Ricatto Ai Santi
Di RoDeGA
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Info su questo ebook
La vita intesse strane ragnatele! Un passato che torna, un affetto che prevarica le divisioni religiose, le differenze culturali di due vite a confronto. Tutto un mondo che si snoda all'ombra protettiva della Città Eterna che sfuma nei sentimenti forti dei protagonisti di questa vicenda.
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Anteprima del libro
Ricatto Ai Santi - RoDeGA
Farm
CAPITOLO UNO
Era nato circa quaranta anni prima. In piena notte. Senza dolore e senza ricordi di vite precedenti. Non vedente e sporco. Privo di sensazioni particolari.
Non é vero che si passa dal grembo materno alla realtà circostante con un trauma difficile da superare.
Storie!
Il viso che lo fissava nello specchio aveva, sì, subìto traumi, ma dopo, non alla nascita.
Gli occhi neri e cerchiati lo fissavano da un pezzo.
Di chi era quel viso?
Idiota! Sei tu! Guardati meglio!
si disse.
Il mento, lungo e pronunciato, aveva l'ombra della barba non rasata più scura del resto del viso.
Prima o poi si sarebbe dovuto radere. Meglio dopo che prima!
Nascere! Chi ha chiesto di nascere? Qualcuno te lo ha chiesto?
Piegò le labbra in una smorfia. Aveva labbra carnose e bocca grande con denti sani ma ingialliti.
Ancora i miei!
rifletté soddisfatto. Dopo tutto ciò che aveva passato!
Espulse la lingua dalla caverna della gola. Lo strato cremoso, denso e bianco, che ricopriva quel pezzo di carne pendulo gli sembrò latte cagliato. Ingoiò tutto, latte e carne. Con la bocca chiusa e gli occhi fissi si riconobbe più facilmente.
Le prime sensazioni che aveva provato?
Ricordava qualcosa.
Caldo, anzi tepore. Ecco, la sensazione più volte provata, era stata quella di tepore, dentro e fuori di sé, che lo aveva cullato a lungo.
Il pezzo di vetro che rifletteva il suo viso era soltanto una scheggia infranta. Bastava spostare di poco la testa di lato perché una parte del viso si riflettesse a spicchi.
Manca l'orecchio!
pensò. Il naso era al centro, non l'avrebbe mai perso. Troppo spazio da percorrere per frantumare l’immagine di metà viso. Troppo sforzo per muoversi!
Poi al tepore si erano aggiunti i suoni, non tutti uguali, sempre sconosciuti, e fastidiosi. Aveva sempre odiato i rumori.
Aggrottò la fronte ed uno strato di ragnatele gli si disegnò sulla pelle scura del viso. Il naso, magro ed appuntito, sporse in avanti con maggiore importanza rendendo più tagliente il profilo.
Più tardi, al tepore e ai suoni, si erano aggiunte le ombre, macchie scure senza contorni né colori.
Fissò i capelli, scuri, sporchi e disordinati. Avrebbe dovuto decidersi. Come per la barba. Si ripromise di farlo, prima o poi. Di tagliare tutto. Meglio poi che prima!
Sempre quel guardare verso l'alto! O di fianco! Un tempo interminabile. Finché aveva creduto che sarebbe stato sempre così: guardare verso l'alto o di fianco.
Il muro, intorno alla scheggia dello specchio, grondava anni di abbandono e di sporco.
Poi era venuto il tempo dei perché, quindi quello dei desideri, ed infine quello delle delusioni.
Anche il silenzio sapeva di nulla. Gli angoli di quella stanza squadravano il niente.
Il dolore era stato l'ultimo a sopraggiungere, per questo il più crudele. La sua durata era perenne. Era ancora lì, dentro i lui, ramificato nelle cellule più nascoste del suo essere.
Allungò il braccio asciutto ma muscoloso e staccò dal muro il pezzo di vetro. Non voleva più guardarsi. Depositò la verità nel lavabo macchiato e si girò a contemplare ciò che restava del suo mondo: una stanza dimenticata, dei mobili abbandonati, un odore stagnante di muffa misto a quello di essere umano.
Non avrebbe voluto essere lì.
Pesantemente si trascinò verso la branda confusa nella penombra dell’angolo vicino alla finestra. Agevolando la curva della schiena ripiegò la figura alta e snella stancamente sul letto. Infastidite, le ossa scricchiolarono nelle giunture, in ogni anfratto del corpo dolorante.
Si abbandonò senza forze, cercando di rilassare ogni muscolo e di dissetare la mente alla fonte di un sonno agitato.
Fissò il soffitto. Era un buco nero.
A piccoli passi pruriginosi decine di formiche cominciarono a salirgli lungo la gamba destra. Si toccò sopra il ginocchio, alla ricerca della cicatrice, l'ennesima, per fermarle, ma si procurò una fitta dolorosa alla base del cranio. Rinunciò.
Maledette ferite!
imprecò tra sé. Si svegliano sempre tutte assieme!
Tenne ostinatamente gli occhi chiusi e rimase immobile. Le formiche si arrestarono e la lama rovente alla base del cranio si dissolse in un bagliore di luce.
Va meglio!
pensò soddisfatto.
L’albergo in cui si trovava era di infimo ordine.
Il cattivo odore della stanza suggeriva l’idea di qualcosa di dolciastro nel quale era immerso ed il sibilo del silenzio sembrava risuonare monotono nel profondo delle sue orecchie. Un’ansia mordente allontanava la sua mente dai pensieri logici, allungandosi ed accorciandosi, secondo un ritmo disuguale, cadenzato da immagini improvvise e caotiche di ricordi.
Fece il tentativo di dare ordine alla sua mente. Cominciò con l'incollare una voce ad un viso e dei colori ad un'immagine, poi impresse a tutta la costruzione mentale un movimento e si limitò ad osservare.
Il ritmo aumentò ed altri visi, voci e colori entrarono ed uscirono dalla scena, con sempre maggiore rapidità.
Infine arrivarono i suoni. Quelli non li avrebbe voluti, ma fecero da soli.
Improvvisamente non controllò più la situazione, tutto divenne un furioso incalzare di immagini, suoni e colori, che, come un’immensa cascata gli si rovesciarono addosso con un frastuono terrificante.
Annegava e mentre boccheggiava alla ricerca disperata di salvezza, la rivide: giovane, bionda ed esile; devastata e tradita dalla vita; sola nell'orrore della sua esperienza; muta nell'ultimo urlo strozzato nella gola.
Nel buio della sua impotenza schizzò a sedere sulla branda, madido di sudore, tremante, con gli occhi sbarrati su un’oscurità piena di fantasmi.
CAPITOLO DUE
Il locale era gremito di gente: poca luce, molti suoni, pesante odore d’umanità ed appannata indifferenza.
Inutile soffermarsi sui visi, anonimi di uomini e donne, di vecchi e giovani: ad ognuno la sua vita e per ogni vita tante storie; se le storie s’incrociavano, i visi si componevano.
Cercò di scivolare tra i corpi senza farsi notare. Raggiunse il bancone e si aggrappò al bordo come ad un'ancora di salvezza. Sovrastava gli altri di tutta la testa. L'uomo dietro il bancone lo notò per questo.
L’aveva raggiunto. Le parole gli erano uscite da una bocca enorme su un viso enorme, tutto in lui era esagerato.
La montagna umana lo scrutò minuziosamente.
L'altro lasciò fare, impassibile e senza fretta. Intorno continuava l'indifferenza.
L'enormità decise che c'era qualcosa di poco comune nell'aspetto dell'altro.
<...ed invece sei pagato per dare risposte> terminò l'uomo alto come se non avesse sentito.
L'enormità si irritò. Rifletté se valesse la pena di dimostrare a quell'uomo alto e magro di fronte a sé cosa fosse il rispetto, oppure era solo il caso di lasciarlo lì, attaccato al bancone, senza neppure un goccio d'alcool e di considerazione.
Non sentì subito il dolore. Guardò sorpreso la propria mano poi l'uomo di fronte a sé, impassibile. Cominciò a capire quando il dolore forte prese a salirgli lungo il braccio fino alla spalla, come una lama rovente che gli scarnificava l’osso. Realizzò, allora, che la posizione del dito indice della sua mano destra era assolutamente nuova ed innaturale: giaceva di traverso, sulle altre dita, come un oggetto caduto lì per caso. Non si era accorto di come l'uomo alto avesse fatto, non ricordava neppure di essere stato toccato.
Digrignò i denti afferrandosi il polso con l'altra mano. Il dolore cresceva rapidamente.
Il Banditore era seduto dietro la scrivania, ombra nell'ombra.
L’uomo alto rimase in silenzio, in piedi.
Tacque.
L'ombra sembrò diventare accomodante.
Il Banditore sogghignò.
Rise sguaiatamente.
Il loro silenzio si mescolò a quello della stanza. I rumori esterni non penetravano nell'ufficio.
L'uomo alto, le mani affondate nel giubbotto di pelle, si lasciò esaminare.
Sembrava divertito, a suo modo.
L'altro tacque. L'uomo dietro la scrivania si mosse leggermente sulla poltrona, aprendo dei cassetti. Si sporse in avanti e la testa calva rifletté la debole luce della lampadina sulla sua destra.
L'altro tacque.
Lo lasciò, seduto alla scrivania, ombra confusa nelle ombre dell’ufficio.
CAPITOLO TRE
Era in piedi, gli dava le spalle, affacciato all'ampia vetrata che, dall'ultimo piano del grattacielo altissimo, dominava l'intera città.
L'altro era seduto ad un enorme tavolo da riunioni che riempiva due terzi del grande ufficio. Lo guardava stagliarsi contro la vetrata, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e le spalle leggermente curve.
L'altro non replicò. L’analisi fatta in poche parole dal suo Capo aveva una logica. Poteva avere ragione. Del resto l’aveva la maggior parte delle volte.
L'altro si voltò. Gli occhi intelligenti ebbero un guizzo. Raddrizzò le spalle e si avvicinò al tavolo.
L'uomo seduto conosceva bene quei sintomi: il suo capo aveva deciso la linea di condotta che avrebbe seguito. Da quel momento in poi si sarebbe trattato di affinare i piani e preparare le armi.
Si cominciava di nuovo. Sospirò impercettibilmente e si preparò ad affrontare un nuovo periodo molto faticoso. Alla fine avrebbe dovuto smettere quella vita, ma quando?
"Si diverte, anche" pensò tra sé l’altro preoccupato. Il periodo si annunciava più difficile del solito.
"Ha sempre delle idee straordinarie" pensò l'altro. Ne era affascinato.
Si era seduto, sdraiato quasi, in una poltroncina. Sembrava sereno. Poggiò le gambe sul lungo tavolo e le accavallò.
"Deve essere un'idea inconsueta" pensò l'altro.
Tacque. L’altro attese. Lo conosceva bene. Sapeva di non doverlo forzare. Questa volta aveva voglia di parlare del suo progetto e quindi sarebbe stato lui stesso a proseguire.
Lo fece.
Tacque, sorpreso egli stesso di quanto conoscesse già il suo avversario.
Spencer lesse velocemente le schede. Conosceva a memoria i dati dei soggetti a maggior rischio. Ebbe delle conferme alle sue ipotesi.