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Sui campi e sulle rive del fiume
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Sui campi e sulle rive del fiume
E-book284 pagine4 ore

Sui campi e sulle rive del fiume

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Info su questo ebook

Il romanzo è ambientato nell’Italia del secondo dopoguerra, sullo sfondo storico degli anni della contestazione e delle agitazioni studentesche.
Il protagonista, la voce narrante, ripercorre a ritroso le vicende personali e familiari, le une e le altre alquanto dolorose, che ne hanno punteggiato la vita, dall’infanzia all’età matura.
Uno sguardo ampio e disincantato su uno dei periodi più bui della storia recente del Paese, che si intreccia intimamente con le
emozioni, gli struggimenti e, infine, la ricomposizione nell’età adulta del protagonista.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2017
ISBN9788865125274
Sui campi e sulle rive del fiume

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    Anteprima del libro

    Sui campi e sulle rive del fiume - Daniele Acciariello

    Daniele Acciariello

    Sui campi e sulle rive del fiume

    © 2017, Marcianum Press, Venezia

    Marcianum Press

    Edizioni Studium S.r.l.

    Dorsoduro, 1 – 30123 Venezia

    t 041 27.43.914 – f 041 27.43.971

    marcianumpress@marcianum.it

    www.marcianumpress.it

    Impaginazione: Tomomot, Venezia

    ISBN 978-88-6512-527-4

    UUID: 758df6b8-3c9b-11e7-877d-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    PARTE SECONDA

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    IL CROGIOLO – ROMANZI

    12

    Prefazione

    di Giorgio Appolonia

    Dato che una prefazione non deve raccontare quanto è scritto in un romanzo, mi limiterò a riferire quanto il testo ha suscitato, ovvero una fotografia. La fotografia in bianco e nero di un’infanzia solo a tratti felice, mai spensierata, vissuta fra le onde color piombo di un fiume che si autoinghiotte in una caverna ignota e le pieghe di un lenzuolo, forse un sudario dove è sepolto, vivo, un genitore che suo malgrado si vede costretto ad abbandonare il figlio al suo destino.

    Un bambino, Nico, che insegue una felicità che gli sfugge dapprima allo schianto di un motore che si impasta contro un ostacolo non identificato – un ciclista fuggito all’impatto? – poi dentro i rumori di una città necessaria e laboriosa, la Milano lontana e vicina al tempo stesso, moralmente lontana ma materialmente vicina alla valle incantata dove si gioca e si amoreggia con le compagne di scuola, dove anche uccidere una trota sembra rientrare nell’innocente dipanarsi di una fiaba… decisamente lontana nell’armonia di un piccolo cuore che pulsa e cresce fra l’incanto della natura e l’ignoto di un futuro costruito fra l’elegia delle lontananze e il ritrovarsi di pirandelliana memoria, fra le poche… tante… isole serene della vita, fra le frustrazioni di incombenti necessità. Nico, il protagonista sembra solo, ma non è mai solo. Con lui il sovvenire di un padre, l’affetto di uno zio, la fantasia di un farmacista pescatore, Cinzia e Baba, gli ignari pesci del fossato e le mosche variopinte – queste sì… - che servono da esca: trappole di vita, trappole di morte.

    Una fotografia in bianco e nero che si tinge, come colorata a mano, di quelle iridescenze indecise e forse acide di un passato prossimo, infinitamente lontano dal passato remoto dell’infanzia di chi ha scritto questi fogli. Più lontano, ma per la stessa ragione più vicino. L’alba della vita, per triste che sia stata, diviene epopea; quello che è avvenuto di seguito è spesso materia di discussione. Dunque, un bianco e nero che tornerà ad essere colore nell’esercizio di renderlo nuovo.

    Un padre che muore, un padre che ritorna in una figura familiare e rassicurante, una tata pronta a soccorrerti, il volo di una bimba che nuota nell’aria con le sue braccine roteanti nella beatitudine dell’incoscienza, il bacio raggiunto… fra due persone che si amano anche per comune genetica.

    Dunque un poco del Rossellini con il suo onesto neorealismo di una volta, un poco del mistero di Buzzati con certe elucubrazioni oniriche; di certo tanta parte dell’autore che ha la fondamentale capacità di manifestarsi e di nascondersi riga dopo riga. È lui? Non è lui? Quale il volto di Nico? Quale il volto dell’altro, del primo Nico, di quel Nico dal comico cognome? Citrullo si chiamava, ma non c’è stato molto da ridere nel suo destino. A ben pensarci, è il mistero che funge da denominatore a questo racconto sciolto e liquido, buono e crudele al tempo stesso, fra la pioggia e la neve, fra l’amore e la solitudine. Durerà per sempre quella storia che sembra uscita da un film di Tim Burton?

    Giorgio Appolonia

    www.rsi.ch/opera

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Sono tre giorni che non smette di nevicare. Le prime parole che ricordo di aver mai pronunciato, le prime di cui ho memoria. Stavo in punta di piedi, appoggiato al calorifero sotto la finestra, e guardavo ammaliato i fiocchi cadere lievi dal cielo. Il bollore del termosifone contro il mio petto contrastava con la sensazione di freddo che si percepiva toccando il vetro della finestra, quella più esterna delle due che erano montate su ogni singolo stipite della mia casa.

    Era una domenica mattina presto, di questo sono certo, giacché mio padre e mia madre indugiavano ancora sotto le coperte di quel letto che a me appariva come una montagna, quanto era alto.

    La domenica era l’unico giorno in cui avevo la possibilità di vedere mio padre, alla mattina. Per il resto della settimana ciò non era possibile, il lavoro lo portava via ancor prima che mia madre mi svegliasse con il suo usuale bacio sulla guancia.

    Lui, mio padre, passava a salutarmi poco prima di uscire. Alcune volte lo scricchiolio del vecchio pavimento in legno della mia camera ne preannunciava la presenza e, anche se i suoi passi erano leggeri ed io ancora non avevo trovato la forza per aprire gli occhi, ne percepivo la presenza accanto a me dal profumo antico di frangipani che emanava il suo dopobarba. Sentivo che il suo viso era vicino al mio e sentivo il suo sguardo d’amore su di me.

    Alcune volte sussurrava qualcosa d’indefinito e solo raramente mi accarezzava la nuca, credo per non svegliarmi prima dell’ora. Forse era solo la mia immaginazione, ma me lo figuravo già vestito di tutto punto, col cappotto pesante nella stagione brutta e con i guanti, la borsa del lavoro in una mano.

    La borsa. Una sera prima di coricarmi, avrò avuto poco più di sei anni, non seppi resistere alla tentazione di curiosarvi all’interno. Tirai fuori con cura una moltitudine di cartelle scritte a macchina e di disegni di parti meccaniche, allineando i fogli sulla sua scrivania. Sapevo che lui non avrebbe gradito, quindi mi preoccupavo di mantenerli nello stesso ordine nel quale li avevo trovati all’interno dalla borsa. Papà mi stava già osservando, non visto, appoggiato con la spalla sullo stipite della porta.

    «Stai cercando qualcosa in particolare?» disse all’improvviso con un tono di voce solo apparentemente distaccato, raggelandomi il sangue nelle vene. Io non mi voltai neppure e in silenzio riposi i documenti là dove li avevo trovati. Sperai disperatamente che se ne fosse andato dalla posizione in cui era, ma lui era lì, così che dovetti passare sotto l’arco del suo braccio per uscire dalla porta. Le guance mi si incendiarono di vergogna.

    Non ho mai più aperto, da allora, la borsa di mio padre. Neppure nei giorni di vigilia dei miei compleanni, quando lui tornava dal lavoro con qualcosa di troppo voluminoso all’interno e la curiosità mi divorava.

    Quell’anno, lo ricordo come fosse ieri, ebbi la mia prima pistola di metallo e un cinturone da cow-boy con la fondina di cuoio che mi arrivava alla caviglia. Mia madre dovette combattere per convincermi a non indossare quell’armamentario alla messa della domenica successiva.

    Fino al Natale che seguì essa divenne una protesi del mio fianco destro. Passarono però altri due anni prima che mio padre mi rivelasse che la pistola poteva essere caricata con le cartucce di plastica colorata, con la polvere da sparo. Fino ad allora l’avevo custodita come una reliquia.

    Nonostante mi sforzi di farlo, non riesco a ricordare se in quegli anni fossi felice, se fossi un bambino allegro, spensierato. Non ho avuto il coraggio di chiederlo ai miei genitori, quando ancora ne avevo la possibilità. Ora che vorrei, loro non sono più qui a rispondermi, e del resto non sono sicuro che avrei avuto la forza di farlo.

    Quella domenica mattina, in ogni caso, non doveva fare particolarmente freddo, i grandi fiocchi cadevano lenti, ondeggiando come barchette di carta sull’acqua e girando lentamente su se stessi prima di posarsi sugli altri già sul terreno, confondendosi nel mare di bianco che avvolgeva ogni cosa.

    I davanzali che davano verso il fiume, si erano imbiancati per una profondità di pochi centimetri, così da poter vedere chiaramente che altezza avesse raggiunto la nevicata durante la notte. La striscia bianca e soffice contrastava col colore scuro della pietra. Neppure la ferrovia che correva parallela alla riva, si sarebbe potuta immaginare, non fosse stato per la presenza della staccionata di cemento che la fiancheggiava. Ma la neve aderiva incredibilmente anche sulle sue strette superfici verticali. Non ricordo altro di quel giorno, il primo giorno della mia coscienza, il preambolo della mia rappresentazione.

    Dovettero passare altri tre inverni e molte altre nevicate, prima che gli avvenimenti iniziassero a lasciare un segno più preciso e continuo nella mia memoria. Fino ad allora erano state piccole finestre che si aprivano al ricordo lungo le pareti di un corridoio buio.

    Tre inverni. Le fondamenta dell’uomo che sono diventato.

    Capitolo 2

    Salii le scale a due a due, senza un pensiero preciso nella testa, apparentemente sereno. Poi, quando fui sul pianerottolo, davanti alla porta di casa, la rabbia mi salì dallo stomaco come una vampata. Spalancai il battente e, senza salutare, mi infilai nel bagno. Sbattei la cartella con forza contro il lavandino e presi a lavarmi le mani sotto il getto gelido del rubinetto. Facevo rumore con tutto quello che mi capitava, con l’anta dell’armadietto, con la tavola del gabinetto. Con tutto.

    Ada, mia madre, si alzò da tavola e si avvicinò alla porta. Ne vedevo la sagoma spezzata attraverso il vetro sagomato e traslucido. Stava in silenzio.

    Raccolsi la cartella dei libri e aprii, ritrovandomela davanti. Non mi chiese nulla, limitandosi ad abbracciarmi. Io premetti la mia faccia contro il suo ventre. Solo quando sentì che stavo allentando la tensione, mi chiese: «Cosa c’è che non va?»

    «Niente.» mentii.

    «Sei sicuro?»

    «Ti ho detto che non ho niente, mamma.» Continuavo a mentire e più mentivo e più la rabbia si rimpossessava di me, contro di me, per non essere capace di parlare con lei.

    «D’accordo. Vieni a salutare tuo padre.»

    Entrammo in cucina abbracciati; baciai sulla guancia mio padre mentre masticava un pezzo di carne. Lui mi seguì con lo sguardo mentre prendevo posto alla tavola, bevve un ultimo sorso di vino e, mentre si asciugava la bocca nel tovagliolo, disse: «È già ora per me. Devo tornare al lavoro.» Corse tra loro un’occhiata di intesa poi lui mi venne vicino, mi accarezzò la testa e mi sollevò delicatamente il mento con la mano.

    «Guardami!» mi disse.

    Alzai gli occhi con fatica, che la rabbia mi roteava dentro come un turbine.

    «Tu sei un bambino fortunato, ricordatelo! E ricordati che un giorno non lontano faranno a gara per riverirti.» Fece una pausa, osservando con gli occhi stretti la mia inesistente reazione, poi aggiunse: «Stasera io e tua madre ti dobbiamo dire una cosa molto bella! Devi avere un po’ di pazienza però. Stasera, perché ora devo andare.» Pensai che lo avesse detto solo per cercare di rallegrarmi.

    Era appena scoccata la primavera del ’63, avevo otto anni. Non capii, allora, quello che mio padre volesse dirmi. Semplicemente perché non afferravo, allora, ciò che mi dava quella rabbia. Ora so che lui aveva capito, che loro avevano capito e stavano cercando il modo di risolvere il problema con il loro stile abituale, con discrezione, senza clamore.

    Furono le ultime cose che papà mi disse, con la voce, intendo. Poiché da quel giorno e fino al momento della sua morte, poco più di due anni più tardi, furono i suoi occhi a parlare per lui, quando le lacrime glielo permettevano.

    Tutto, la professione, la famiglia, le relazioni e la sua vita stessa, così come noi usiamo considerarla, esaurirono il loro ultimo capitolo quella sera di pioggia leggera, nell’umidità del fossato che scende al fiume, appena fuori dalla sua fabbrica, sulla strada di casa. Il rumore secco della lamiera aveva pietosamente coperto quello della sua spina dorsale, spezzata come un giunco poco al di sotto della nuca.

    Agostino, il postino, fu l’unico testimone dell’incidente. La macchina di papà cercò di evitare un ragazzo in bicicletta, andando prima a sbattere con violenza contro un palo della luce e, infine, a cadere nel fossato con le ruote verso il cielo. Questo raccontò Agostino a mia madre e ai carabinieri e, benché quel ragazzo in bicicletta non si seppe mai chi fosse stato, o se mai fosse davvero esistito, questo diede un alone di nobiltà al destino ed aiutò lei ad accettare pian piano la disgrazia.

    Quel pomeriggio ero sceso al fiume con Cinzia. Lei era la mia amica migliore. Per essere sincero una delle mie due amiche migliori. Non c’erano maschi, tra i miei amici migliori. Per essere più preciso non c’erano maschi tra i miei amici. Non ce n’erano affatto. In compenso lei era un’adorabile maschiaccio, come una volta mia madre la definì. E credo che avesse ragione perché con lei si potevano fare tutte le cose azzardate che solo i maschi abitualmente s’inventano. Quella volta sedemmo sulla riva ad osservare l’acqua verde bottiglia. La corrente era veloce come sempre succede all’inizio della stagione, quando le impertinenti piogge primaverili si sommano al disgelo della neve, verso l’alta valle.

    Tra noi v’era una sorta di comunicazione cifrata, costituita da segnali delle mani prefissati e che solo noi due e Baba conoscevamo. Il pugno chiuso appoggiato sullo stomaco significava: ho fame. Gli indici sulle palpebre chiuse: sono triste. Le mani spalancate con le palme all’insù: sono felice. Le mani sulle orecchie: sono in castigo, non posso scendere. Ne avevamo altri, di segnali, ma faccio fatica a ricordarli, oggi.

    Baba era Barbara, l’altra mia amica. Eravamo tutti e tre nella stessa classe e dopo i compiti, estate o inverno che fosse, eravamo fuori insieme a giocare. Quel giorno, quando suonammo al suo campanello, Baba apparve alla finestra con le mani sulle orecchie. Dopo, seduti sulla riva del fiume, io mi mostrai a Cinzia toccandomi le palpebre con gli indici, così che lei non parlò, limitandosi a fissare me che avevo lo sguardo perduto dentro l’acqua.

    «Andiamo a vedere i pescatori?» dissi dopo una buona mezz’ora di silenzio.

    «Sì, dai!» rispose lei, «mi è venuto un po’ di freddo a restare qui ferma.»

    Attraversammo il ponte di corsa, provocando mille scricchiolii della pavimentazione di legno che allora lo ricopriva. Dirigemmo verso valle, dove le paratie che alimentavano il canale della centrale creavano dei vortici vicino ai quali spesso si pescavano le trote più grosse. Osservando quei vortici mi sono sempre immaginato che l’acqua si ribellasse all’idea di dover abbandonare il suo fiume. Una volta al di là della chiusa sembrava ritrovare la sua tranquillità, ma io ho sempre pensato che fosse piuttosto la tristezza della resa. Se avesse posseduto delle mani e un corpo, ero certo, l’acqua sicuramente si sarebbe toccata gli occhi.

    C’era un giovane che pescava con un galleggiante rosso. La sua azione era rapida e ripetuta com’era imposto dalla velocità della corrente. Tutto doveva succedere prima che il galleggiante fosse irreparabilmente risucchiato nella paratia. Così lanciava e ritraeva, lanciava e ritraeva, lanciava e ritraeva.

    Cinzia era più interessata ai lombrichi che si aggrovigliavano in una massa in movimento all’interno di un vecchio bicchiere sbeccato. Ne prendeva uno e poi lo rilasciava arrovellandosi per non riuscire più a distinguerlo dagli altri dopo pochi secondi.

    «Niente di niente.» disse il giovane ancor prima che mi azzardassi a chiedergli come stesse andando.

    «Mio papà ha detto che l’acqua è ancora troppo fredda per la neve che si sta sciogliendo in montagna.»

    Lui non rispose, ma annuì ripetutamente con il capo. Immaginai con soddisfazione che nella sua mente si stesse ripetendo qualcosa come: Infatti. Infatti! Il ragazzino sa quel che dice!

    Mi sporsi dal muro ad osservare l’indaffarato andirivieni del sughero rosso. Ballava, e ballava ancora, appoggiato lievemente sull’acqua, non affondava se non quando catturato dal vortice, ma lì era ormai al capolinea della sua corsa infruttuosa e il giovane lo ritirava con alcuni veloci giri del mulinello.

    Mi sentivo più rinfrancato. Camminammo come due incoscienti sullo stretto muretto che costituiva l’argine artificiale del canale fino alla successiva chiusa al di là della quale era impossibile proseguire per l’alta inferriata che lo attraversava da parte a parte, tutt’uno con la recinzione della centrale. Come al solito non si vedeva nessuno dall’altra parte e a quel tempo noi non conoscevamo la funzione del canale. Vedevamo solo che dopo qualche metro le acque venivano inghiottite da una buia galleria di cemento, contribuendo a tenere vivo il mistero.

    Tornammo verso casa perché l’aria si era fatta pungente e il cielo minaccioso. Anche il pescatore aveva rinunciato e ai piedi del lungo muro rimanevano solo dei rimasugli di terra marrone. Accompagnai Cinzia sotto casa con il tacito accordo di ritrovarci, come sempre, l’indomani. Poi mi avviai verso casa roteando con la mano destra le due biglie di vetro che avevo nella tasca. Avevo ancora tempo per giocare in casa, prima che papà facesse ritorno per la cena. Questo mi diede, finalmente, un po’ di buonumore. Mi tornò alla mente anche la sua promessa, suscitandomi solo allora la curiosità che a pranzo non avevo per nulla dimostrato. Certo non immaginavo che meno di due ore dopo la mia vita e quella di mia madre sarebbero cambiate per sempre.

    Solamente dopo un mese dall’accaduto, in un pomeriggio di pioggia, mia madre mi chiese di avvicinarmi al letto dove mio padre avrebbe passato quel poco che gli rimaneva da vivere e, stringendo al petto il braccio inanimato di suo marito, mi comunicò che, con l’aiuto di Dio, alla fine dell’estate avrei avuto un fratello.

    Singhiozzava. Credo, in cuor suo, chiedendo al suo Cielo perché la sottoponesse a quella prova, perché proprio allora.

    Papà la guardava nella sua immobilità espressiva. Ricordo che guardai il vetro della finestra, rigato dalle mille gocce della pioggia, associandolo al viso dei miei genitori, rigato dalle mille lacrime dei loro occhi stanchi. Abbracciai mia madre senza entusiasmo poi appoggiai piano il capo sul petto di papà. Per un attimo il rumore ritmato del respiratore artificiale mi sembrò una ninna nanna. Immaginai quanto lui avesse voluto abbracciare me e capii, in quel momento, quanto stesse soffrendo sotto la sua maschera immobile e quanto, allo stesso modo, fosse emozionato per quello che stava avverandosi.

    Mi si strinse il cuore come non avrei provato mai più nella mia vita ma, per una strana alchimia dei sentimenti, o per un preordinato disegno del destino, presi a ridere di contentezza.

    Risi, davanti all’espressione inizialmente esterrefatta di mamma e all’usuale immobilità di papà. E Dio sa quanto questo fu un bene, poiché le lacrime amare dei miei si tramutarono in lacrime di gioia. Papà me lo disse, me lo disse con la luce degli occhi.

    Non ricordo un’altra occasione in cui un mio atteggiamento abbia dato loro la stessa felicità. È questo il mio più profondo rimpianto, il mio dolore incancellabile.

    Prima di allora, durante quel mese tra l’incidente ed il ritorno a casa di mio padre, la nostra vita non fu più quella a cui eravamo abituati. Mia madre dedicò interamente se stessa all’assistenza del proprio sposo, dormendo al suo fianco all’ospedale, giù in città, al fondo della valle. Alcuni, tra gli operai della fabbrica, si offrirono di accompagnarla, ma lei rifiutò sempre ostinatamente. Una volta ogni qualche giorno, ella tornava con l’ultima corriera, quando l’oscurità era già scesa sulla valle, per lavare i panni durante la notte e ripartire con la prima corsa del mattino, quando ancora era buio.

    Nessuno la vide in paese, nessuno la sentì. Come un angelo custode.

    Io fui affidato ad Elisa, la mia prima balia, la dolce e ingenua Elisa. Una volta al giorno mamma telefonava dall’ospedale per chiedere di me.

    Non si preoccupi, signora. Qui va tutto bene, se Dio vuole erano le parole che immancabilmente sentivo pronunciare.

    Papà ti saluta e mi ha detto che ti vuole bene quelle che immancabilmente mia madre diceva a me.

    Io sono sistemata bene e non ho bisogno di nulla, amore mio quelle che ogni tanto chiudevano le sue telefonate.

    Solo più tardi avrei scoperto quanto nessuna delle due fosse vera. Quanto pietose fossero quelle bugie. Seppi da Elisa, molto tempo dopo, che aveva dormito sempre su una sedia, al più appoggiando il capo ai piedi del letto di mio padre, piegata in due come una canna obbediente alla tramontana. Lui, papà aveva perso l’uso della parola, oltre che quello del suo intero corpo.

    Così fu, con le ruote a girare verso il cielo. Così fu, quando un

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