarsi e come confessare una spesa per la quale non aveva prima richiesto e ottenuto il permesso.

    Preceduta dalla zuppiera fumante tenuta a braccia tese, Teresa entrò sorridendo...

    — È pronto, signor padrone!

    Gli riempì la scodella di minestra screziata dalle diverse verdure e se ne andò a preparare «il resto» con un «Buon appetito!», sicura del fatto suo.

    Il «resto» venne poco dopo sotto forma di frittata e di insalata, bianca di freddo, coltivata e seppellita nella terra dell’orto.

    — Morbida come il burro, signor padrone.

    — Teresa — disse Maurizio col tono di chi ha da dire qualche cosa di molto importante, — chiamate l’Antonio, perchè voglio parlare a tutti e due.

    — Mamma mia! — esclamò la vecchia, diventando rossa fino alle orecchie. — Non abbiamo fatto nulla di male, spero... — E chiamò troppo forte: — Antonio! Vieni in sala da pranzo.

    Il vecchio apparve sulla soglia con la lentezza preoccupata dell’uomo che non è molto tranquillo.

    — Ebbene? — fece Maurizio, sorridendo dinanzi ai volti ansiosi dei due vecchi. — Che cos’è questo timore?

    Antonio si strinse nelle spalle come per dimostrare che non sapeva nulla e preferì tacere perchè non era molto sicuro della sua voce.

    — Sapete perchè sono tornato?

    — Per... riposare, m’ha detto.

    — Ecco. Ma sono tornato, soprattutto, per vivere in perfetta solitudine. — Ripetè: — Solo.

    — Va bene, signor padrone.

    — Non voglio vedere nessuno, non voglio ricevere nessuno. E in modo speciale non voglio veder gonnelle. Nè quelle del paese, nè quelle cittadine.

    — D’inverno, signore, le gonnelle cittadine non vengono a sventolare in questi posti.

    — Può darsi che una di Milano venga inaspettata. Se quella arriva, riaccompagnatela sulla strada maestra, giurando che non sono a Gavirate, che non mi avete veduto, che sono partito per il Polo, che sono morto. Liberatemi da lei, e dalle altre, con tutti i mezzi e con tutte le astuzie.

    — Sissignore — ripetè Antonio, occhieggiando Teresa di nascosto. — E per il servizio, già che ci siamo è meglio parlarne subito, si tengono le vecchie abitudini? Alle dodici e mezzo la colazione e alle sette e mezzo il pranzo?

    — Benissimo. Arriveranno coi bauli alcune casse di libri. Fatele portare direttamente nella biblioteca.

    Riflettè un momento, calcolando la fatica che i vecchi dovevano impiegare per servirlo a dovere, e aggiunse, guardandoli con gli occhi sorridenti:

    — Se vi occorre un aiuto, prendete qualcuno del paese, oppure scriverò a Milano...

    — Non ce ne sarà bisogno! — fece Teresa col tono di chi non ne vuol sapere di gente estranea in casa. — Facciamo da noi!

    Curvo sulla appetitosissima frittata, Maurizio non disse più una parola. I due vecchi rimasero ancora qualche momento sull’attenti ad aspettare; poi, alla prima occhiata di Maurizio, Antonio fece un gesto che pareva promettesse un inevitabile discorso di fedeltà e di obbedienza, di «stia tranquillo» e di «siamo qui per difenderla».

    — Va bene, va bene, Antonio, immagino già quello che vorreste dirmi: ma non importa parlare, mi fido di voi e di Teresa.

    — No, signor padrone, non è questo che volevo... Avvertivo soltanto che sarà bene mettere la macchina in garage, perchè il meccanico non può venire a pulirla che domani.

    — Aprite il garage; dopo cena, provvederò.

    Rimase solo, dinanzi ad un’alzata di frutta che in nessun ristorante cittadino gli avrebbero mai servita, e senza pensare, beato della solitudine, del silenzio, della calma, della certezza assoluta di non venire disturbato, demolì quel ben di Dio fiammeggiante di mandarini, macchiato di prugne, e sostenuto da una base profumata di mele ranette raccolte nel frutteto.

    Poi si allungò in una poltrona, con le scarpe alla fiamma, e accese una sigaretta: a occhi chiusi, sognò di essere un uomo felice, tra nubi di fumo e scintille evanescenti.

    Teresa, in punta di piedi, venne a sparecchiare, poi gli mise accanto uno sgabello e sullo sgabello un vassoio con la tazzina colma di caffè. Aspettò che il padrone avvertisse la sua presenza, per approfittare di scusarsi se il caffè non fosse trovato ottimo: aveva adoperato, per quella sera, il caffè di qualità inferiore che serviva a loro due vecchi di facile palato. Maurizio finse di non accorgersi della manovra, rimase immobile cogli occhi chiusi e la sigaretta tra le labbra: allora Teresa se ne tornò in cucina senza far rumore.

    Il caffè, anche se di qualità inferiore, parve ottimo a Maurizio: si sentiva nello stato d’animo di trovar buona e dolce anche la cicuta purchè nessuno lo obbligasse a parlare. Quando ebbe terminata la sigaretta e vuotata la tazzina, riattizzò il fuoco, rialzò il bavero della giacca, e fischiettando uscì in giardino. Il garage era spalancato: vi condusse la macchina, lo richiuse da solo, rimettendo la chiave dietro la porta d’ingresso della portineria, dove l’aveva veduta sempre attaccata fin da quando, invece del garage, esisteva la stalla, con due cavalli sauri che sbalordivano il paese.

    Passeggiò su e giù nei viali del giardino rischiarato dalla luna che si alzava piena e luminosa nel cielo limpido prima ancora che gli ultimi bagliori lontani del tramonto fossero scomparsi. All’orizzonte, al termine di una degradante catena di montagne contornate da un vago irradiare di cielo color fuoco, una punta a berretto di pan di zucchero pareva un disegno nitido staccato sul fondo di una cupola Fortuny. Guardò attentamente lo smarrirsi dei colori attorno a quella punta della quale non ricordava il nome, ma che rammentava di aver veduta soltanto nelle sere troppo limpide, quando la trasparenza dell’aria diventa quasi allucinante.

    — Ma è il Cervino! — esclamò. — Domani buona giornata!

    E non si mosse più, finchè montagne e paesi non scomparvero nella notte: si accorse allora di avere freddo e rientrò in casa con le mani in tasca e con un gran desiderio di andare a letto. Nella sala da pranzo la luce era rimasta accesa e il camino pieno di fiamme. Spense la luce e si diresse verso la biblioteca. Gli alti scaffali saccheggiati da tutta la famiglia, dagli amici, dalle conoscenze, dalla servitù, lo distrassero: calcolò con un’occhiata che, forse, con l’arrivo delle sue casse di libri avrebbe potuto riempire i vuoti, e pensò di cercare un abile legatore, per salvare le edizioni più sciupate; poi immaginò una serie di lunghe giornate inerti, con un libro in mano e la pace intorno e nel cuore.

    Rimase incerto sulla opportunità di rimuovere la polvere di qualche anno accumulata sulle pagine dei libri che Teresa e Antonio avevano l’ordine di non toccare; poi aperse una vetrata, e guardò i titoli impressi in oro sulla costa delle collezioni di volumi antichi e moderni.

    — Tutti ben divisi! — esclamò perplesso, con un volume di Balzac in mano, ben spolverato e messo tra gli altri in ordine cronologico. — A meno che la zia non sia passata di qui... Quand’anche fosse, la zia non è donna da capire che un volume deve precedere l’altro per ordine di data di pubblicazione. — Rimise il volume a posto, un po’ deluso: qualcuno aveva evidentemente già fatto tutto il lavorìo di riordino che si era proposto di fare lui, per riempire e rendere interessanti le sue prime giornate oziose.

    Ritornò nel corridoio, chiudendo la porta della biblioteca dietro di sè: nel fondo, tra l’uscio e il muro dell’office, Teresa sgusciò improvvisa e scomparve nella sala da pranzo.

    — Sembra che mi sorvegli! — pensò ridendo, e attraverso la veranda vetrata ch’era una specie di salotto invernale disposto a mezzogiorno, tornò nell’atrio e prese a salire lo scalone di legno che portava ai piani superiori.

    — Vado a letto! — gridò verso la portineria.

    Antonio accorse.

    — È tutto pronto in camera! Se avesse bisogno, non suoni il campanello elettrico che non funziona, ma l’altro a batacchio che dà sul pianerottolo.

    — Buona notte!

    L’ordine, nella sua camera, non era perfetto. I due abiti messi alla svelta nella valigia, erano accavallati sulla spalliera di due sedie, il pigiama sul letto, gli oggetti di toilette disposti in fila sulla tavola.

    — E perchè non nel bagno? — si chiese Maurizio, entrando nel gabinetto attiguo dal quale si ritrasse di colpo rabbrividendo: — Peggio che al Polo, con tutto quel bianco gelido!

    Il fuoco, nel caminone tra due finestre, gli portò un’ondata di allegria e di intimità. Si spogliò adagio adagio perchè l’aria, nella camera, cominciava appena a intiepidire, mise il pigiama, si avvolse nella vestaglia di velluto di lana caldissimo e cercò nel fondo d’una valigia alcuni libri intonsi che aveva portati con sè da Milano. Scelse quello meno adatto per dormire, soltanto perchè era certamente più interessante degli altri: un volume di Leblanc su Arsenio Lupin, ed ascoltò d’un tratto, immobile nella stanza, col libro chiuso in mano, i rintocchi del grande orologio sul campanile della Chiesa. Non li udiva più da tanto tempo! Riconobbe la sonorità della campana come si riconosce la voce di qualcuno al quale si è voluto bene da bambini. Contò sottovoce: nove e mezza.

    Si accorse di sorridere, alzando lo sguardo allo specchio sopra il caminetto: a quell’ora, a Milano, egli era già vestito per andare a teatro, oppure si radeva e si vestiva per recarsi al Circolo, oppure a fare qualche visita, o al cinematografo, e più spesso, a casa della sua amante Lelia di Roseti: una bella insopportabile maleducata ragazza di trent’anni ch’ella pretendeva di far accettare per ventidue. Balzata fuori dalla bassa provincia, senza istruzione, senza preparazione alla vita, senza cuore, ma con un temperamento di prim’ordine, Lelia di Roseti, dopo aver ridotto male tre o quattro giovanotti di buona famiglia e di buone speranze, s’era aggrappata alla solida giovinezza e al sicuro patrimonio di Maurizio Guicciardi, con tale insistenza, con tale oppressione, con tale avidità e con tanta imprudenza che Maurizio era scappato in campagna deciso a non avvicinare più, per tutta la vita, una donna.

    — Buona notte! — si disse, inchinandosi. E togliendosi la vestaglia per rifugiarsi sotto le lenzuola fredde, mormorò: — A Milano, soltanto all’idea di coricarmi presto, mi sarei persuaso di essere ammalato. Qui invece sto benissimo.

    Cominciò a leggere senza molta voglia: era stanco della giornata, ma soprattutto era tranquillo, e non sentì alcun bisogno di cercare il sonno tra le pagine di un libro. Il sonno, quello vero, quello genuino, gli solleticava già le palpebre: dopo due o tre sbadigli a bocca spalancata, chiuse gli occhi e spense la luce.

    * * *

    Lo svegliò, la mattina dopo, un raggio di sole che gli scaldava una guancia. Spalancò gli occhi di colpo, meravigliato di non trovarsi nella sua camera milanese.

    — Ho dormito senza chiudere le persiane, e la prima

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