Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Un fidanzato per Natale
Un fidanzato per Natale
Un fidanzato per Natale
E-book393 pagine5 ore

Un fidanzato per Natale

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Emma ama il Natale.
Etienne passerebbe volentieri al 7 gennaio.
Emma lavora in una libreria e ama leggere.
Etienne è uno scrittore, ma ha promesso che non scriverà mai più.
In una Roma vestita a festa, con il cielo che promette neve, questi due personaggi così diversi cadranno l’uno nella vita dell’altra. Chi l’ha detto che un Grinch non può innamorarsi di un folletto?
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2022
ISBN9791220704489
Un fidanzato per Natale

Correlato a Un fidanzato per Natale

Ebook correlati

Narrativa romantica contemporanea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Un fidanzato per Natale

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Un fidanzato per Natale - Erika Pomella

    1

    L’AMORE NON VA IN VACANZA

    «E poi c’è un altro tipo d’amore.

    Il più crudele, quello che quasi uccide le sue vittime:

    si chiama amore non corrisposto.

    Di quello, io sono un’esperta.

    La maggior parte delle storie d’amore

    è fra persone che si innamorano l’una dell’altra.

    Ma il resto di noi? Quali sono le nostre storie?

    Quelle di noi che ci innamoriamo da soli?

    Noi siamo le vittime dell’amore unilaterale.

    Noi siamo i disgraziati tra gli innamorati.

    I non amati, i feriti in grado di camminare,

    gli handicappati senza il parcheggio riservato.»


    Via del Corso era alle prese con il primo weekend di acquisti natalizi. Erano da poco passate le cinque, il cielo si era tinto di quella strana tonalità violacea del crepuscolo invernale, e centinaia di persone, tra turisti e romani inferociti, continuavano a colpirmi con borse e sacchetti dai nastri colorati che mi costringevano a stringere i denti come un cane schiumante di rabbia.

    Mancava un mese a Natale, eppure sembrava che quell’anno tutti fossero mossi dal sacro fuoco degli acquisti, desiderosi di assicurarsi la propria dose di felicità. La crisi di cui i telegiornali parlavano a ripetizione non esisteva, non nelle vie dello shopping costoso. Non che io avessi qualcosa contro il Natale, tutt’altro. Adoravo le luci che invadevano ogni angolo della mia città, così come amavo quel gelo pungente che mi pizzicava le guance mentre nell’aria si propagava l’odore di caldarroste appena cotte. No, niente di male nel Natale. Era con la schizofrenia che ne derivava che avevo qualche problema. Non che io potessi in qualche modo azzardarmi a giudicare gli altri. Sono sempre stata una sorta di folletto adottivo di Babbo Natale: mi piace addobbare l’albero o preparare cene gustose con l’aiuto di amici con i quali poi spartisco la tavola durante la vigilia.

    Quando ero più piccola e, forse, più ingenua, rientravo senza problemi nella categoria di persone che smaniavano dal desiderio di comprare spray all’essenza di abete e neve finta con cui adornare balconi illuminati da luci intermittenti. Ero stata anche io una di quelle ragazzine che cominciava a decorare la propria vita con largo anticipo in vista delle festività natalizie. E lo ero stata con profondo orgoglio e massima soddisfazione.

    Certo, poi diventa difficile, a ventisette anni, con un lavoro precario che non ti permette di guardare al futuro, continuare a cercare l’incanto. Avevo sviluppato così una sorta di contegno ambivalente per quel che riguardava le festività natalizie: erano la mia aria, dunque non potevo farne a meno. Dall’altra parte, però, in quel periodo ero anche pronta a incenerire con lo sguardo chiunque osasse condividere con me quell’insana passione.

    Perciò anche quel 24 novembre, mentre intorno a me coppie e gruppi di amici cominciavano a sfoggiare i primi cappelli rossi tipici di Babbo Natale, mi ritrovai a sbuffare per la calca di persone che uscivano dalla propria tana quando dicembre cominciava a fare capolino all’orizzonte.

    «Ehi, splendore, cos’è quel muso lungo?»

    Avevo appena messo piede nella libreria dove lavoravo part-time da quasi un anno e già avevo voglia di andare a nascondermi. Niccolò, che quel giorno avrebbe avuto la fortuna di dividere il turno con me, era già accerchiato da un numero imprecisato di clienti che cercavano l’ultimo bestseller da regalare ai propri cari, convinti che comprare qualcosa che tutti sembravano volere avrebbe in qualche modo placato i loro inconsci sensi di colpa.

    «Pensa a lavorare,» risposi distrattamente, superandolo e andando a rintanarmi dietro la cassa, dove un piccolo ripostiglio mi diede per un attimo la fugace illusione di poter scappare da quel caos. Invece, dopo aver posato i miei effetti personali ed essermi liberata dalla sciarpa chilometrica che per qualche motivo continuavo a indossare nonostante avesse più volte minato la mia capacità di rimanere eretta, tornai nell’arena.

    Niccolò, con il suo metro e ottanta di statura e il sorriso gentile, sembrava in grado di gestire la piccola mandria che ci aveva invaso, così io ne approfittai per sgattaiolare tra gli scaffali ricolmi di libri, perdendo tempo a sistemare quei volumi che i clienti rimettevano a posto senza troppo curarsi dell’ordine con cui erano stati esposti.

    Quella piccola mansione mi aiutò a calmare i nervi. Sono sempre stata una divoratrice di libri e credo di non esagerare nel dire che molto spesso avevo più a cuore quella miscela di carta e inchiostro di molte persone che avevano incrociato la mia strada. Perciò rimettere i volumi al loro posto, carezzandone con dolcezza il dorso e inspirando il loro odore come la peggiore delle tossiche, mi diede un senso di pace in cui mi tuffai senza esitare.

    Non so precisamente quanto rimasi in quello stato di estasi, perché quando Niccolò venne a cercarmi era riuscito a liberarsi dei clienti più indemoniati, riportando la piccola libreria FairyDust alla sua quieta atmosfera abituale.

    «Ti stai nascondendo, per caso?» domandò, lanciandomi un’occhiataccia. Okay, forse avevo evitato di correre in suo aiuto durante l’accerchiamento, ma dov’era finito il suo spirito da cavalier servente?

    «Ci provo,» risposi, incassando il capo tra le spalle, come se i suoi rimproveri non potessero toccarmi. Cosa che, in quel caso, si avvicinava molto alla verità.

    «Vedo che oggi sprizzi simpatia da tutti i pori, eh,» commentò lui, guardandomi con una lentezza quasi esasperante. A volte mi veniva da chiedermi se quel ragazzino non avesse dei laser a raggi X incorporati nei suoi occhi chiari. «Ti è successo qualcosa?»

    «Che vuoi che mi sia successo?» risposi e mi voltai in modo da dargli le spalle.

    «Ti son venute le tue cose, per caso?»

    Niccolò era davvero fortunato che io fossi un’amante tanto fedele dei libri, altrimenti niente e nessuno avrebbe potuto salvarlo da un tiro piuttosto preciso dell’edizione rilegata de I Miserabili di Victor Hugo, tornati con ferocia sul mercato dopo che il film con Hugh Jackman aveva spopolato al cinema.

    «Forse sono venute a te, caro mio,» risposi invece, abbandonando il mio rifugio tra gli scaffali e superando il mio collega senza degnarlo neanche di uno sguardo.

    Ma, dal momento che in quei mesi Niccolò si era dimostrato un buon amico, non perse tempo e mi venne dietro. Dopo aver controllato che non ci fosse nessuno pronto a entrare nel negozio – dopotutto i libri non stuzzicano la curiosità dei grandi compratori come schermi piatti e cellulari all’ultima moda – Niccolò lasciò perdere il proprio tono sardonico e andò dritto al punto.

    «Emma, non è che per caso ti sei vista con Samuele?»

    Bam. Colpita e affondata.

    La mia espressione colpevole doveva essere piuttosto palese, perché Niccolò alzò gli occhi al cielo con fare esasperato, prima di cominciare a rimproverarmi. «Emma, amica mia. Non so davvero quante volte ancora dovremo affrontare questo discorso.»

    «Non c’è bisogno che lo affrontiamo. Lo so già,» borbottai, capricciosa.

    Lui, ovviamente, non si degnò di prestarmi nemmeno un briciolo della sua attenzione. Niccolò era un ragazzo gentile, ma non c’era niente che amasse tanto quanto sapere di aver ragione e provarlo a tutti coloro che lo circondavano. Inclusa la sottoscritta.

    «Samuele è uno stronzo, okay? E guarda che non lo dico in senso lato… è proprio uno stronzo, uno di quelli che quando lo calpesti per strada ti rimane attaccato addosso peggio di una zecca e ti fa puzzare come se avessi vomitato un topo morto.»

    «Che immagine elegante,» commentai, andandomi a sedere al computer vicino alla cassa per vedere come erano andate le vendite quel giorno.

    «Magari così capisci il concetto,» si impuntò lui, fronteggiandomi con i pugni chiusi sui fianchi a mo’ di vecchia massaia. «Ed eviti di farti del male.»

    Come se ci fosse stato bisogno che me lo dicesse!

    Perché diavolo pensava che quel giorno fossi ridotta a uno straccio?

    Avevo conosciuto Samuele quando andavo all’Università e il mondo fuori dall’Istituzione Accademica mi sembrava ancora pieno di possibilità. All’epoca ero ancora quella ragazzina ingenua e felice di cui sopra: credevo in me stessa, credevo nella magia, credevo in un mucchio di scemenze. Metà delle quali erano ancora il mio mantra. Poi avevo incontrato Samuele; alto, snello, dai ridenti occhi verdi e con passioni che sembravano collimare con le mie.

    La cosa più grave della faccenda era il fatto che non si era trattato di un colpo di fulmine. Se così fosse stato, in qualche modo avrei potuto giustificarmi con me stessa, dicendomi che avevo avuto un blackout cerebrale per via di una botta di ormoni. D’altra parte succede a tutti, prima o poi, no?

    Invece la bellezza di Samuele, che era inconfutabile, era stata solo un elemento aggiuntivo, una specie di bonus raggiunto con i punti fedeltà. Il vero guaio era che nell’arco di qualche mese mi ero completamente innamorata di lui. Amavo il modo in cui mi sorrideva, come se io fossi la cosa più dolce in cui si fosse imbattuto. Amavo come muoveva le mani, quasi volesse abbracciare tutto il mondo. Mi ero innamorata delle cose che diceva, del modo che aveva di rapportarsi ai suoi amici, come se ognuno di loro fosse assolutamente insostituibile.

    E quando avevo capito che Samuele non era altro che un attore mancato, un manipolatore di emozioni che riusciva a far credere alla gente qualsiasi accidenti volesse, era ormai troppo tardi. Mi ero talmente impantanata nel mio amore per lui che davvero non sapevo come uscirne.

    Come se stessi annegando nelle sabbie mobili, più cercavo di mettermi in salvo e di fuggire da lui più affondavo, allontanandomi sempre di più dalla luce del sole. E per via di tutto questo avevo un odio viscerale per me stessa. Cavolo, donna, ma un minimo di dignità?

    No. Niente del genere.

    Giocavo a fare la femminista a tempo perso, rimproverando le mie amiche che facevano le capriole pur di accontentare i loro fidanzati. E io ero il cagnolino che tornava scodinzolando ogni volta che il padrone faceva un fischio.

    Schifo. Schifo. Schifo.

    Quella storia andava avanti da cinque anni, senza che io riuscissi a fare qualcosa.

    Qualsiasi cosa.

    Quando provavo a cercare aria nuova per i miei polmoni annegati, Samuele trovava sempre il modo di riportarmi da lui. Razionalmente sapevo di essere solo una debole ipocrita e stupida, ma c’era qualcosa che proprio non funzionava in me. Qualcosa che mi faceva agire al di là della mia stessa razionalità.

    «Quindi cosa si è inventato questa volta per ricondurti all’ovile?»

    Feci una smorfia, tutt’altro che propensa a elencare a voce alta le mie vergogne. Qualche mese prima, quando Niccolò aveva festeggiato il suo ventinovesimo compleanno, avevo avuto la brillante idea di ubriacarmi, scoprendo solo in un secondo momento di essere una di quelle che, in piena fase di sbronza, diventano lacrimose e lagnose. Così, nell’arco di una notte avevo raccontato a Niccolò e a un numero imprecisato di suoi amici tutte le mie disavventure amorose.

    E Niccolò aveva deciso di scegliermi come causa pro bono. In altre parole, ero il suo caso umano preferito. Da quel giorno non aveva perso occasione per farmi lunghe filippiche sul perché il rapporto con Samuele non era sano e io dovessi scappare a gambe levate il più in fretta possibile, magari lasciando una scia del sangue di Samuele lungo la strada.

    Tutte cose che, per inciso, io sapevo alla perfezione, ma che non riuscivo a mettere in atto.

    «Nessun sotterfugio. Ha detto che dovevamo parlare.»

    «Sì, certo. Come no.»

    «Guarda che è vero. Abbiamo parlato.» Dopo. Ero andata a casa sua trafelata. Una parte di me ancora si illudeva che quel bastardo finalmente si decidesse a dirmi che la sua vita senza di me non aveva senso. Poi, però, lui aveva aperto la porta con i capelli umidi di doccia e uno sguardo pieno di tenerezza. Così le parole erano rimaste in stand-by mentre i vestiti si erano ammucchiati a terra alla velocità della luce. Dopo, però, avevamo parlato. Mentre ero ancora sdraiata nuda nel suo letto, con le sue dita affusolate che giocavano con le ciocche disordinate dei miei capelli, Samuele mi aveva detto di aver riflettuto e capito che per noi non c’era un futuro. Aveva detto che amava passare del tempo con me, che io avevo il potere di rasserenarlo e che mezz’ora con me era molto più proficua di un paio d’ore da qualsiasi psicologo, ma tutto questo non gli bastava. Aveva detto che non sentiva la scintilla e che … beh, che a quanto pare aveva fatto esplodere un vero e proprio incendio con una ragazza che aveva conosciuto nell’azienda di suo padre, dove era entrato a lavorare subito dopo la laurea in Letteratura. Laurea che a me era valsa un lavoro part-time in una libreria, e a lui quella di addetto stampa di una delle case editrici più famose del paese. Tanto per sottolineare quanto la vita sia ingiusta.

    In altre parole, mi aveva detto di non aver più bisogno dei miei servizi e che il posto vacante era stato assegnato ad altri.

    Io mi ero alzata di scatto, allontanandomi dal suo corpo come se fosse incandescente. Avevo eroicamente trattenuto le lacrime, mentre lo mandavo a fanculo e poi, raccolti e indossati i vestiti con un minimo di dignità, me ne ero andata, facendo ben attenzione a spaccargli almeno uno dei suoi tanti e costosi souvenir che lo riempivano d’orgoglio.

    «Che verme!» sbottò Niccolò, quando ebbi finito di raccontargli tutta la storiella.

    «Sono d’accordo,» annuii con convinzione.

    «Almeno così te lo sei tolto dai piedi,» disse saggiamente il mio amico, per poi aggiungere, con più dolcezza: «Lo so che deve far male da morire, ma vedrai che con il senno di poi ti accorgerai che questa bastardata era la cosa di cui avevi bisogno per uscire dal tunnel.»

    Il problema era che io a quel tunnel ci ero profondamente affezionata.

    Ed erano pensieri come questi a guastarmi l’umore, perché tutto sommato ero ancora lì a struggermi per un idiota che non valeva niente. Il che la diceva lunga su quanto pensassi di valere io.

    «Al momento tutto quello che mi ci vuole è una bella pausa. Non voglio sentir parlare di storie d’amore, di innamoramenti e di stupidi e vissero felici e contenti. Ho chiuso con tutte queste stronzate da romanzetto rosa.»

    «Che sciocchezza,» proruppe una voce dal fondo della libreria, facendo sobbalzare me e il mio amico. Una signora di un’età imprecisata emerse dagli scaffali dedicati alla poesia. Tra le mani raggrinzite stringeva una raccolta di scritti di Alda Merini e un volume di cui non riuscivo a leggere il titolo, e sorrideva come se conoscesse la ricetta segreta della felicità. «Signorina, non le ha mai detto nessuno che l’amore non si prende mai una vacanza?»

    2

    UN MAGICO NATALE

    «Gli leggerò delle favole meravigliose

    Dove anche l’impossibile diventa la realtà […]

    Storie di eroi che non han paura del domani

    E con loro lui ritroverà la forza di lottare

    Quando si troverà questa forza tra le mani

    Un nuovo mondo scoprirà.»


    Nell’arco di qualche secondo sulle mie guance erano maturate due belle mele rosse. Non mi piaceva che degli sconosciuti ascoltassero i fatti miei; specie se quei fatti avevano il potere di farmi sentire un’emerita imbecille.

    «Ci scusi,» intervenne Niccolò, allarmato dalla presenza di una cliente che i suoi poteri da super-commesso dell’anno non erano riusciti a scovare. Sembrava imbarazzato più per la propria mancanza di professionalità che per le confidenze che quella sconosciuta aveva ascoltato.

    Quando si dice questione di priorità.

    «No, siete voi a dover scusare me,» rispose la donna. Aveva i capelli spumosi di un bianco argentato, il blush fin troppo rosa a ravvivarle le guance e un sorriso affabile. Sembrava una nonna appena uscita da una favola per bambine. «Non volevo origliare. Ero laggiù,» e con un ditino sottile indicò l’angolo nascosto tra vari scaffali alti e pieni, «a scegliere qualche bel libro di poesia, quando ho sentito che parlavate. Ho capito che era una conversazione intima e mi vergognavo a intervenire… Solo che poi…» I suoi occhi grigi si posarono su di me. «Signorina, lei non pensa davvero quello che ha appena detto, giusto? Riguardo al fatto di lasciar perdere l’amore, no?»

    Mi sembrava alquanto surreale mettermi a parlare della mia vita privata con una cliente, dovendo persino giustificare le mie scelte. Ma quello scricciolo di donna aveva uno sguardo tanto triste che proprio non me la sentii di confermare le mie intenzioni di chiudere a doppia mandata il discorso sui sentimenti amorosi.

    «Non faccia troppo caso a me, signora,» dissi, scacciando l’aria con un gesto indolente della mano. «Ho solo avuto una brutta giornata.»

    Lei annuì. «Quel Samuele non è proprio un gentiluomo, se vuol avere la mia opinione.»

    Che la volessi o meno era indifferente, dal momento che me l’aveva già data. Io mi sforzai di sorridere, chiedendomi distrattamente in che momento quella giornata fosse diventata un racconto di Lynch. Quasi mi aspettavo che la dolce vecchina tirasse fuori dalla borsetta una calibro 44, annunciando di essere un angelo sterminatore, incaricato di far fuori tutti coloro che non volevano credere all’Amore.

    «Però non sono tutti così, sa?»

    «Me lo auguro,» risposi, mostrando più entusiasmo di quello che provassi in realtà. Ero fermamente convinta che non mi avrebbe fatto male lasciar perdere sentimentalismi di ogni genere per un bel po’. Cinque anni di Samuele erano difficili da lasciarsi alle spalle. Ero talmente intossicata che forse non sarei guarita. Mai.

    «Glielo assicuro,» disse lei avvicinandosi alla cassa e appoggiando gli acquisti sul bancone, prima di mettere la sua mano sulla mia, chiusa sul mouse. «Un giorno incontrerà un uomo buono, divertente…»

    «Che mi farà sentire unica,» conclusi per lei.

    Scosse il capo, come se avessi detto una cosa disgustosa. «Quando incontrerà l’uomo giusto non sarà lui a farla sentire unica. Ma la sua presenza la spingerà a migliorare se stessa. Sarà lei che vorrà diventare unica per lui. Non è un cambiamento che gli altri possono dettarci. Deve partire da noi.»

    Non sapendo bene come rispondere a quell’augurio che sembrava essere spuntato fuori da qualche romanzo sentimentale, mi limitai ad abbozzare un sorriso, mentre cercavo con lo sguardo l’appoggio di Niccolò, che sembrava solo molto divertito.

    «Grazie,» dissi alla fine, quando compresi che il mio collega non sarebbe venuto in alcun modo in mio aiuto. «Prende questi?»

    Lei annuì, indirizzandomi continui sorrisi pieni di incoraggiamento. Io mi limitai a farle la ricevuta e a renderle il resto sul pezzo da cinquanta euro che mi aveva dato. Una volta concluso l’affare, lei fece per andarsene e io provai a tirare un sospiro di sollievo. La donna però parve recuperare all’improvviso un pensiero e tornò indietro.

    «Scusi, lo so che è davvero… surreale. Però…» mise una mano nel sacchetto di plastica in cui avevo messo i suoi acquisti e tirò fuori il romanzo a cui non avevo prestato grande attenzione. Me lo porse con la serietà con cui si maneggia un oggetto sacro. «Non mi prenda per una pazza, ma vorrei davvero che leggesse questo libro.»

    «Come, scusi?»

    «Lo prenda, per favore. Ho letto tutti i libri di questo scrittore e trovo che… Mi creda, questo libro la renderà felice, almeno per un po’.»

    Alzai le braccia, come se avessi paura di potermi bruciare o disintegrare al solo tocco. «Ma no! Non si preoccupi! Siamo pieni di libri qui, posso benissimo…»

    Non mi lasciò il tempo di rispondere. «Lo so, ma… lo consideri il regalo da una cliente affezionata. Per favore.»

    Sembrava così desiderosa che accettassi il suo dono che alla lunga non riuscii a negarle quella piccola carineria. Presi il libro tra le mani e la ringraziai per l’immensa gentilezza. Mi offrii persino di ripagarle il prezzo di copertina, perché mi sembrava proprio brutto che l’anziana signora avesse pagato per un libro che poi avrei letto io e non lei. La mia offerta, però, rischiò di offenderla. Rifiutò in modo categorico il mio denaro e mi disse che l’unica cosa che voleva era far tornare un po’ di speranza in un cuore tanto giovane da non meritare di essere già spezzato.

    Non so perché, ma quella frase mi mise un velo di tristezza addosso, che non aveva niente a che vedere con ciò che era accaduto con Samuele. Era qualcosa che non riguardava me, ma la donna che avevo davanti. Perciò la ringraziai con calore, augurandole tutto il meglio dalla vita e promettendole che avrei cominciato al più presto il libro e che, se avessi avuto modo di incontrarla di nuovo, le avrei detto che cosa ne pensavo. Solo a quel punto quella sconosciuta si sentì abbastanza soddisfatta da abbandonare il negozio, tra il mio stupore e lo sguardo incredulo di Niccolò.


    Erano le tre e diciassette del mattino quando finalmente mi decisi a chiudere il libro.

    Tornata a casa dopo il mio turno, dopo aver inveito contro metà degli automobilisti romani che avevano rischiato di farmi morire in qualche brutale incidente stradale, avevo ignorato il mio lettore DVD e mi ero messa sotto le coperte, curiosa di sapere perché la cliente che me lo aveva regalato fosse tanto convinta che un semplice romanzo avrebbe potuto farmi tornare il buonumore dopo la storia che aveva sentito. Avevo dato istruzioni precise alla mia famiglia di non disturbarmi; mia madre non aveva perso occasione per dirmi che quella casa non era un albergo e che un aiuto da parte mia sarebbe stata cosa gradita. Mio padre si era ritirato ad ascoltare il suo telegiornale preferito e Nadia, mia sorella minore, era tutta presa a prepararsi per la serata con le amiche che la aspettava, così mamma aveva perso ogni possibilità di trovare un alleato e aveva lasciato che mi ritirassi in camera mia, dove la luce dell’abat-jour illuminava le pagine che mi avevano rapito nell’arco di cinque nanosecondi.

    Fin da piccola sono sempre stata una grande lettrice, una di quelle persone un po’ maniache che sentono sempre la necessità di nascondere un libro nella borsa. Al mio primo appuntamento con Samuele, quando ancora pensavo che un lieto fine fosse possibile, avevo fatto entrare a forza la mia copia di Peter Pan nella pochette. Dall’infanzia all’adolescenza, fino a quei ventisette anni che mi pesavano addosso come una zavorra, la mia vita era sempre stata costellata da libri. Per questo mi ritenevo abbastanza informata sul mercato editoriale; cosa che si era acuita da quando avevo cominciato a lavorare in libreria, e me la dovevo giostrare tra autori più venduti, resi da restituire alle case editrici e novità da esporre sulle mensole. Eppure, nonostante tutto, il romanzo che mi era stato regalato non rientrava tra le mie conoscenze.

    Si intitolava L’ombrello che non voleva appartenere a nessuno. Era la storia di Gisele, una ragazza parigina che durante un temporale trovava, poco fuori dall’Opéra Garnier, un vecchio ombrello malridotto che, tuttavia, le offriva il riparo di cui aveva bisogno per raggiungere la metro e arrivare a casa senza rischiare una broncopolmonite. Gisele era una ragazza allegra, vagamente svampita, innamorata pazza dei vecchi film d’amore e decisa a ritagliarsi una storia da favola, come quelle che inseguiva sempre nelle pellicole che più amava. Il libro parlava di questa ragazza che non si arrendeva mai, che continuava a cercare l’amore nonostante tutte le delusioni collezionate negli anni, che si muoveva tra le vie di Parigi come se le appartenessero e che non si stancava di essere ottimista. Finché non incontrava Gilles, un uomo perfetto sotto qualsiasi punto di vista, che si rivelava essere, alla fine, il proprietario di quell’ombrello che, per tutto il romanzo, era stato una specie di portafortuna per la ragazza.

    Sebbene la trama non fosse particolarmente originale – lei incontra un lui mozzafiato e i due si innamorano per sempre – dovevo riconoscere che quel libro aveva qualcosa di magico nelle sue pagine. Non solo per il ritmo con cui gli eventi erano cadenzati, ma soprattutto per la capacità dello scrittore di creare scenari che, inevitabilmente, finivano con il mettere di buonumore chi leggeva. Con le parole l’autore riusciva a creare un mondo tangibile e concreto e ti convinceva – senza frasi fatte e senza sotterfugi narrativi – che l’impossibile diventava possibile quando una persona aveva la forza e la voglia di crederci. Mi innamorai di quello stile sin da subito, un po’ perché mi ricordava quello di Nicolas Barreau, che era il mio autore preferito del momento, un po’ perché sembrava davvero che quel libro fosse stato scritto per me.

    Commossa e un filo innamorata, andai a cercare sul retro del libro una fotografia dell’autore e rimasi vagamente delusa quando vidi che non c’era. Riuscii però a trovare qualche nota bibliografica, che divorai così velocemente da dover leggere il tutto una seconda volta, per afferrare il senso delle parole. Étienne Bennett c’era scritto, "nato da padre americano e madre francese, ha sempre vissuto a Parigi. Riservato e sfuggente, non ama apparire in pubblico o essere fotografato. Scrive nella tranquillità di una mansarda, in compagnia del suo cane Lulù e del Paris Saint-Germain, contro cui ogni tanto impreca in tutte le lingue (ben quattro!) che conosce. L’ombrello che non voleva appartenere a nessuno è il suo terzo romanzo."

    Nell’arco di un paio di secondi mi immaginai un dolcissimo signore dall’accento francese che mi consolava dopo l’ennesima delusione amorosa. Quell’uomo avrebbe capito tutta la mia storia con Samuele e, ne ero sicura, mi avrebbe aiutato a uscirne, una volta per tutte, con qualche strano incantesimo d’inchiostro. Sarebbe stato come una versione rivista e corretta di Babbo Natale. Tuttavia, prima che potessi perdermi nelle mie pericolose fantasie, tornai con i piedi per terra, e mi concentrai sulla realtà.

    Di certo non mi serviva uno scrittore per uscire dalla mia (non) relazione con Samuele.

    Ci aveva pensato lui stesso, innamorandosi di un’altra, a darmi un bel servito epico. Se dopo quello ancora perdevo tempo a struggermi per lui, il problema non era Samuele, ma ero io.

    Posai il libro sul comodino accanto al mio letto e, dopo essermi accertata di aver messo la sveglia per il giorno dopo, spensi la luce, con la speranza che il mio cervello seguisse l’esempio.


    «Posso chiedere cosa stai facendo?»

    Niccolò mi guardava perplesso, mentre io me ne stavo in bilico su una vecchia scaletta, nel tentativo di raggiungere uno degli scaffali più alti della libreria. Quel giorno ero arrivata con un po’ di anticipo rispetto al mio turno pomeridiano. Ufficialmente, durante le festività natalizie, aprivamo alle tre del pomeriggio; io ero volata alla FairyDust subito dopo pranzo.

    «Sto cercando dei libri,» risposi tra i denti, nello sforzo di mantenere l’equilibrio.

    «Direi che sei nel posto giusto.»

    «Stai attento. La troppa simpatia può essere nociva,» biascicai, con qualche difficoltà. Non essendo mai stata una fanatica di una qualsivoglia attività sportiva, anche il solo arrampicarmi e allungarmi per prendere qualcosa poteva rappresentare un attentato alla funzionalità di tutto ciò che riguardava muscoli, tendini e articolazioni varie.

    Niccolò, naturalmente, ignorò la mia risposta a denti stretti.

    «Quali stai cercando?» chiese invece, sempre con l’ombra di una risata sulle labbra.

    «Quelli di Étienne Bennett.»

    «Di chi?»

    In cuor mio mi dissi che era davvero strano che né io né Niccolò avessimo mai sentito nominare quell’autore che, di colpo, sembrava essere l’unico in grado di scrivere parole adatte per essere lette dai miei occhi.

    «Étienne Bennett,» insistei. «Il libro che mi ha detto ieri quella signora…»

    Niccolò rise. «Quindi aveva ragione? Il libro ti ha reso felice?»

    Ponderai per un minuto sulla domanda. Il disastro con Samuele aveva davvero rischiato di farmi inghiottire da una nera depressione, dalla quale però ero fuggita grazie all’aiuto di un libro arrivato quasi per caso nelle mie mani. Certo, non si poteva dire che fossi felice, questo no. Però…

    «Diciamo che è stato un bel diversivo,» conclusi alla fine. «Non mi ha fatto pensare, il che è un gran bel merito, lascia che te lo dica.»

    «Non posso proprio contraddirti.»

    Quando cominciavo a disperare, la mia mano si poggiò su un piccolo libricino di non più di centocinquanta pagine ben rilegate, che portava il nome dello scrittore sul dorso.

    «Non è possibile che avessimo questi libri in negozio e non ne sapessimo niente,» commentai, una volta tornata al sicuro con i piedi per terra e lontana dal rischio di rompermi l’osso del collo.

    Niccolò gettò un’occhiata distratta al libro e si strinse nelle spalle.

    «Non mi arrogo il vanto di conoscere tutto quello che abbiamo qui dentro.»

    «Dovresti poterlo fare,» lo redarguii. «Dovremmo essere in grado di dire a ogni cliente esattamente tutto quello che abbiamo a disposizione.»

    «Grazie al cielo nessuno è mai venuto a chiedere niente di questo scrittore.»

    Mentre mettevo in cassa le banconote sufficienti a pagare il conto di quel libro, mi capitò di pensare a Julian, il protagonista di L’ombra del vento. Uno scrittore che aveva regalato al mondo una storia andata persa nei meandri dell’editoria, capace però di irretire il cuore e la fantasia del piccolo Daniel, il protagonista.

    «È tutto molto strano,» commentai a mezza bocca. C’era qualcosa in Étienne Bennett che invogliava la mia curiosità. Anche il fatto che io lo avessi conosciuto grazie a una situazione tanto fuori dall’ordinario rientrava in un quadro generale più ampio di cui, però, mi sfuggivano i dettagli.

    «Sarà il Natale che si avvicina,» rispose Niccolò. Poi, dopo essersi reso conto di ciò che aveva appena detto, si portò una mano alla

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1