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I rapporti colpevoli
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E-book326 pagine5 ore

I rapporti colpevoli

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Info su questo ebook

Puoi fuggire dalla guerra, dalla fame e dalla distruzione della patria, ma non puoi allontanarti dalle nefandezze del tuo spirito... Pubblicato per la prima volta nel 1990, "I rapporti colpevoli" è un romanzo parzialmente autobiografico, attraverso cui Fulvio Tomizza ripercorre mezzo secolo di vicissitudini famigliari nella sciagurata terra di confine dell'Istria. Al centro della narrazione – affidata fittiziamente al fratello del protagonista – c'è il matrimonio fra Flavio ed Ester, funestato dai continui tradimenti di lui ma sorretto dall'amore incondizionato di lei. Sullo sfondo dei crudeli sviluppi geopolitici del Novecento, che vedranno il comune di Giurizzani entrare a far parte della neocostituita Jugoslavia di Tito, il racconto dipinge un affresco, tanto vivido quanto cinico, di un'esistenza sospesa fra più poli: più case, più patrie, più amori...-
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560365
I rapporti colpevoli

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    I rapporti colpevoli - Fulvio Tomizza

    I rapporti colpevoli

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1993, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560365

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    COME UNA PREFAZIONE

    Mio fratello ci ha infine lasciati. Mi assumo la responsabilità di questo avverbio greve e ambiguo, avendo letto e riletto i suoi ultimi scritti, che mi è stato chiesto di presentare.

    Sono in prevalenza sogni, o loro sviluppi in forma di parabola, apologo, libero racconto, semplice riflessione, fissati sulla carta subito dopo il risveglio o, al più tardi, nel giorno successivo. Me lo confermano i mezzi usati: l’inchiostro della sua fedele stilografica ma anche di penne biro capitategli sotto mano nei diversi posti in cui aveva pernottato, i pezzi di carta più svariati, di differente colore, forma e spessore, perfino conti di albergo, biglietti ferroviari, cartoncini d’invito a conferenze e mostre d’arte.

    Quasi sempre datati, i più sono recenti, scritti in questo 1990, e sono anche i più ampi. Un buon numero di essi, via via meno ricorrenti ed estesi, risalgono ai due anni precedenti; altri, davvero stringati e rari, spesso privi di data, appartengono al resto degli anni Ottanta e agli ultimi dei Settanta.

    Ciò lascia supporre che più avanzasse nel tempo e più l’autore fosse incline ad accrescerli e a convogliarli in un progetto di libro. Tutti erano infatti stipati in una busta bianca già contenente carta da lettere.

    A definirli sogni – e parecchi non lo sono, si limitano a partire dal coccio aguzzo o scintillante di un sogno – mi aiutano alcune sue composizioni pressoché analoghe pubblicate in passato. Ne ricavo anzi l’impressione che, abbandonato questo genere di scrittura, egli vi ricorresse qualche rara volta in forma per così dire privata, ma contasse di ritornarci con pieno impegno quando avesse sentito esaurirsi l’interesse per la narrazione stimolata dal documento storico, la quale lo aveva assorbito per un decennio quasi ininterrotto. Non credo però gli si aprisse un nuovo ciclo narrativo; e con ogni probabilità lui stesso se ne rendeva conto.

    Per ragioni non tutte penetrabili, mio fratello avvertiva che la sua esistenza, e l’attività letteraria che l’accompagnava, si stavano parallelamente concludendo. Ma morire spiace o costa a chiunque. Non è dunque da escludere che nell’intimo egli si aspettasse un avvenimento inatteso, un salutare imprevisto anche in un solo versante della sua vita quotidiana, capace di rianimargli l’altro e di rimetterlo nel pieno circolo vitale. Come attestano questi stessi scritti, attese la novità per almeno dodici anni, e non certo – non sempre – ostruendole la strada.

    Quando nel maggio scorso, come ogni altro anno, si trasferì con armi e bagagli nella sua casa di campagna in Istria, si rituffò nel lavoro, tenendo la busta coi fogli segreti sul lato sinistro del tavolo, dove l’abbiamo trovata. Com’era nella sua natura di lavoratore infaticabile, un po’ superstizioso e molto disposto a sfidare se stesso, non li consultò; sarei pronto a scommettere che nemmeno li estraesse.

    Pensò invece di andare loro incontro, o di preparare il terreno nel quale collocarli, anticipandoli con alcuni episodi di vita vissuta, non limitati alla propria esistenza né tendenti a rappresentarla rigorosamente nella sua interezza.

    L’ultima fatica letteraria di mio fratello è stata dunque questa specie di autobiografia a spezzoni, apparentemente slegati tra loro, ma di certo suggeriti da un ordine mentale in stretto rapporto coi sogni che sapeva di aver scritto e che ancora rimandava di leggere. Questi ultimi sono stati poi da lui ricopiati quasi passivamente; però ve ne aggiunse di nuovi. Andavano bene così oppure li avrebbe rielaborati?

    Mia cognata racconta che era effervescente, dolce, quasi felice. Io ho motivo di credere che di tale fervore lei ricevesse manifestazioni vive e che contribuisse a sostenerlo. A differenza degli altri anni, la moglie stava costantemente con lui in campagna perché nel mese successivo avrebbe dovuto lasciarlo solo per aiutare la loro figlia all’imminente matrimonio. Quel suo ultimo maggio fu un mese beato, nel quale, come il lettore troverà scritto, egli ricavò la sensazione che il destino lo avesse spinto a risalire la vita anziché trascinarla con sé in avanti.

    Giorno dopo giorno, durante la luce del vespero insufficiente per la sua grafia minutissima, era riuscito a liberare dalle erbacce tutte le piantine dell’orto, incominciando da una fila e lasciandola a metà, per riprenderla dall’altro capo e andare così incontro all’aiuola ripulita. E, nelle due ore della siesta, quando era solito camminare per i campi col sole più ardente e anche sotto la pioggia, si sentiva sollecitato a raccogliere asparagi selvatici, i primi funghi dell’anno o soltanto fiori dei più agresti coi quali pure sorprendere la sua donna.

    Posso supporre che a un certo punto avesse deciso di rileggere i suoi fogli accantonati e si fosse visto come intrappolato. Ed allora anche ciò che aveva rappresentato per lui un momentaneo sfogo, un commento esorcizzante, un’osservazione sardonica della quale addirittura gloriarsi, altro non si rivelò che premonizione ancora ignara, pista ulcerosa di una sorte ormai segnata. Quelle confidenze e quelle esclamazioni a cui si era lasciato andare in un’ora tetra della sua giornata, lo stesso sogno che avrebbe dovuto essere liberatore, rendevano ininterrotto il suo lungo ma intermittente confronto con la morte.

    Si era ricostruito il suo nido ai margini del villaggio meno frequentato della nostra parrocchia. Là resisteva il paesaggio mai più riassaporato dell’infanzia e dell’adolescenza, un’armonia (quella della stagione piena, imperturbata, dei padri e dei nonni: la nostra selvatica epoca d’oro) in parte sopravvissuta nelle sue diverse componenti. Sordo soltanto in apparenza alla passività del regime in cui si era incuneato, come pure all’eco di condanna degli esuli istriani che lo vedevano dimostrativamente transfuga, con le sue mani divelse erbe e arbusti nocivi, cancellò muri e siepi divisori, diradò il bosco, risanò gli alberi fruttiferi, ne mise a dimora di nuovi, fece da manovale a muratori, falegnami, fabbri che con difficoltà era riuscito a ingaggiare.

    Quando il suo piccolo, inappariscente regno poté dirsi rimediato, nella casetta in rovina unita a quella rabberciata per abitarvi, mio fratello ricavò sotto il tetto una stanza tutta per sé, dove introdusse un tavolino pieghevole e una sedia, alcuni libri (soprattutto dizionari), e una fila di quaderni.

    Lassù scrisse i suoi ultimi dieci libri, dapprima a penna in diverse stesure, infine battendo con due dita sulla sua vecchia macchina per scrivere.

    Ogni volta che vi giungevo in visita, e lui non udiva il rumore dell’automobile, mi si riproponeva il suo mezzo busto inquadrato dalla finestra che dava sugli ulivi e sul mare di Umago. Passavano le settimane e i mesi, sopraggiungeva un’altra estate, e la sua immagine si ripresentava identica, nella posizione, nell’espressione concentrata e assente, perfino nelle stesse camicie e magliette alle quali sembrava voler ridare una stagione nuova. Questo per oltre vent’anni.

    So che i superstiti contadini dei dintorni, ignorando quale fosse il suo lavoro, che per la loro mentalità non poteva non connettersi con la politica, nei primi tempi lo spiavano dai varchi della siepe come aspettando di coglierlo in fallo. Poi ci fecero l’abitudine; infine, non pervenendo ad alcuna conclusione, parevano mostrare rispetto a una costanza ormai caduta in disuso.

    Io stesso non riuscivo a nascondere stupore né un principio d’inquietudine e quasi di fastidio o intolleranza. Ma quando i nostri sguardi s’incontravano, il suo ancora trattenuto da un pensiero a me ignoto, non mi restava che ridere nervosamente, anche di me stesso.

    A chi do disturbo? si difendeva.

    Credo che quel ritorno, comunque prematuro, comportasse un eccessivo attaccamento a un mondo ormai tramontato, a discapito dei suoi interessi più ambiziosi e della stessa famiglia. Implicava anche un inatteso disinganno e una graduale caduta nella solitudine. A chi do disturbo? Oggi sarei pronto a rispondergli: A te stesso.

    Mai come in queste ultime pagine di mio fratello mi è capitato di trovare un verbo, un sostantivo, un aggettivo, perfino un avverbio accostato direttamente al suo contrario, spesso con un accanimento divertito che fa da spia a una visione multipla, contrastante, e della vita e della stessa resa letteraria.

    Non è stato facile per me acconsentire alla pubblicazione di questo libro: per la sua trasparenza quanto a fatti e a persone coinvolte, per il ricorrere fin ossessivo del tema erotico, per l’insolita durezza, talvolta anche di linguaggio, in cui il suo silenzio sovreccitato ha cercato di trovare sfogo e magari rivincita.

    Mia cognata, che ha sempre creduto nell’uomo e nello scrittore, non ha posto la minima obiezione; non ha nemmeno suggerito tagli o alleggerimenti. Nostra madre non ne sa nulla e spero che continui a perdurare in tale stato di invidiabile ignoranza. Di altre persone citate e di tutto il resto passibile di commento maligno, non mi curo.

    Quasi altrettanta difficoltà hanno comportato la ricopiatura delle varie pagine e il loro ordinamento. Ho cercato di seguire una successione cronologica, anche se non tutti gli scritti recano la data in cui furono composti, o meglio stesi di getto.

    Parecchi dei più remoti anticipavano il tragico esito, gli ultimissimi lo scongiuravano e perfino lo censuravano. Ho deciso naturalmente di dare la precedenza ai sette sciolti e compiuti capitoli autobiografici, composti dal maggio al luglio scorsi. Sono stato a lungo indeciso su quale delle frasi particolarmente indicative, talvolta addirittura sottolineate, fermarmi per il titolo del volume. Ho optato, alla fine, per I rapporti colpevoli, mentre per la parte costituita dagli scritti più frammentari e non ordinati, che per me formano quasi un secondo libro, mi ha attratto Il letto della Pizia.

    Non vorrei, come in altra occasione analoga è avvenuto, che per i miei modesti interventi, sempre arbitrari, ne convengo, qualcuno fosse tentato di considerare questo libro un’opera composta a quattro mani. Sarebbe il colmo…

    (10 maggio 1990)

    PARTE PRIMA

    1.

    IL POSTO DI LAVORO

    Come mi torna in sogno il palazzo della Rai, radiotelevisione italiana. Sempre enorme e burocratico, funzionalissimo e doppiamente temibile perché condiviso da un’altra azienda di Stato.

    Altre volte si moltiplicava in altezza con tanti piani, perlomeno dodici, e in più la terrazza con la mensa, l’ascensore così veloce che, tardando a premere il tasto voluto, finivo nel sotterraneo occupato da altri uffici col personale indaffarato e del tutto sconosciuto, identica però la cadaverica luce al neon. Oppure piombavo nel reparto amministrativo dal quale era meglio tenersi lontani perché ero stato licenziato e tuttavia continuavo a presentarmi al lavoro per resistenza benché non mi corresse alcun stipendio. O viceversa – il rapporto non ancora interrotto ma avviato a scadere tra poco – pure per sciocca protesta mi ostinavo a non comparire in redazione, e intanto chi provvedeva al mio lavoro che non si poteva né sospendere né rinviare, considerando che il giornale-radio, cascasse il mondo, andava in onda a quell’ora precisa e gli speaker aspettavano il mazzetto di cartelle?

    Questa volta invece la sede non finiva di svilupparsi in estensione, così da stentare a introdurmici, perfino a distinguere dove si situasse l’entrata e quale fosse l’uscita, tanto più che l’edificio, in parte anche vecchio, nel punto in cui mi venni finalmente a trovare dava sulla campagna, e là avevano relegato la redazione slovena.

    Tra i colleghi sloveni e le loro impiegate mi sentivo più di casa. Loro non risero, o soltanto sorrisero timidamente, quando proseguendo imperterrito per quegli uffici e corridoi restai bloccato davanti a una corsia che custodiva secchi e scope, forse l’ingresso all’impianto dell’aria condizionata. Dovete tornare indietro mi avvertì uno traducendo dalla sua lingua, e poi girare di qua a destra.

    No azzardò una bionda grassoccia, forse gli conviene uscire del tutto e rientrare dall’entrata.

    Mi feci spiegare quale fosse l’entrata. In diversi m’indicavano con la mano che, infilando una porticina di servizio, mi sarei trovato in quell’esterno che riuscivo a scorgere oltre i vetri delle finestre, ossia una via tra fabbricati vecchi e abbastanza malandati, in leggera salita o discesa, il lastricato sconnesso e non pulitissimo: una strada di città dell’Est comunista, la quale finiva in un grande portale di marmo. Quella là era l’entrata, in comune con l’Università, che prima di tutto immetteva nella Fakultèt.

    Ah, avevo piantato anche i corsi universitari, a Belgrado la facoltà di Romanistika, a Trieste quella di Giurisprudenza, non avevo concluso niente da quel lato, anzi neppure ci avevo provato, e in seguito mi ero indotto a perdere il posto di lavoro quando avevo anche una famiglia a cui pensare, come mi ero illuso di farcela con lo scrivere?

    Ma, con tutto il senso di responsabilità che mi è proprio, se avevo lasciato che mi tendessero il trabocchetto e fatto finta di cadervi dentro, ciò voleva dire che sentivo di potermelo permettere, e ne ero ben fuori, credesse pure il Redattore-capo che continuavo a restarci intrappolato.

    Tale sicurezza da parte mia non veniva meno. Altre volte però aveva fasi alterne. Mi autorizzava a smentire e fin deridere l’assillo di trovarmi senza stipendio, o al contrario taceva, si era clamorosamente dileguata, e io non sapevo dove o presso chi accertare se era proprio vero che fossi stato licenziato ma possedessi fondate ragioni per non dovermene preoccupare. Il dubbio durava per un po’ anche da sveglio. Presto ricontrollavo la mia situazione finanziaria, e solo allora, o più tardi nel corso della giornata, raccontavo il sogno alla moglie. Se poi glielo raccontavo.

    A mettere alla prova questa mia sicurezza ci pensava proprio l’amico Redattore-capo, che mi aveva e non mi aveva licenziato. Uomo politico quale lui era, di vantata fede cattolica, bello da piacere alle intellettuali laiche, nemico giurato dei borghesi massoni e mal digerito dalla propria parte più bigotta, Giulio Orneri, che oltretutto mi ostentava amicizia, non poteva non mostrarsi preoccupato sia del mio avvenire, sia del presente della famigliola senza il mensile.

    Vi reagiva convocandomi di continuo a discuterne: mi accontentavo di una collaborazione naturalmente firmata e suscettibile di divenire fissa? Oppure: mi decidevo a riprendere l’attività in redazione e poi ci avrebbe pensato lui a farmi riassumere?

    Chiamava nel suo ufficio qualcuno del Personale per studiare ancora una volta come scovare una deroga ai regolamenti, ciò che, facendo roteare la bocca, entrambi o tutti e tre definivano un marchingegno: in sostanza, il modo di riparare l’imbroglio concordato. Il quale invece, secondo i lui, null’altro era stato se non un mio tardivo ripensamento di artista. E sbruffava, in quel modo tutto suo di ridere, sulla mia sensibilità artistica che non gli aveva chiesto niente.

    Sarebbe semmai stato legittimo ricordargli che la domanda di aspettativa di sei mesi l’avevo sì firmata io, ma l’aveva scritta lui di proprio pugno e poi passata alla segretaria: avrei potuto mostrargli la minuta quando lo avesse voluto. Che per forzare meglio Roma a concedergli un altro redattore mi aveva subito dopo convinto ad allegare, e all’istante aveva steso e poi fatto battere a macchina, la mia domanda di dimissioni datata sei mesi avanti, quando sarei rientrato dall’aspettativa, poi sei sempre in tempo di revocarla. Che, iniziato lo spasso non pagato e ottenuto lui il ventunesimo redattore, il medesimo amico Capo si rallegrò con me di non riuscire a trovare più la nostra lettera del mio autolicenziamento che il suo ufficio avrebbe dovuto inoltrare a Roma. Che, non fidandomi del tutto, scrissi al presidente dell’Azienda – in privato, mio aspirante collega in cerca di un grosso editore – informandolo che in novembre sarei tornato a essere suo dipendente.

    Mi sembrava volgare e un po’ ingrato richiamarlo a tutto questo, perché subito, da quel quindici novembre ’80 in cui mi arrivò da Roma il telegramma di accettazione delle mie dimissioni, il Giulio Orneri si era assegnato il ruolo di riparatore del mio colpo di testa, e lo ha saldamente mantenuto in parecchie notti di questi ultimi dieci anni.

    Mi tentava semmai svelargli il mio sotterfugio pasticciato e vederlo impallidire come forse a nessun altro era riuscito. Ma proprio questo primato me lo impediva, perché in fondo gli volevo bene e lo sapevo un uomo vendicativo. Il documento di cessazione del rapporto con l’emittente di Stato, che una volta sottoscritto mi dava unicamente diritto alla liquidazione, lo avevo firmato con uno pseudonimo così povero e trasparente, che nessuno fino ad oggi se ne è accorto: Flavio Tomazzi.

    Ma non lo avevo fatto contro di lui. Il Direttore del Personale romano, altro aspirante scrittore di fede socialista ora nel ruolo del castigamatti, dopo il telegramma di novembre me ne mandò un altro a fine d’anno, quando di solito si riceve posta scarsa di contenuto. Ribadiva secco che allo spirare del vecchio anno, ossia di là a poche ore, ogni relazione tra me e la Rai sarebbe venuta a cessare.

    Mi sferzò il vedermi dopo un ventennio allontanare come un appestato da un’azienda di consueto larga coi propri dipendenti e fin prodiga con quelli di cui era riuscita a liberarsi. Ricordavo i piccoli rinfreschi per quanti erano andati in pensione, avevano avuto un avanzamento, un trasferimento desiderato, con la consegna del regalino a cui tutti si era contribuito. Le mie origini, cioè mia madre, esigevano che io aspirassi a un trattamento usuale, ma si vede che in segreto io ambivo all’eccezione perlomeno da parte di un Ente che pareva gloriarsi dei dipendenti più noti, e questo di Roma era il saluto beffardo alle mie pretese, inviatomi da un concorrente troppo pieno di sé per conoscere invidio.

    Mi allontanai dal palazzo con un senso di liberazione, giurando di non rimettervi piede. Più mi tenevo alla larga, più avevo l’impressione di crescere interiormente. Ma anche il sogno talvolta è ruffiano, ti fa fare quello che mai vorresti da sveglio, e dunque contribuisce a rendere tragica la vita, si allea con la slealtà degli dèi. Per un residuo di slancio evangelico gli permettevo di farmi riconciliare, perfino riabbracciare, con individui a cui sputare in un occhio. Ma mai esso avrebbe dovuto trascinarmi nei paraggi della Sede, spingermi a infilarmici dentro come un cane scacciato.

    La cosa si verificava puntualmente le poche volte che mi avveniva d’incontrare l’Orneri di giorno in strada. Con mia somma vergogna e rabbia, alla luce diurna lui non inscenava la minima apprensione per il mio stato economico, mi voleva agiato più di quanto pensasse mia moglie, non mi chiamava più Maestro sgranando gli occhi e protraendo la o, s’interessava del mio lavoro letterario senza mostrarsi sempre sul punto di sbruffare, mi abbracciava realmente e io studiavo la civile dose di freddezza con la quale non corrispondere al contatto.

    Una sola volta il sogno fu galantuomo. Il Capo venne a trovarmi in campagna. Lasciò la macchina sulla stradina, aprì il cancello e avanzando verso di me e mia moglie fu attirato dal grande oleandro che avevo piantato tra un cantone della casa e il fazzoletto di orto per il radicchio. Entrò nel fogliame. Di colpo ricordai due cose: che disponeva di un cesso tutto per sé e che usava portare le bretelle. Infatti se le slacciò, si accucciò, e, quando ebbe terminato, tornò all’auto con un vago gesto di saluto, guardando intorno con quella sua aria che i troppi incarichi rendevano assente e a tratti indagatrice.

    Ben desto pensai di scrivergli: Caro Giulio, non siamo più amici. Ma voleva dire che lo eravamo stati. Caro Orneri, non sei per me un amico. Rimostranza penosa di chi invece continuava a esserlo. Caro Giulio Orneri, non siamo mai stati amici.

    Non rispondeva affatto a verità. Quante cene insieme con le ragazze che lui, non abituato a perdere tempo, concludeva magari in mezze avventure, mentre io riuscivo sempre a svignarmela per incominciare la notte a fianco della sposa. E, quando non avevo ancora la macchina, tutte le domeniche lui mi dava un passaggio per lo stadio. L’appuntamento era ai Portici, l’Orneri abitava in collina, mi raccontava e talvolta sentivo che cosa aveva mangiato a pranzo, per lui c’erano sempre due posti nella tribuna centrale, vi arrivavamo a partita incominciata, per cui tutti ci notavano e credo che tale circostanza abbia molto contribuito a creare e spargere il grande equivoco della nostra amicizia.

    Davanti a lui dovevo per forza sostenerla, fino a lasciarmi prendere dalla frenesia di dirgli sempre cose stravaganti e paradossali rompendomi il capo per inventarle, improvvisarmi guitto, buffone, saltimbanco, tradire i miei principi, l’opinione politica, il senso della dignità, contrabbandare attitudini che non avevo e non volevo avere, pur di vederlo prepararsi e infine prorompere nella sua sbruffata esigente e poi sfrenata che stavolta mi risparmiava, anzi mi premiava. Per durare in quella specie di orgasmo cameratesco all’unisono, lui mi sormontava con trovate e gesti intonati ai miei ma molto più marcati, e allora gli occhi mi bruciavano e sentivo una leggera fitta nel vuoto della testa. E se gli scrivessi semplicemente: Ti detesto?

    Aveva lui altrettante ragioni almeno per non apprezzarmi interamente. Passammo insieme una notte di fine d’anno in casa di un collega, io con mia moglie, lui da solo perché il suo matrimonio già scricchiolava e la sua consorte, conoscendolo e subendolo da maggior tempo di me, lo fronteggiava come non sempre io avrei desiderato. Abituato a comandare, sapeva scegliere con profitto in ogni occasione. Non vi rinunciava mai, qualunque fosse la posta in gioco, e malgrado il suo utile si designasse puramente platonico.

    Mia moglie soltanto io la vedevo bella, talvolta bellissima, ma credo che non sia mai passata per una donna da far perdere la testa, né lei se lo era mai prefigurato. Quante volte l’avevo esortata a non allargarsi ulteriormente la bocca ridendo, a non alzare troppo le sopracciglia per la sorpresa; e lei reagiva sorridendo da un orecchio all’altro, congiungendo le sopracciglia ai capelli per risultare un clown che avesse sbagliato sesso. Erano polemiche nostre, dispetti della nostra intimità.

    Alla festicciola di San Silvestro, oltre che la più giovane figurava la più carina. E l’uomo a nessuno secondo prese a ballare con lei, che se la cavava appena. Passai dallo stupore all’orgoglio, dalla curiosità divertita a un tormento difficile a spiegare e ancor più a nascondere. Se io e il Capo assai spesso ci trovavamo d’identica opinione, quasi che ognuno si riflettesse nel criterio dell’altro, non avevo potuto darmi per compagna della vita una ragazza che a lui non dicesse niente. Nel caso malaugurato, sapendolo oltretutto di bocca buona, mi sarei sentito avvilito. Se invece lei lo attraeva, e altrimenti lo spavaldo non la avrebbe neppure guardata, sapevo bene che uno scopo lui se lo sarebbe posto: e io avrei dovuto fronteggiarlo.

    Poco incline al calcolo, nient’affatto in cose che non la interessavano, la signora Tomazzi difettava parimenti di cautela, non avendo poi avuto il tempo né l’ambiente in cui scaltrirsi nelle astuzie femminili. Si lasciava cingere, e cingeva, non con abbandono ma neppure con ipocrisia; e io fui morso dal dubbio che la mancanza di malizia la ponesse a mercé dell’istinto.

    Il subbuglio in cui ora unicamente perduravo trovò il modo di organizzarsi quando, ripresa la musica, lei interruppe, a dire il vero non di scatto, la conversazione con la padrona di casa per muovere incontro al suo cavaliere. Dovevo agire, gli altri si erano perlomeno accorti della tendenza dei due a far coppia.

    Terminato il nuovo ballo, la avvicinai per verificare il grado quanto meno di vanagloria. Lei che legge nei miei pensieri esclamò: Quanto mi sto divertendo col tuo Orneri, non lo immaginavo così simpatico.

    Avrei voluto raccontarle come era stato simpatico quando, chiesto a due colleghi di andare a raccogliere la dichiarazione di non so quale autorità e sentendosi rispondere di no perché entrambi erano presi da altro impegno, fui il terzo a scontentarlo per un minimo di dignità adducendo lo stesso motivo, e, dopo avermi richiamato all’ubbidienza e assicurato che avrebbe provveduto lui al mio lavoro, mi denunciò al direttore di Sede per insubordinazione… Quando, lamentandomi della lentezza di un’anziana dattilografa che lavorava a contratto e aveva rischiato di farmi ritardare la messa in onda del primo giornale-radio, l’amico mi sottopose a un penosissimo confronto con la povera donna malata di polmoni, al cui funerale versai lacrime brucianti non solo per il rimorso ma soprattutto perché aveva investito tutto il suo in quel funerale con dieci berline e non c’eravamo che noi della redazione con poco tempo e minor voglia di accompagnarla fino al cimitero…

    Avrei potuto far capire all’unico bene della mia vita di smetterla di accaldarsi col medesimo cavaliere. Ma un suo rifiuto brusco e pilotato, da lui difficilmente sorbito in silenzio, mi avrebbe precipitato in diversa confusione, restituendo lei a una mediocrità ora soddisfatta.

    A casa fui io a sconcertare la compagna con la prima scenata di gelosia alla quale lei non si decideva a credere. Con l’amico Capo finsi assoluta indifferenza, ma mi guardavo dall’accennargli sia alla festa sia alla mia famiglia, e, da come in taluni momenti lui mi studiava, capii che aggiungeva un altro lato oscuro al mio carattere.

    L’ignominioso, affliggentissimo episodo di Lubiana accadde dunque dopo. In quel capoluogo sloveno fin poco prima ostile all’Italia e soprattutto a Trieste, si esportava un mio lavoro teatrale, Giulio Orneri nella comitiva e con tanto di moglie, essendo lui anche presidente del Teatro di rosa. Si trattava di un avvenimento innanzi tutto politico, l’intera città pareva mobilitata per l’eccezionale visita, anche noi eravamo tutti su di giri. Assalito da intervistatori, per il pranzo avevo dato appuntamento alla mia sposa nello stesso albergo che ci ospitava, il vecchio Slon comprendente il più frequentato caffè cittadino, un baretto con pasticceria, il night e il ristorante in cui anni prima, impegnato in un film, avevo per tre mesi mangiato da solo,

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