Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Progetto Icaro
Progetto Icaro
Progetto Icaro
E-book290 pagine3 ore

Progetto Icaro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Progetto Icaro, di Damiano Montesanti, è un testo che si affaccia al mondo letterario quasi in sordina, per poi rivelare una grandezza inaudita, una drammaticità e una forza inaspettate. Leo, Max, Tristano, Manfredi e Ophelia, legati da un sentimento fraterno, condividono le loro fragilità adolescenziali e familiari. Leo, incapace di relazionarsi con le proprie difficoltà, le rifiuta e le seppellisce in fondo al cuore; Max è figlio della solitudine e dell’inquietudine, e respinge ogni imposizione socialmente istituita; Tristano, sopraffatto dall’autorità paterna, vive in eterna contraddizione; Manfredi ed Elisabetta sono due fratelli in perenne disaccordo; e infine Ophelia, il collante del gruppo, che è tra i personaggi più controversi del testo.
Il nostro giovane Autore descrive il dramma che avvolge l’intera vicenda mantenendo la narrazione, ritmica e costante, tra il reale e il surreale. Interessante come Damiano Montesanti abbia saputo esprimere il disagio esistenziale perfettamente collegato alla caratterizzazione del personaggio, il quale cresce e si evolve assieme alla trama.
Progetto Icaro è un libro che non nasce a caso, è il progetto di un giovane pronto a volare con le proprie ali.

Damiano Montesanti è nato a Roma nel 2000. Fin dalla scuola
materna ha sempre vissuto male il suo percorso scolastico, finché in primo liceo decide di lasciare la scuola. Vive un periodo
di forte depressione che lo porta all’obesità e a un “ritiro dal mondo”. Grazie all’intervento dei suoi genitori e dopo un ricovero in un ospedale psichiatrico torna a vivere Riprende gli studi e si rimette in forma, ma dopo il diploma di maturità scientifica resta indeciso sul percorso da intraprendere. Nell’attesa della decisione, fa il barman e si iscrive a Lettere moderne, per poi lasciare dopo neanche un anno. Un giorno, durante la pandemia, decide dal nulla di scrivere un romanzo, e da quel momento capisce cosa fare nella vita: scrivere. Ama inventare storie fin dall’infanzia, dimostrando talento nella scrittura durante gli anni scolastici, ma senza mai pensare di poter concretizzare quelle fantasie.
Mentre scrive questo primo romanzo, partecipa a un concorso letterario, “Favolosamente”, incentrato sulle fiabe, e lo vince.
Progetto Icaro non solo è il suo primo romanzo, ma è anche un modo per raccontarsi: i protagonisti del suo romanzo incarnano le sue esperienze di vita e i vari aspetti della sua personalità.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9788830675261
Progetto Icaro

Correlato a Progetto Icaro

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Progetto Icaro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Progetto Icaro - Damiano Montesanti

    Copertina-LQ.jpg

    Damiano Montesanti

    Progetto Icaro

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN978-88-306-6804-1

    I edizione dicembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Copertina realizzata dall’artista Andrea Marazzi.

    Progetto Icaro

    A Bianca, Costanza,

    Antonio, Cherry e Mia

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    I

    Stessa fiamma

    1.

    Pedoni

    Leonardo

    Diventerò uno scrittore. Ne sono sicuro, un grande scrittore.

    Pensare queste cose mentre si pulisce il vomito di un ubriacone dallo stomaco sensibile, nel bagno del bar dove lavoro, non è il massimo. Considerando che è pure il mio ultimo giorno in questa topaia, poteva sicuramente andarmi meglio.

    Continuavo a passare il mocio, in quel piccolo bagno, sprovvisto perfino di finestre, con quell’unico pensiero che si era radicato in me, non ricordo precisamente quanto, tantomeno saprei dire perché, ma ormai era lì, una semplice idea, tanto forte quanto intangibile.

    Comunque sia, una volta finito tornai su, il mio collega stava ancora sistemando la postazione. Erano le due e un quarto del mattino e, come da prassi, era giunto il momento della pulizia del locale dopo la chiusura. A me era toccato bagno e sala, mentre a Lorenzo, il collega per l’appunto, doveva sistemare il banco bar.

    Con un po’ di invidia cominciai a sistemare le sedie e i tavoli, mentre il capo, nell’altra saletta, contava i soldi racimolati nella serata. Sì, eravamo solo in tre, ma il locale era piccolo, quindi non si poteva esigere più personale.

    Usciti dal bar il capo mi salutò in maniera estremamente fredda, evidentemente non gli andavo tanto a genio, ma poco importava. Lo odiai più del solito in quel momento. Non si può dire lo stesso di Lorenzo, non instaurammo mai un grande rapporto, ma è stato comunque gentile e un bravo collega.

    Mi incamminai verso il mio mezzo di locomozione, un comunissimo Sh 125 del 2008, ma anche con dodici anni sul groppone, andava una meraviglia. Nella strada tra me e il motorino si frapponeva la scuola materna La Scala, nome appropriato per via della posizione, ovvero la scuola che frequentai da piccolo.

    Rimasi a fissarla per qualche secondo. Che bei ricordi che riaffiorano ogni volta che la vedo. Posso dire che è il luogo da dove tutto è iniziato, dove per la prima volta mi sono staccato dal nucleo familiare, e mi sono affacciato al mondo esterno.

    Mi ricordo ancora il primo giorno di scuola. Con uno zainetto in spalla e un gran sorriso, se non sbaglio mia madre ha ancora una foto che immortala quel momento. Ma dietro quel sorriso si celava una gran paura, sono sempre stato un po’ fifone, ma quell’evento mi terrorizzava come poche cose. Una volta entrati in classe accompagnati ancora dai genitori, ci fu il classico discorso da parte delle maestre per rassicurare i bambini e i genitori più scettici e protettivi. Finito questo dolce sproloquio, arrivò il momento dei saluti, e fu lì che scoppiai in un pianto isterico. Riuscì a coprire gli ipotetici pianti e urla degli altri bambini, sinceramente non ricordo cosa stessero facendo, ero troppo impegnato a mettermi in imbarazzo di fronte a tutti.

    Fatto sta che mi aggrappai con forza al corpo di mia madre, e per nessun ragione al mondo avrei lasciato la presa. Costrinsi mio padre a tirarmi di forza, ma niente, restai attaccato. Ci provò anche la maestra, di cui non ricordo le fattezze e tantomeno il nome, ma ricordo l’approccio adottato in quella buffa situazione. Fu abbastanza delicata e persuasiva, e le sue parole unite a quelle di mia madre, mi fecero allentare la presa per poi staccarmi del tutto, in un modo o nell’altro ce l’avevano fatta.

    Dopo i saluti colmi di lacrime, anche i miei genitori lasciarono l’edificio per tornare a casa, e i primi momenti del primissimo giorno di scuola li passai alla finestra a piagnucolare, nella speranza di un loro ritorno istantaneo, mai avvenuto.

    Non so perché mi sia venuto in mente questa scena, proprio adesso, ma al sol pensiero mi viene da sorridere. Chissà se qualcuno si ricorda ancora di quel momento imbarazzante.

    Dopo quell’attimo sereno davanti alla scuola, mi tornò in mente il comportamento del mio capo, anzi ex capo, e mi risalì la rabbia e il disprezzo. Ma, dai, neanche uno shot, laido infame! pensai, per poi continuare sulla strada del ritorno.

    Alle due e mezza la fauna che abita i vicoli di Trastevere è variopinta e assai mistica, in parole povere, un concentrato di personaggi barcollanti e deliranti in cerca di altro alcool e di svago per concludere in bellezza. Si distinguevano in due grandi categorie che andavano per la maggiore. I ragazzini coatti con il borsello, pronti a conquistare Roma armati di arroganza e cinture Gucci, e i grandiosi trentenni che negano il fatto che ormai certe cose, come il coma etilico o semplicemente il fatto di essere svegli dopo le undici e mezza di sera, non se le possono più permettere, e con aria giovanile vanno a caccia di minorenni consenzienti.

    Ovviamente sto generalizzando, ci sono anche le eccezioni, ma nell’ultimo periodo ho potuto osservare che questi fenomeni crescono e si espandono come funghi per le strade notturne.

    Dopo una breve camminata, finalmente raggiunsi la mia meta, a via Garibaldi. Una via bellissima di Roma, e anche il luogo dove è situata la casa di uno dei miei migliori amici, Tristano, proprio davanti alla grande caserma dei carabinieri, ed era proprio lì che avevo parcheggiato il motorino.

    Era da un po’ che non sentivo Tristano. Quasi quasi lo chiamo, magari scende per una sigaretta pensai, e presi il telefono.

    «Cazzo è spento, si dev’essere scaricato, fanculo!» non so neanche io perché dissi quelle cose ad alta voce, forse per farmi compagnia, e continuai:

    «Oh vabbè, è sabato notte, conoscendolo starà con una tipa oppure starà dormendo».

    Deluso dal mancato incontro, presi il motorino e partii. Non mi pesò neanche il fatto di non poter ascoltare la musica in viaggio, per me una cosa fondamentale mentre si guida, ma dopo più di otto ore con la musica sparata nel locale, l’ultima cosa che volevo era mettermi le cuffie con altre canzoni.

    Sulla strada di casa passai per la Fontana dell’Acqua Paola e decisi di fermarmi un po’ là. Parcheggiai, abbastanza distante dalle poche persone presenti sul belvedere che si affacciava sulla città. Non amo la presenza della gente. Mi accesi una sigaretta, guardando da lontano la magnificenza di Roma.

    Innegabile la sua bellezza, sia baciata dal sole che cullata dalla luna, resta una città maestosa. Eppure la odiavo, con tutto me stesso, volevo andarmene altrove, trasferirmi al nord, o in Svizzera ad esempio. Una villetta sopra il lago Maggiore sarebbe l’ideale. L’idea di lasciare Roma si era impossessata di me già da tempo. Non sopportavo più nulla di lei, il traffico, le buche per strada, la mala gestione dei servizi ma soprattutto detestavo i romani, popolo di caproni maleducati, barbari chiassosi e ignoranti cronici. Ovviamente il mio classico giudizio qualunquista era opinabile come tutto, ed ero consapevole della presenza di belle persone, ma ero giunto alla conclusione che il problema non erano gli altri, ero io. Perciò l’idea di trasferirmi, come aveva fatto mia sorella maggiore a suo tempo, era l’unica cosa che mi faceva andare avanti. Non ero fatto per le grandi città troppo rumorose, e Roma era la più grande, tanto bella quanto sbagliata per me.

    Finita la sigaretta trovai giusto qualche secondo per osservare una coppia, vicino alla fontana, che amoreggiava, sembravano felici. Chissà quanto dureranno pensai, e con il mio solito scetticismo e un pizzico d’invidia verso i due, ripresi la strada.

    Finalmente giunsi a casa, in viale dei Quattro Venti, un viale di Monteverde.

    Spalancando la porta di casa ritrovai mia madre addormentata sul divano, con la televisione ancora accesa. Vicino a lei c’era il nostro gatto bianco e nero di dieci anni, di nome Mia, non la lasciava mai sola.

    E queste erano le uniche vite presenti a casa mia. Mia sorella maggiore era partita da anni ormai e si era trasferita ad Amsterdam, mentre mio padre aveva la propria casa distante dalla nostra, da quando i miei si sono separati. Quindi ce la siamo sempre cavata da soli io e mia madre, e il gatto.

    Spensi la tv e pensai di spostarla sul suo letto, ma lasciai perdere. Presi una coperta e la adagiai su di lei, destando per qualche secondo la gatta, che dopo aver fatto dei versi tipici si rimise a dormire.

    Entrai in camera mia e mi spogliai. Dopo essermi messo vestiti più comodi, comunemente chiamato pigiama multiuso, essere andato in bagno e aver messo in carica il telefono, andai in cucina/salone a riempire a metà un bicchiere di whisky. Sono un grande appassionato, e dopo il lavoro ci sta sempre bene.

    Presi il bicchiere di Glenfiddich invecchiato dodici anni, uno dei miei preferiti, e uscii fuori in terrazza.

    «Sigaretta e whisky, miglior coppia di sempre». E stai ancora parlando da solo, complimenti Leonardo, continua così ma con chi altro potevo parlare? Vabbè, si sa come dice il detto, meglio soli che male accompagnati.

    Comunque, sono disoccupato. Cazzo, devo trovare lavoro in un altro bar alla svelta, non voglio essere un peso per mia madre, e devo ancora raggiungere una bella somma per la moto il mio grande obbiettivo era infatti comprarmi una moto in sostituzione del motorino, mancava ormai poco.

    La sigaretta finì fin troppo in fretta, che in realtà era un drum, ma per abitudine la continuavo a chiamare sigaretta. Anche il whisky non tardò a terminare.

    Cazzo, sono stanchissimo, ma purtroppo solo fisicamente, la testa sta ancora a mille, effetto da locale notturno direi. Cosa faccio? Vado a letto? Sai cosa, mi piacerebbe proprio farmi una partita alla Play. È tardi, ma vediamo se Manfredi o Maximilian sono online.

    «Ma guarda questi oh, tutti a ninna» nessuno era online.

    Cazzo è da tanto che non vedo quei tre.

    Tristano, Manfredi e Maximilian sono i miei amici storici, compagni della materna, amici da sempre. Ma è da un po’ che non ci sentiamo, ognuno ha i propri impegni, non siamo più dei bambini spensierati. Ci sarebbe anche Ophelia, la quinta del gruppo, ma lei è da qualche anno che si è trasferita dalla madre a Trieste, un vero peccato. Eravamo un gruppo affiatato.

    «Oh, beh, mi farò una partitina solo e poi a letto».

    Credevo che parlare da solo aiutasse a non impazzire, ma ora non ne sono più tanto sicuro.

    Era da tanto che non giocavo ai videogiochi, li avevo accantonati, ma qualche volta è bello tornarci. Finita la partita spensi, e mi misi a letto.

    Erano le cinque, non feci tanta fatica a crollare nelle braccia di Morfeo e quella notte fu priva di sogni. Ma prima di andare a letto, stupidamente, non controllai il telefono.

    E non lessi il messaggio di Ophelia.

    Tristano

    Suonò la sveglia, alle cinque e mezza del mattino. Con un gesto rapido mi rigirai sul letto per spegnerla in tempo, non volevo che svegliasse il resto della famiglia. Era domenica, e volevo far riposare i miei genitori. Ormai non era pesante per me svegliarmi a quell’orario, di domenica mattina infatti mi ritagliavo l’alba per farmi una corsetta.

    Mi alzai, andai in bagno, e dopo essermi lavato i denti e sciacquato la faccia, andai in cucina a preparare il caffè. Mi feci una tazza e lasciai la moka sul fornello spento, con il resto del caffè dentro. Una volta bevuto la mia parte, cominciai a vestirmi, per poi fare un po’ di risveglio muscolare prima di uscire.

    Mentre stavo andando verso la porta incrociai mia madre, che andava in bagno, ancora assonnata. La salutai con un bacio sulla fronte.

    «Ben svegliata, mamma, se vuoi c’è del caffè in cucina, io vado a correre».

    «Buongiorno, caro. Va bene, grazie, ricordati di tornare in tempo per la messa, sai quanto ci tiene tuo padre».

    «Certo non temere, arriverò preciso. Ci vediamo dopo».

    «A dopo, caro» disse sbadigliando.

    E finalmente uscii. Si erano fatte circa le sei, e la messa iniziava alle otto e mezza, avevo tutto il tempo del mondo. Scelsi una canzone dal telefono e grazie alla musica e al freddo, ero totalmente sveglio e carico. Iniziai a correre un po’ sul posto nel mentre vedevo quali messaggi ignorare e quali no. Nulla d’importante ad una prima occhiata, e qualcosina a cui avrei risposto in seguito.

    La corsetta iniziò, andai verso su, partendo da via Garibaldi, in direzione del Gianicolo, la strada era in salita. L’itinerario era arrivare alla terrazza del Gianicolo, scendere verso l’ospedale Bambin Gesù, arrivare sul lungo Tevere e costeggiarlo fino a piazza Trilussa, per poi, tramite vie interne, tornare al punto di partenza.

    La corsa fu molto piacevole, e il freddo passò in fretta con il calore corporeo e con i primi raggi di sole. Roma, alle prime luci dell’alba, è uno spettacolo inarrivabile, come la più bella donna del mondo. Adoro la mia città.

    Correvo non tanto per una questione di attività fisica, durante la settimana mi alleno come un pazzo, quindi di correre la mattina non ne ho bisogno a livello fisico. Lo faccio più per una questione mentale, staccare un po’ e ritagliarmi del tempo per me stesso. Per pensare un po’.

    Infatti dopo un paio di canzoni per svegliarmi, levo sempre le cuffie e mi faccio accompagnare dal dolce silenzio della città.

    Era il mio momento.

    Tornai a casa verso le sette e mezza. E trovai sveglio anche mio padre, occupato a leggere il giornale, con una tazza di caffè che sorseggiava lentamente.

    «Buongiorno, padre» dissi.

    «Figliolo», rispose staccando gli occhi dalla lettura per poi domandarmi: «com’è andata la corsa?»

    «Tutto bene, ci voleva proprio».

    «Bene, vai sotto la doccia, non voglio fare tardi per la messa».

    «Devo proprio venire?» obbiettai.

    «Non si discute lo sai» rispose con tono autorevole.

    «Non fare storie dai, lo sai che papà ci tiene, e poi ti è sempre piaciuto venire a messa» intervenne mia madre.

    «Sì, quando ero piccolo» ribattei a bassa voce, nella speranza di non essere sentito.

    «Ah e quando hai finito la doccia sveglia Octavia, per favore».

    «Va bene, mamma».

    Sotto l’acqua non riuscivo a smettere di pensare al fatto che non volessi più andare a messa. Cioè sono credente, e molto rispettoso, ma non così tanto da dover ancora andare in chiesa. Era una fissa di mio padre, e da piccolo ci andavo volentieri, ma ora trovo inutile dover andare insieme ad un altro gruppo di persone a condividere una cosa così intima come la preghiera. E poi se Dio è in tutti noi, che senso ha avere per forza un tramite?

    Comunque oramai sono abbastanza grande da poter decidere cosa fare o no. Devo affrontare mio padre una volta per tutte. Questa è l’ultima volta che vado.

    Finita la doccia, andai in camera a vestirmi. Per poi svegliare la mia sorellina.

    «Octavia svegliati» dissi scuotendola dalla spalla con la mano. «Octavia dai. Octavia…».

    «Mmh, fratellone…».

    «Buongiorno, bella addormentata, coraggio, in piedi, che il sole è alto in cielo».

    «Che ore sono, fratellone?». mi disse mentre si stropicciava gli occhi.

    «Sono quasi le otto, ed è ora di prepararsi».

    «Uffa! Volevo dormire un altro po’, ho tanto sonno».

    «Lo so, ma potrai riposare dopo, non facciamo attendere il babbo».

    «Va bene…» concluse con grande sbadiglio.

    Dopo la messa andammo tutti insieme a fare colazione, l’unico momento della settimana che mi concedevo per sforare la dieta, in un bel baretto tra le vie di Trastevere, vicino a piazza Trilussa. La chiesa infatti era lì vicino, giusto a un paio di minuti da casa nostra, ed era la stessa chiesa dove un tempo si sposarono i miei genitori. La colazione domenicale era la parte migliore della mattinata, e Octavia ne era sempre entusiasta. Cosa non darei per riavere la spensieratezza infantile che possiede. A quell’età non si hanno responsabilità o doveri, e la vita non si complica di problemi, come quelli amorosi. E

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1