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Prima di tutto un uomo
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E-book359 pagine6 ore

Prima di tutto un uomo

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Info su questo ebook

La narrazione di una storia vera contiene sempre in sé riserve e limiti di tipo psicologico e morale. Ma se protagonista è la famiglia nella quale si plasma e si forma uno dei maggiori scrittori del novecento italiano e non solo, allora la storia assume un significato che va oltre il racconto stesso. In un microcosmo intricato, denso di storie che affondano le radici in un passato lontano, nasce e muove i primi passi Saverio Strati. Un’umanità inquieta, mossa da passioni forti e sentimenti a volte struggenti è il tessuto familiare dal quale il giovanissimo Saverio assorbe gli elementi costitutivi della propria personalità, che lo porterà lontano, in ogni senso, e gli farà scalare le vette del successo. Ma  gli intrecci, talvolta asfissianti, i sentimenti, le azioni, le relazioni, i conflitti continueranno ad essere  la strada sulla quale non smetterà di essere in cammino prima di tutto l’uomo.

 
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2017
ISBN9788868226008
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    Anteprima del libro

    Prima di tutto un uomo - Palma Comandè

    Palma Comandè

    Prima di tutto un uomo

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2017

    Isbn: 978-88-6822-600-8

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Siti internet: www.pellegrinieditore.com

    www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Ai miei zii: Saverio e Teresa.

    A mia madre.

    … e a zio Giovanni.

    Presentazione

    Una rosa per Saverio Strati

    Saverio Strati è, come è noto, uno dei più grandi scrittori meridionali. I suoi personaggi, assieme a quelli di Corrado Alvaro, Mario La Cava, Leonida Repaci, Raoul Maria De Angelis, Fortunato Seminara, per quanto riguarda la Calabria, Leonardo Sciascia, Giuseppe Bonaviri, Gesualdo Bufalino, sino ad Andrea Camilleri, che ha venduto un milione di copie delle sue opere (che è un record assoluto in tempo di crisi editoriale e di fortissima resistenza alla lettura), per la Sicilia, Francesco Jovine, Raffaele Nigro per la Basilicata, Ignazio Silone per l’Abruzzo, per citare soltanto i più significativi, rendono in maniera estremamente efficace una cultura, quella tradizionale, nella quale sono immersi, e che ispira loro mete da raggiungere e azioni ritenute, a torto o a ragione, più adeguate a tale scopo. Viene così delineato uno spazio cupo, percorso da passioni violente, d’azioni spesso dall’esito tragico, in cui alle esistenze viene di fatto negata la possibilità di un libero sviluppo, ché tutto viene bruciato, quasi offerta sacrificale al dio della ricchezza, anche se ritenuta tale solo nell’ambito ristretto del paese e sarebbe invece poca cosa su uno scenario più vasto. A questo mondo, con particolare riferimento a Sant’Agata del Bianco, suo paese natale, ha dedicato per decenni la sua dolente attenzione, Saverio Strati, riportandolo, con risultati particolarmente apprezzabili, in opere che riscossero, al loro apparire, un successo sempre più vasto. Tibi e Tascia, Noi lazzaroni, Il selvaggio di Santa Venere descrivono la fatica del lavoro del bracciante, del muratore, che si sfianca dal primo mattino al tramonto per strappare alla terra un po’ di raccolto, o a erigere, con insuperata maestria, muri a secco che delimitano e contengono i vari terreni evitando che le piogge invernali li trascinino a valle. Strati ha sperimentato, nella sua stessa esistenza, tale fatica manuale. Muratore sino a diciott’anni, munito di una scarsissima, se non nulla, istruzione elementare, lavora da mastro muratore sino a quando decide di studiare. Smette il mestiere impostogli di fatto da un padre padrone, cui pur oserà opporsi, sostenuto dalla volontà e dalla passione con le quali la madre ha osato infrangere il ruolo di donna necessariamente sottomessa alla volontà, anche se tirannica, del marito, contrapponendogli il diritto dell’amato loro figlio a studiare e a costruirsi con le sue forze un futuro diverso, sino a divenire scrittore come ha sognato da sempre. Walter Pedullà, amico e conterraneo di Strati (lo studioso è di Siderno, paese limitrofo di Bianco), per anni assistente di Giacomo Debenedetti, dell’Università di Messina, mi raccontava come alle lezioni del grande maestro, assisteva, smunto e affaticato, Saverio Strati, che aveva viaggiato a piedi dal suo paese, per raggiungere la città siciliana. A Debenedetti il giovane Strati consegna le sue prime prove narrative che interessano l’illustre critico, che presenta il loro autore a Mondadori sollecitando la loro pubblicazione. Nascono così La teda, Tibi e Tascia, La marchesina, Il selvaggio di Santa Venere che con il riconoscimento del prestigioso Premio Campiello segna l’indiscutibile successo nazionale e non solo dello scrittore calabrese.

    A ripercorrere dall’interno questa vicenda eccezionale di forza di volontà, tenacia, fiducia nella scrittura è la nipote di Saverio Strati, Palma Comandè, che con questo Prima di tutto un uomo, che qui si introduce, si immerge con molto coraggio nella storia della propria famiglia, che rappresenta nelle luci e nelle ombre, negli slanci di generosità, negli amori e nelle esasperate passioni per quella terra, Santa Venere, che appare loro circonfusa di una luce quasi ultraterrena e densa di una bellezza ineguagliabile. Non è certamente così se considerata secondo un’ottica oggettivamente realistica, ma una realtà comunque tale rappresentazione la conquista se trasfigurata in maniera soggettiva sul piano del simbolo. Questa terra, proprio essa e nessun’altra al mondo, può essere il segno tangibile del riscatto sociale inseguito per tutta un’esistenza; una volta raggiunto, di mantenerne il possesso della terra (ma Giovanni Verga non ci ha già avvertito del cupo ambiente della Sicilia tradizionale, dell’importanza quasi ossessiva data al possesso della rrobba anche a costo di qualsiasi azione, di qualsiasi raggiro?) che deve restare nelle mani del singolo legittimando la sua posizione nella famiglia, nella parentela, nel paese. È la storia di Saverio Strati e della sua famiglia, della volontà dello scrittore di non lasciarsi irretire in beghe familiari e in conflitti paesani perché avrebbero indebolito la sua assoluta vocazione di scrittore, eppure, nonostante tutto, lo stesso Saverio finisce, certo con le migliori intenzioni, a essere ripreso nella dialettica ragione-torto producendo, del tutto inconsapevolmente, nuove vittime e rinnovati conflitti.

    Ne risulta un libro profondamente stratiano che presumo sarebbe molto piaciuto al graande scrittore che avrebbe potuto riconoscere in lei l’erede migliore dei suoi talenti narrativi. Ho seguito il lento formarsi di questo libro, sin da quando, in un convegno a Sant’Agata ci trovammo, lei e io, tra i relatori, nel momento conviviale che seguì. Colpito dalle considerazioni svolte sull’opera del suo illustre parente, invitai Palma Comandè a scrivere del suo rapporto con lo zio, scavando nella storia della loro famiglia. Tale consiglio venne accolto, perché evidentemente tale storia premeva dentro di lei e voleva divenire parola, discorso.

    Non credo che sia stato un processo facile: scavare dentro di noi, ricercare le nostre radici, impegnarsi a vederle nel loro protendersi verso l’alto, ma anche nell’affondarsi nel sottosuolo sempre più profondo può essere molto doloroso e bisogna saper oltrepassare ostinati silenzi che hanno circondato la nostra infanzia, e le età successive. Lo si riconosca o meno, si hanno sempre scheletri nell’armadio e anche il più orgoglioso familista sa che nella storia del proprio nucleo familiare si possono celare tratti di cui non essere particolarmente orgogliosi. La nostra Palma Comandè ha affrontato con intelletto d’amore tale groviglio di storie, di sentimenti e l’ha saputo distendere in un tessuto narrativo di grande suggestione. Volta a volta Palma aveva l’amabilità di inviarmi quanto aveva scritto, sollecitando il mio parere e io, negli incontri successivi, e nelle lunghe telefonate, comunicavo dettagliatamente il mio parere, ché ritengo, in casi siffatti, la franchezza dovere assoluto. Eppure, nonostante la conoscenza puntuale che avevo acquisito delle singole parti, quando Prima di tutto un uomo mi è stato inviato per una valutazione complessiva, mi son trovato a leggerlo come se non conoscessi la storia e come andasse a finire, tanta era la carica evocativa che queste pagine sprigionavano. Particolarmente toccante, infine, la descrizione nell’ultima fase della vita di Saverio Strati, quando la decisione di Mondadori di non pubblicare più le sue opere lo ridusse di fatto in una condizione di indigenza che lui stesso svelò chiedendo l’aiuto della Legge Bacchelli. All’indomani della sua morte, avvenuta nel 2014 nella sua Scandicci, molti, compresi, gli amministratori della cittadina toscana lamentarono che la Calabria si fosse dimenticata del suo grande scrittore. Non era vero, ché Pasquino Crupi, Vito Teti, come l’Università della Calabria, io stesso, sollecitammo il riconoscimento della Bacchelli da parte del Consiglio dei Ministri, che era stata comunque anticipata dal varo di una legge Regionale da parte della Giunta calabrese, intitolata proprio Legge Strati a sostegno degli artisti calabresi in difficoltà. Alle richieste dell’affettuosa nipote se avesse «qualche problema economico» rispose senza esitazione e in modo secco no, nessuno lasciando in lei la sensazione di averlo offeso. Gli chiese, pertanto, scusa, ripromettendosi mentalmente che avrebbe ridotto perfino le telefonate «per non turbare quel suo legittimo bisogno di solitudine.» E così, in effetti fece. Finché un giorno il suo telefono non squillò più. Né lui aveva cellulare, o meglio, se l’aveva lei non ne possedeva il numero. Inizia così una serie di tentativi di mettersi in contatto con lo zio, tentativi tutti andati falliti.

    Saverio Strati, il 9 aprile 2014, muore nella sua Scandicci, da lui scelta come dimora e patria culturale: la sua memoria e il mondo da lui evocato sono stati sempre la Calabria tradizionale, mentre il contesto nel quale ha preferito trascorrere la sua quotidianità è stata Firenze-Scandicci. Non è un caso che alla Calabria e al suo patrimonio favolistico sia stato dedicato un lavoro svolto in collaborazione con me, Fiabe calabresi e lucane, pubblicate in una collana di Mondadori, sulle Fiabe delle diverse regioni italiane. Le fiabe le avevo scelte attingendo dai 4 volumi di Racconti popolari calabresi di Raffaele Lombardi Satriani, premettendo a essi un ampio saggio e rese in lingua italiana, con maestria ed efficacia narrativa, da Saverio Strati.

    Nell’oscillazione tra due poli spaziali, Calabria e Firenze-Scandicci, si è consumato l’itinerario esistenziale e forse anche emotivo del nostro grande scrittore.

    La nipote apprende il triste evento casualmente: glielo comunica un conoscente che, a sua volta, lo ha appreso per caso.

    Parte per Scandicci, ma non potrà più rivedere l’amato zio, eletto, come ho già detto, a secondo padre. Gli porta in omaggio una rosa. E qui scorrono le pagine più alte del libro, dove si ode il concerto degli spazi e dei suoni di Santa Venere e delle altre terre bramate dalla famiglia Strati. L’immaginazione, il sogno, con la sua capacità profetica di creare la realtà stessa si fondono in maniera particolarmente toccante.

    Si conclude così Prima di tutto un uomo, matura prova narrativa, della scrittrice stratiana Palma Comandè.

    Luigi M. Lombardi Satriani

    Nota dell’autore

    Perché la verità?

    Perché non dice ciò che vuoi sentirti dire.

    Non mostra ciò che vuoi vedere.

    La verità costringe.

    A udire, vedere, pensare.

    Quando essa diventa un bisogno, perché tacerla?

    Perché comprimerla nei divieti delle convenzioni

    e dei moralismi?

    Perché rinunciare con essa a compiere un viaggio?

    Il proprio viaggio!

    La verità fa male, sempre.

    Ma è la sola a parlarti di te.

    La sola a raccontare l’uomo.

    Non uscire da te stesso,

    rientra in te stesso:

    nell’intimo dell’uomo risiede la verità.

    (Sant’Agostino)

    Parte Prima

    Confidenze e rivelazioni

    A un mese esatto dalla morte dello zio, anche mia madre, sua sorella, fu lì lì per andarsene. Come nello zio, anche in lei il cuore diede segni evidenti di cedimento, e un infarto provò infine a metterlo a tacere per sempre. Ma l’immediatezza dei soccorsi, attivati in men che non si dica dalla solerzia di mia sorella, sempre vigile e premurosa, impedì il peggio e lei, a differenza del fratello, ha potuto continuare a posare il suo sguardo triste e stanco sugli affanni antichi e nuovi della sua vita.

    Seduta di fianco al suo letto d’ospedale, ne osservavo l’espressione e i lineamenti durante i frequenti assopimenti, e senza difficoltà deducevo che ce l’avrebbe fatta. Benché il monitor appeso alla parete in capo al letto segnasse un ritmo cardiaco nient’affatto tranquillizzante, io, a differenza dei medici, non me ne davo particolare pena: conoscevo a fondo mia madre e le sue incredibili risorse e sapevo che quel cuore non poteva ancora smettere di battere perché la mente, ancora lucida e attiva di lei, traeva il suo maggior nutrimento proprio dai dolori che esso provava, dalle angustie per ingiustizie, tradimenti, indifferenze e tutto quello che lei ricavava dalle relazioni interpersonali e che era in grado di procurargli sofferenza, e talvolta anche di dilaniarlo. Il dolore era la costante della sua vita. Ne era l’approccio. Anche quando vi erano motivi di serenità o perfino di gioia, un’incursione nel mondo del dolore ci stava tutta, pareva addirittura necessaria per ristabilire un qualche equilibrio fortemente minacciato. Non si sfuggiva ad esso! Questo avevo imparato fin da piccola stando accanto a mia madre e a tutto l’agglomerato di parenti e amici più o meno stretti, più o meno affiatati che popolavano la casa e il fondo di Cola in un andirivieni che a giorni, tra visite di cortesia, raccolta di olive o uva o ciliege o nocciole e via così, a seconda del periodo, lasciava veramente poco spazio alla solitudine. Avevo ancora nelle orecchie il tono dolente e accorato con cui discorsi e riflessioni si snodavano dalle loro bocche. Più che le parole, era esso a penetrare il mio cuore di bambina e, come un vento cupo e insidioso, far vibrare di angoscia i miei spazi aperti e inquieti... Ed io, di notte, sognavo muri minacciosi e invalicabili che opprimevano la mia vista e il mio cuore, e poi fughe disperate per spazi ignoti insidiati da voragini improvvise pronte a inghiottire ogni cosa. Schivarle era la fatica che mi toccava, con balletti disumani interrotti quasi sempre da bruschi e faticosi risvegli. Senza difficoltà mi rendevo conto che i sogni riproponevano quello che già facevo da sveglia: schivare le voragini della contrizione e della rassegnazione con soste frequenti e prolungate nell’isolamento e nell’immaginazione.

    Già allora cominciavo a pensare al valore della serenità; e poi, crescendo, al nesso stretto che essa aveva con la capacità di vivere una vita propositiva; e, più in là, all’importanza di cercare dentro sé ogni modo per conquistarla, fosse esso la tolleranza o la rimozione. Impresa non facile senza una guida che chiarisse visioni nuove in un dialogo accattivante e coinvolgente per menti in formazione.

    Dialogo che lo zio non accordò. Osservava e ascoltava ogni cosa in un silenzio ora assorto ora indifferente esprimendo poi qualche giudizio con zia Teresa, durante le brevi conversazioni che solo con lei pareva disposto a fare; giudizio che la zia, in seguito, faceva trapelare, severa e compunta, quasi si trattasse della profezia o dell’ammonimento di un oracolo, anche se esso era positivo e poteva indurre al compiacimento.

    M’intimidiva e m’inquietava lo sguardo penetrante dello zio, la severità del giudizio che ne trapelava e che disorientava i miei pensieri e inibiva i miei comportamenti. Il mio ingresso nell’adolescenza si presentava più che mai nebuloso. Nessuna terra in vista dal mio mare tempestoso, neanche un miraggio che animasse l’illusione di potercela fare. E la voce che avrebbe dovuto parlarmi e che avrei voluto sentire taceva. Perché?... chiedevo a mia madre le volte in cui trovare una spiegazione alle cose mi faceva credere di poterne trovare il senso. Riservatezza. rispondeva lei Devi capire. Lo zio è un uomo molto riservato, per questo è così silenzioso. Sì, ma i giudizi...., la severità di quello sguardo, che sembra sempre che stai commettendo qualcosa di brutto. Perché è così? protestavo con la voce che tremava di pianto e il tono carico di rancore. Mia madre si fermava un attimo a fissarmi perplessa, come le risultasse strano quel che stava udendo, quindi si stringeva nelle spalle e, scotendo lievemente il capo, proseguiva il cammino verso Sant’Agata. Io le stavo qualche passo dietro, a testa china, ammutolita dal mio rancore. Il pesante fagotto che mi toccava portare diventava, improvvisamente, pesantissimo, quasi insopportabile, e una parte un po’ cattiva e un po’ ribelle di me avrebbe voluto abbandonarlo lì tra i rovi che per lo più fiancheggiavano il viottolo che, dopo la grande salita di Marino, prendeva a serpeggiare tra vigneti rigogliosi e uliveti accattivanti per ombra e frescura.

    Vi stipava di tutto mia madre in quei due fagotti, il suo e il mio, per il fratello, il nipote e la cognata. Prelibatezze e leccornie d’ogni tipo: salumi, formaggi, carne di buon vitello paesano, o di capretto, qualche primizia del nostro orto che nessuno di noi doveva permettersi di toccare, guai!, e poi cioccolate, dolcetti, ma sopratutto il gelato, quello artigianale, quello fatto col latte di mucca appena munto e le uova che le nostre cento e passa galline sfornavano senza sosta, quel gelato che mio padre preparava con impareggiabile maestria e un compiacimento che gl’illanguidiva lo sguardo mentre le mani foggiavano forme che col tempo diventavano sempre più complesse. Ed era proprio a causa di quel gelato che a me toccava il fagotto più pesante, quello con la roba che a stiparla non si causava alcun danno se non alle braccia e alla schiena di chi la trasportava. Il fagotto più leggero, quello con la scultura di gelato, quello toccava a mia madre perché ci voleva garbo nel portarlo; le braccia dovevano stare sempre tese, mai dovevano cedere alla stanchezza e inclinarsi, se pur di poco, perché in quel caso la cupola di cioccolata e nocciole, ad esempio, che sovrastava la cattedrale di zuppa inglese e pistacchio con le pareti di pan di spagna farcito con fior di latte sarebbe scivolata posizionandosi nel posto sbagliato e, all’apertura del contenitore termico che ne custodiva l’integrità in quell’abbondante mezz’ora di cammino a piedi sotto il sole torrido delle prime ore del pomeriggio, lo sguardo curioso dei destinatari di quell’opera d’arte sarebbe rimasto deluso, e critiche più o meno pungenti sarebbero piovute su mio padre e la sua voglia di stupire. A questo occorre aggiungere il fatto che quei sentieri, ora in salita ora in discesa, e comunque sempre sconnessi, che da Casignana conducevano a Sant’Agata, dovevano essere percorsi sveltamente, possibilmente senza soste presso qualche sorgente per rinfrescarsi o all’ombra di qualche ulivo, perché il contenitore, se pur termico, non poteva garantire a lungo la perfetta tenuta delle sculture, sempre diverse e sempre cariche di un significato legato a qualche evento recente o a una delle visioni ideologiche che popolavano la testa di mio padre. Il risultato era, quindi, una sfacchinata che metteva a dura prova la tenuta dei nostri muscoli e dei nostri polmoni.

    La volta che mi ribellai al peso, che mi si preannunciava insostenibile vista la stazza del fagotto, più esagerata del solito, mia madre mi accordò di portare, per quella volta, intesi?, e solo per quella volta, il contenitore termico con la scultura di gelato che in quell’occasione intendeva rappresentare, ridotti in una semisfera per comodità di posizionamento su un piano, i cinque continenti con ai due estremi le bandiere, statunitense e sovietica, posizionate sopra le rispettive nazioni a rappresentare i due blocchi politici in cui allora era diviso il pianeta.

    Erano due piccole bandiere di stoffa sulle quali mio padre aveva, con coloranti per dolci, riprodotto fedelmente su una stelle e strisce e sull’altra falce e martello. Senza intento polemico verso l’una o verso l’altra date le sue idee che inglobavano aspetti dell’una e dell’altra da lui ritenuti positivi, ma con un intento forse ammonitivo dato che da qualche anno ormai l’accanito dibattito tra le varie correnti politiche del paese si era cristallizzato sulla notizia che il mondo era stato sull’orlo della terza guerra mondiale e che solo l’intelligenza politica del Presidente Kennedy l’aveva sventata.

    Intorno ai tavolini del nostro bar le discussioni erano a tratti infuocate. Il blocco sovietico si affannava nella difesa di Cuba scaricando la responsabilità sugli Stati Uniti, come al solito sempre causa di tutti i mali; mentre il blocco democristiano, filo statunitense, kennediano fino al midollo per simpatia e riconoscenza, urlava contro gli avversari una sfilza di frasi del tipo «Ora eri su questa terra a mangiare pane se non fosse stato per i mericani!» riferendosi evidentemente alle forze di liberazione nell’ultimo conflitto mondiale; oppure «Dov’è andato tuo padre a lavorare per coprirti il culo, eh! in Russia o nella Merica? Bella riconoscenza!»; o ancora «Invece di essere campato da uno Stato padrone che vi vuole tutti uguali e tutti servi, dai prova di quello che sai fare e se sei più bravo degli altri prenditi i giusti meriti e i giusti guadagni.» Apriti celo, a questo punto! «I giusti guadagni sono quelli che danno da mangiare a tutti!» replicavano, livorosi e in coro, i compagni comunisti dai loro tavolini in fondo alla stanza che intanto, spinti dall’agitazione generale, si avvicinavano sempre più fra di loro fino a unirsi e formare un unico grande tavolo al centro del quale qualcuno posizionava, aperta a caso, una copia de «L’Unità». Della quale i più altro non coglievano se non il titolo, ma bastava a dare forza e veemenza alle loro convinzioni.

    Dal tavolo, anch’esso grande perché cresciuto battuta dopo battuta, dei democristiani filo americani, le risposte non si facevano attendere, aspre, pungenti, spesso anche spocchiosamente strafottenti. L’impegno e la veemenza erano tali che pareva vi fosse in gioco il destino dell’umanità. Ogni informazione, ogni concetto che qualche acculturato di entrambi i gruppi ricavava dai giornali e poi esponeva all’immancabile platea, veniva assorbito dai singoli, rimuginato, lavorato dalle varie teste con i mezzi di cui disponevano e poi restituito in piazza o al bar sotto forma di credo divino, assoluto e incontestabile. Il risultato erano posizioni contrapposte talmente radicali da risultare inconciliabili. L’impressione che si traeva ascoltandoli era che l’unica forma di comunicazione possibile era l’incomunicabilità, l’incapacità assoluta di aprirsi alle ragioni dell’altro e accettarle serenamente.

    Mio padre, che ascoltava molto e parlava poco, che leggeva ogni giorno giornali di diverso orientamento politico, maturò l’idea che il torto e la ragione albergano solo nella testa degli uomini. E che questi ultimi lottano non perché costretti, come aveva ritenuto durante gli anni di guerra sul fronte greco-albanese, ma perché amano lottare, per difendere qualsiasi cosa, la terra come le idee, oppure per imporre se stessi e le proprie visioni, obbedendo comunque a un istinto di sopravvivenza. Traslando il tutto in una dimensione planetaria, arrivò alla conclusione che i due blocchi, americano e sovietico, esistevano perché, vista la natura degli esseri umani, non potevano non esistere. E sarebbero sempre esistiti se l’umanità non si fosse evoluta e dallo scontro non fosse passata al dialogo. Cosa, questa, assai difficile visti i comportamenti degli esseri umani. Sicché il pericolo di altre guerre mondiali era sempre in agguato, purtroppo. Questo doveva essere di stimolo al dialogo. Maturò il suo pensiero e decise di esporlo, a modo suo, a chi era in grado di capire, cioè l’illustre cognato, attraverso la scultura di gelato, frutto di uno studio accurato della geografia, e anche della geopolitica avendo deciso egli di delineare col colore rosso gli Stati filo sovietici e col blu quelli filo americani, volendo così rimarcare l’intrinseca pericolosità delle divisioni.

    Dopo giorni di prove su cartoncino, si sentì di padroneggiare il disegno del globo. E dopo qualche giorno ancora di riflessione, sentì giunto il momento di cimentarsi nella difficile opera che, per ovvie ragioni, doveva essere eseguita con gran celerità. Il risultato fu, a suo giudizio, soddisfacente e, quando completò con la posa delle bandiere, il colpo d’occhio gli parve eccellente. Nel riporre la scultura dentro il contenitore termico dalle intercapedini rimpinzate di ghiaccio, non smetteva di raccomandare a mia madre cautela nel trasporto e sveltezza nel camminare. Il gelato non doveva perdere neanche un po’ di consistenza altrimenti i colori dei confini degli Stati sarebbero sfumati. E allora addio confini. E di conseguenza, addio pensiero. Nessuno avrebbe potuto capire il senso di quell’opera.

    Mia madre annuiva, ma potrei giurare che di quel significato non aveva capito niente. Per lei era un disegno come un altro. Quello che contava erano i gusti che dovevano necessariamente comprendere la zuppa inglese che piaceva tanto a mio cugino, il fior di latte e il pistacchio che piacevano tanto alla zia, e il cioccolato che piaceva tanto allo zio, e che mio padre, questa volta, aveva messo in abbondanza avendo fatto di cioccolata tutta l’Africa e qualche Stato nella parte meridionale degli USA, a indicare le zone del pianeta abitate per lo più da popolazioni nere. Il colpo d’occhio piacque molto a mia madre per via di tutto quel cioccolato che avrebbe soddisfatto il palato di suo fratello per alcuni giorni. Neppure una parola sull’opera, eccetto qualche espressione di disappunto sulle bandiere che, svettando almeno dieci centimetri sopra la scultura, costringevano all’utilizzo di un contenitore più grande di quelli soliti e, di conseguenza, a una maggiore fatica nel trasporto.

    Quando lungo la strada, finita la grande salita di Marino e l’inizio del sentiero pianeggiante, le chiesi di fare cambio di pesi, a lei il fagotto stipato fino a scoppiare e a me il contenitore con la scultura, lei ebbe un attimo di smarrimento, al quale contribuì sicuramente l’indolenzimento delle braccia che certamente avrebbero gradito un po’ di riposo essendo, in quell’occasione, più tese del solito. Non disse quel «no!» immediato che mi aspettavo, il che mi autorizzò prima a insistere, poi a implorare. Finché si convinse, «...ma solo per questa volta!» precisò severa, quasi a mettersi l’animo in pace, «E che non sappia niente tuo padre!» ammonì.

    Prendendolo fra le braccia, capii subito che il contenitore non era un oggetto agevole da trasportare; ma era più leggero del fagotto, e ciò bastò a farmi sentire meglio. Con gioia mi accorsi che camminavo con più speditezza, e questo significava un guadagno provvidenziale di tempo che andava a tutto vantaggio dell’integrità della scultura. Cosa non da poco considerato il fatto che in essa mio padre riteneva di aver compendiato bene le doti di artista e quelle di pensatore che si riconosceva. Quindi, farla arrivare integra voleva dire, per me, rendergli onore; ed era quello che in fondo al mio cuore desideravo di più. Perciò, per la prima volta, la stanchezza dei muscoli e l’affanno del respiro li avvertii un dovere da assolvere con gioia sia che mio padre avesse saputo che la scultura era arrivata in perfette condizioni grazie alla mia celerità, sia che non l’avesse mai saputo. Certo, pensavo, mentre, sudata, procedevo di alcuni metri avanti a mia madre sotto il sole cocente del primo pomeriggio, avrei preferito che egli lo avesse saputo per ricevere, con una carezza, una parola o solo uno sguardo, un segno della sua riconoscenza.

    D’un tratto, mentre la mia mente si cullava in questi pensieri, dalla curva che avrei imboccato di lì a poco, e oltre la quale dopo qualche centinaio di metri con mia madre avremmo raggiunto il piazzale del cimitero e quindi Sant’Agata, spuntò un’asina con al seguito un puledro saltellante e scalciante. Evento consueto a quel tempo, specie sulle strade di campagna. Mia madre, a tal proposito, mi aveva insegnato che bastava accostarsi al ciglio della strada e aspettare immobili, ché gli animali sarebbero passati tranquilli senza farti danno. In tutte le occasioni fino ad allora era stato vero, ma in quella...

    Il puledro precedeva la madre di alcuni metri, con andatura scomposta e imprevedibile. Il mio cuore prese a battere all’impazzata mentre con le spalle mi schiacciavo il più possibile contro il muro a secco che delimitava su un lato il sentiero, e con le braccia stringevo contro il mio corpo più che potevo il grande contenitore con la scultura di gelato. Pensai anche di posarlo a terra, ma i rovi, il fosso e i sassi lo avrebbero di certo fatto rovesciare. Non mi restava che aspettare e pregare. Ma la Madonnina, alla quale mi rivolgevo nei miei momenti difficili, quella volta non mi ascoltò. Vidi il puledro puntare con lo sguardo il mio contenitore e un secondo dopo, con un calcio ben assestato farlo volare in aria. Esso cadde rovinosamente a qualche metro da me su un cumulo di sassi e sterpi. Col muso, l’animale scostò il coperchio rotto e annusò un attimo il contenuto prima di affondarvi la lingua e godere di quel gusto e di quel fresco. Ebbi il tempo di vedere l’America scivolare con tutto l’Atlantico sopra l’Europa, e spiaccicarsi infine sulla Russia in una confusione di colori e confini che annullava ogni pretesa di discernimento. L’Africa scivolò sull’Antartide e un attimo dopo sparì con quest’ultima nella bocca del puledro. Sopraggiunse l’asina che con gran piacere aiutò il figlio a far fuori quello ch’era rimasto di un miscuglio di nomi senza nome e storie senza storia. Spazzarono e ripulirono tutto in fretta e con grande avidità. A terra rimasero solo i resti del contenitore e, confuse in mezzo ai rovi, le due bandiere.

    Io guardavo la scena, annichilita, priva di forze e di pensieri. Rimasi lì impalata anche dopo che i due asini se ne furono andati soddisfatti e rinfrescati, le braccia penzoloni e gli occhi sbarrati. Sentivo le mani di mia madre che mi stringevano le spalle e poi passavano sulla mia testa, tra i capelli, in gesti che volevano essere di conforto ad entrambe. «Non diremo niente a tuo padre» mi disse, con voce contrita; «Non gli diremo niente... Vieni ora, andiamo.» Mi prese dalla mano e insieme, mestamente, proseguimmo per Sant’Agata.

    Lì, al parentado non si poté non raccontare l’accaduto sia perché era la prima volta che arrivavamo senza una scultura di gelato, sia perché le nostre espressioni cupe sollecitavano richieste di spiegazioni. Mia madre tentennò molto prima di parlare, lasciando cadere nel vuoto ogni richiesta, ma quando l’esortazione venne dallo zio, i suoi occhi s’illuminarono all’improvviso e lei si lasciò andare ad un racconto in chiave burlesca. I parenti e qualche amico che all’ombra della grande palma si godevano la brezza che a quell’ora del pomeriggio saliva su dalla vallata, e il panorama mozzafiato che a perdita d’occhio si offriva illanguidito da una tenue foschia, risero di gusto, e mia madre con loro. Lo zio aveva a tratti le lacrime agli occhi. E alla moglie straniera che lo guardava stupita non capendo il senso del racconto, fatto per lo più in dialetto, a fatica riusciva a tradurre le parole.

    Io, seduta su una delle panchette poste lì a soddisfare la voglia di riposo e di frescura di chiunque a Cola salisse, osservavo la scena con uno stupore sconcertato: a meno di un’ora di distanza dall’accaduto il mio cuore non aveva ancora recuperato la completa regolarità dei suoi battiti, e un nodo alla gola per il dispiacere che avrei dato a mio padre mi impediva di respirare tranquillamente. Non capivo dove mia madre, che pure aveva tremato con me davanti alla scena dell’asino, trovasse la forza di ridere e far ridere per un fatto del genere e, soprattutto, perché lo facesse.

    Ero in un’età, quella preadolescenziale, nella quale la mente e il cuore cominciano a mettere le ali, e nessun laccio emotivo o affettivo può trattenere il loro battito a meno di non spezzarle. Perciò cominciavo a non appiattirmi sui comportamenti di mia madre, e un bisogno di comprensione delle ragioni profonde dell’umano operare bussava alla mia sete di conoscenza. Non avrei taciuto con lei di questa cosa, e sulla via del ritorno verso casa avrebbe dovuto darmi una spiegazione. Niente più spallucce e sospiri o «lasciami in pace ché ho pensieri!» E avrebbe anche dovuto spiegarmi il motivo per cui non aveva speso neppure una parola sul tema della scultura di mio padre. Che non fosse importante per lei lo sapevo e lo capivo, non capivo perché non rispettasse l’importanza che essa aveva per lui e che lo aveva indotto ad un lavoro

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