Un titolo alla vita
Di Pamela Golin
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Anteprima del libro
Un titolo alla vita - Pamela Golin
vita
Un titolo alla vita
di Pamela Golin
Prologo
Una luce bianca così accecante non l’aveva mai vista. Un brusio gli solleticava le orecchie, ma non riusciva a riconoscere le voci.
Percepiva solo che era in movimento, che doveva essere successo qualcosa. Non riusciva a sentire il suo corpo, non sentiva neppure dolore, non ricordava gli ultimi attimi. Aveva solo sprazzi di visioni, che al momento non collimavano e rimanevano confuse come polvere di caffè sul fondo di una tazzina.
Aveva un sapore ferroso in bocca, aveva sete, una gran sete, ma non riusciva ad aprire bocca, non riusciva ad articolare nessun suono.
Poi cadde in un sonno profondo e bellissimo, gli pareva di essere su un altro pianeta.
Venne risvegliato dalla voce di sua madre. Come poteva essere li?
Forse stava correndo e durante la gara era caduto.
Pero’ la sentiva piangere, cosa era accaduto di così grave!? Quanto tempo era passato, dove si trovava?
Qualcuno gli stava passando sulle labbra qualcosa di fresco, era una sensazione bellissima, aveva cosi’ tanta sete.
Infine ripiombo’ nel sogno, si trovava in un prato pieno di luce e fiori, sentiva solo beatitudine, il suo corpo leggero, libero da costrizioni e una luce cosi’ calda illuminava tutto come un grande caleidoscopio. Sentiva il caldo abbraccio del sole sulla pelle ed un profumo cosi’ fresco nell’aria.
Una voce gli arrivava da non molto lontano questa volta, era un uomo che gli parlava in un’altra lingua, ma lui lo capiva.
Forse era una lingua che conosceva, si disse nel sogno. Era la voce di una ragazzo che gli diceva di essere forte, di non mollare mai, perché la vita è bella e deve essere vissuta. Lo stava incoraggiando a reagire, poi d’un tratto anche lui si mise a piangere e gli strinse la mano.
Le sue lacrime lo bagnavano, poteva percepirle come piccole gocce sulla pelle.
Gli chiese scusa mille volte e gli disse che avrebbe fatto tutto il possibile per lui e che sarebbe tornato.
Cerco’ di stringere la mano di quel ragazzo cosi’ triste, ma lui era già andato via.
Il suo corpo si stava risvegliando, ora avvertiva un certo torpore alle mani, ai piedi.
La luce era piu’ fioca, non sentiva piu’ il profumo di fiori, ma al suo posto un olezzo non tanto gradevole, come di disinfettante…..
In un lampo gli caddero’ addosso le ultime ore vissute. Apri’ gli occhi. Era in ospedale.
Aveva sempre sognato di andare alle Olimpiadi.
Si ricordava ancora la prima pista di atletica su cui si era allenato e tutte le serate passate a girarci intorno misurando diverse distanze. Quando era piccolo il padre lo aveva portato dal signor Gotti una sera di settembre per la prima volta all’età di otto anni, aveva il piede destro un po’ piatto ed il dottore lo aveva esortato a correggere la sua camminata, provando magari con un sport come l’atletica. Aveva parlato un po’ con l’allenatore, gli aveva spiegato il problema del figlio e, poi lo aveva lasciato nelle sue mani.
Non gli era piaciuta l’idea all’inizio, il suo passatempo preferito era sempre stato quello di divorare libri, non certo quello di correre senza una meta precisa. La trovava una cosa assai stupida.
Correre verso un traguardo, a che scopo? Si domandava.
Il suo maestro era intransigente, rigido, ma un uomo buono. Ancora si ricordava una frase che gli disse un giorno: Arriva sempre alla fine, non lasciare le cose incompiute
. Glielo disse una sera, alla fine di un 400 che lui non aveva terminato, perché stanco.
Da quel momento in poi, nulla più rimase incompiuto nella sua vita.
Ci sono frasi, parole dette da persone conosciute e non, che in un particolare momento della nostra vita ci colpiscono, ci influenzano per il resto della nostra esistenza.
Ora era il tempo di partire, chi mai lo avrebbe detto. Il piede destro non si era mai messo in carreggiata veramente, ma era migliorato.
In compenso Marco aveva scoperto di essere un bravo corridore e che l’atletica ti dava il tempo per pensare.
I libri erano ancora una sua passione, ma il tempo dedicato agli allenamenti era comunque uno stare in pace con se stessi.
Mentre correva si sentiva libero, non pensava a correre bene ad arrivare primo, pensava ad altro, tutt’altro: ai suoi libri, al padre.
Forse questo era il suo segreto.
Aveva compagni di squadra assai competitivi, che si sarebbero tagliati un braccio pur di scoprire come riusciva a rimanere impassibile davanti allo stress di eventi epici
. Anche ora li vedeva con cuffie in testa e musica a palla, nel tentativo di dimenticare le imminenti Olimpiadi.
Rio, il Brasile, un