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De lo novo medièvo barbarico et capitalista (ovvero De la Cina ch'è più vicina)
De lo novo medièvo barbarico et capitalista (ovvero De la Cina ch'è più vicina)
De lo novo medièvo barbarico et capitalista (ovvero De la Cina ch'è più vicina)
E-book54 pagine37 minuti

De lo novo medièvo barbarico et capitalista (ovvero De la Cina ch'è più vicina)

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Info su questo ebook

Usando l’amata “quartina”, sviluppata in un lessico del tutto particolare, ironicamente ed approssimativamente in coerenza cronologica con il titolo (una sorta di provocazione storico-letteraria), l’autore vuole rendere omaggio alla sceneggiatura dei Brancaleone del compianto Mario Monicelli (una sorta di mix di volgare trecentesco, latino maccheronico, forme dialettali e parole ormai desuete).
Il sottotitolo, a sua volta, è riconducibile al titolo del film La Cina è vicina (1967) di Marco Bellocchio.
Partendo, in un certo senso, da due film Pietro Angelone ci offre una piccola storia verseggiata della nostra Repubblica dalla Costituzione ad oggi.
Ma il suo sguardo è volutamente esteso oltre i confini nazionali per evidenziare le cause che hanno provocato l’attuale situazione di crisi, leitmotiv generalizzato e parossistico della fine del primo decennio e l’inizio del secondo di questo nostro già tanto decantato terzo millennio.
In proposito giova ricordare
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2013
ISBN9788878534735
De lo novo medièvo barbarico et capitalista (ovvero De la Cina ch'è più vicina)

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    Anteprima del libro

    De lo novo medièvo barbarico et capitalista (ovvero De la Cina ch'è più vicina) - Pietro Angelone

    Prefazione

    Prefazione

    DI BRANCALEONI,  PASOLINI & PAPPAGONI

    A proposito del neo-volgare creolo di un poemetto ribattezzato

    (impropriamente ma con senno) dal suo autore canzone

    1965, 1966, 1967. Al termine del suo primo, inedito ventennio di magnifiche sorti e progressive, di progresso come benessere (finalmente!) ma anche di progresso come falso progresso, di omologazioni e sirene consumiste, l’Italia ritrova un attimo di fiato, e si volta indietro. È la prima volta dalle macerie della Seconda Guerra. Si volta a constatare tracce derive mutazioni aberrazioni cicatrici: primi effetti visibili della modernizzazione a tappe forzate che ha travolto, stravolto e sradicato la sua millenaria civiltà contadina.

    Pier Paolo Pasolini mette al mondo, per musiche di Ennio Morricone, la canzone di un posteggiatore abusivo a Roma. Poliomelitico di origini amiatine, egli si fa chiamare Caput Coctu, come il protagonista della ben nota Postilla. Bercia versi e slogan in un improbabile italo-creolo delle rape. Volgare, al tempo stesso, arcaico e dopo-storico. Attraverso la sua voce, come in un presente remoto, come in una seduta spiritica (a forza di fili de le pute, traite! e di guaita, guaita male!, dagli affreschi di San Clemente in Roma agli spalti della rocca di Travale, sulle Colline Metallifere in Maremma) tornano a vivere, dall’al-di-là di un oblio feroce-frettoloso, tornano a rivivere, fantasmi slavati e infelici, i padri antichi, illustri e diseredati, pezzenti e aristocratici della civiltà linguistica italiana. Delle nostre radici storiche romanze ormai recise. Del nostro essere stati. A ricordo di ciò che fummo e che improvvisamente scoprimmo di non voler esser mai più. Anzi, di voler non-esser-mai-stati.

    Intanto, per le campagne della Tuscia, tra Vitorchiano Vico Valentano, nei pressi di Viterbo, ai piedi della futura Torre Pasolini a Chia, si aggira fuori tempo massimo un cavaliere medievale. Di quelli senza macchia e senza infamia. Ma anche senza casato né feudo. Senza arte né parte, insomma. Un onestissimo spiantato. Un vero italiano: suddito di un incipiente-inesorabile futuro anteriore. Porta un curioso codino in testa e una canottiera sdrucita, che pare un samurai di Kurosawa. Declama le sue cialtronate in un improbabile dolcissimo esilarante volgare viterbese-neolatino (sic, Age e Scarpelli dicunt). Il suo nome è Brancaleone-Gassman. La sua pittoresca parlata, roboante e manoscritta, fa venire le lacrime agli occhi a folle di ex-contadini (inurbati di fresco) che sovraffollano le sale dei cinematografi. È un successo clamoroso, ma somiglia tanto a una litania funebre. Quelle risate sono come certi gabinetti pensili tirati su col forato sopra balconi e ballatoi dei nostri centri storici ormai disertati. Ridono a 4 ganasce, gli italiani: perché non vogliono mai più saperne di quella miseria antica. José Feliciano non ha ancora cantato paese mio, ti lascio, io vado via. Ma il dado è tratto.

    La controprova? Sul piccolo schermo (quello della televisione, ovviamente: elettrodomestico magnifico e progressivo, che dilaga ormai nel privato delle case, in mezzo a frigoriferi e lavatrici, Seicento e Cinquecento; con in più il sortilegio di saper parlare e di accelerare perciò, alla velocità della luce, una nuova pedagogia di cose). Sul piccolo schermo, zazzera a scolapasta, ciuffetto ribelle in capo, come di chi abbia dormito storto, Pappagone non parla più dialetto,

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