Io e Arintha. Le cose che non voglio dimenticare
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(dalla Prefazione di Marta Petrusewicz)
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Anteprima del libro
Io e Arintha. Le cose che non voglio dimenticare - Giuseppe Giraldi
GIUSEPPE GIRALDI
IO E ARINTHA
Le cose che non voglio dimenticare
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© by Pellegrini Editore Cosenza Italy
Stampato in Italia nel mese di settembre 2021
per conto di Pellegrini Editore
Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Ai miei nipoti,
perché resti il ricordo.
… metti a frutto ogni minuto;
sarai meno schiavo del futuro,
se ti impadronirai del presente.
Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va.
Seneca (Lettere morali a Lucilio)
Prefazione
Peppino e Arintha o la modernizzazione di un borgo meridionale
Arriva un momento nella vita, quando si accende il desiderio di esplorare le proprie radici, di ricordare – per non dimenticare – le emozioni, i personaggi, gli ideali, le ingenuità, gli odori e i sapori di allora. Ricordare vuol dire richiamare alla mente, alla memoria e al cuore (cor), perché nel ricordo c’è sempre la mente, il cuore e la nostalgia. Per questo, ogni ricordanza scritta condivide un po’ di respiro con i classici.
Questo vivace e tenerissimo libro racconta le cose che non vuole dimenticare Giuseppe Giraldi, l’autore e, al contempo, l’io narrante e il personaggio di Peppino. È poco più di un ragazzo quando finisce la narrazione, nei primi anni ’70, ma nello stesso tempo è un pensionato di oggi che torna a coltivare la terra e un nonno di oggi che vuole preservare la memoria per i propri nipoti. Il secondo personaggio altrettanto importante, parallelo all’io narrante, è Arintha, cioè la Rende come era, chiamata così dal nome della leggendaria principessa Arintha, forse enotra, immigrata, forse nel VII secolo a.C., nel territorio rendese e ritenuta, forse, la fondatrice della città.
Per collegare tutti gli agenti che fanno innescare la memoria, e non far parlare soltanto la nostalgia, l’autore mescola diverse forme narrative: l’autobiografia, la biografia di una comunità, ricordi tramandati, intervallati da una specie di inserti-schede su usi, costumi e istituzioni del passato rendese, che chiama Apri Parentesi
. Usa nomi veri dei personaggi, ma anche quelli inventati laddove una storiella diventa emblematica e quasi fiabesca, come quella di mastro Nino e la sua famiglia: c’era una volta …
un borgo di pignatari.
Una Bildungsgeschichte, racconto di formazione, della vita vissuta dall’infanzia nei primi anni ’50 alla maturità raggiunta negli anni ’70. Alla fine di questo ventennio, che sembra tutta un’epoca, Giuseppe, concepito prima dell’elettrificazione, arriva al Centro di Calcolo installato all’Università della Calabria. Il racconto della propria formazione diventa così, in parallelo, uno studio storico-sociologico, svolto in forma narrativa, del processo di modernizzazione di un borgo meridionale nel secondo dopoguerra. Una modernizzazione rapidissima, che in un ventennio, portò non solo Giuseppe ma anche il borgo di Rende dal pallottoliere al Centro di Calcolo. In questa storia individuale e collettiva, parallela e intrecciata, la modernità equivale alla maturità, esattamente – nota acutamente Michel Foucault – come la vede il pensiero progressista. La modernizzazione, come la maturazione, è un processo che comporta indubbi vantaggi ma anche dei costi, come mostra con efficacia l’autore e ai quali ritornerò in seguito.
La narrazione inizia nel 1949, con un preludio alla vita di Giuseppe, cioè una serenata suonata e cantata dal suo futuro padre sotto le finestre della futura madre, al chiaro di luna perché prima dell’arrivo a Rende della luce elettrica. Inizia quindi con un matrimonio senza elettricità e finisce con la Fiat Cinquecento.
I capitoli raccontano fatti, eventi, sensazioni di un ragazzino costantemente intrecciati con la vita del borgo. Il grande affetto per il suo borgo e la naturale nostalgia per la propria giovinezza tingono le lenti di rosa, ma non impediscono all’autore di vedere anche l’altra faccia della realtà della comunità: il potere gerarchico e patriarcale, che discretamente racconta come sentito sulla propria pelle, la sottomissione delle donne, dei figli e delle figlie, il controllo sociale ineluttabile.
Il borgo è povero, ma certamente non misero, grazie alla dimensione comunitaria di tutte le vicende della vita, per usare la distinzione che tracciava Karl Polanyi fra la povertà premoderna e la miseria individuale all’interno della modernità capitalistica. Un esempio è l’emigrazione, la cui presenza a Rende è importante e di lunga durata, fin dalla grande ondata del primo Novecento e poi di nuovo intensa negli anni ’50. L’emigrazione dei bisnonni, i ritorni, di nuovo l’emigrazione dei nonni e dei genitori, verso le Americhe soprattutto, gli Stati Uniti e Canada. Il nonno Gaspare che aveva portato, e lasciato, i figli a Toronto, seguito poi dall’esodo del resto della famiglia. I matrimoni transoceanici combinati, molti di loro riusciti, storie potenzialmente tristi ma che l’autore riesce a rendere divertenti, come quella della nonna Teresina Verre data in isposa al nonno Matteo Giraldi dal bisnonno Costantino Verre, tutto ciò a Chicago e all’insaputa della promessa sposa.
Giuseppe vede l’emigrazione almeno in parte come un dramma, e giustamente, visto che la sua infanzia è stata segnata dall’assenza del padre. Ma l’abitudine a migrare è anche segno di un’apertura al mondo e un’opportunità che la comunità rendese, vivace e aperta, ha sempre saputo cogliere. Le catene migratorie hanno dato vita a una fitta rete di rapporti con il mondo, di contatti costanti, andate e ritorni, che il Borgo ha sempre mantenuto.
Il padre ritorna a casa dal lavoro solo il sabato pomeriggio per ripartire la domenica sera, la madre con i tre figli, la suocera e la cognata, si trasferisce dal proprio padre rimasto vedovo, il nonno materno Gaspare Ritacca, in campagna a San Janni. Si direbbe niente, una lega dal centro del borgo, ma per Giuseppe è l’inizio di una vita nuova e diversa. Nel ricordo, i percorsi da San Janni a Rende si compiono nelle occasioni speciali in corriera, ma quotidianamente, i ragazzi vanno a scuola a Nogiano, a piedi. Un paio di chilometri, sei ragazzi di otto anni – che avventura quell’ora di camminata all’andata e una al ritorno! Una quotidiana scoperta della natura: si guadavano i fiumiciattoli, si stuzzicavano gli animaletti, si tirava con le fionde di cui ogni ragazzo era maestro, si cercavano i nidi degli uccelli, si tiravano le palle di neve – tutte avventure che solo i bambini sono capaci di vivere.
L’autore ci fa vedere Rende in rapporto al suo esteso contado, con tutte le contrade vive – e se ne contano ben novantanove – ciascuna con il proprio carattere originale, ciascuna con la propria festa che corrispondeva alle attività rituali precise ripetute ogni anno. Nogiano, un connubio perfetto agro-pastorale, dove si incontravano mandrie grandi e piccole, era il sito dove transitavano gli animali che i mandriani conducevano alla Fiera di Arcavacata, l’evento-culmine dell’estate. Giorno dopo giorno, di primo pomeriggio nella calura d’agosto, mandati fuori di casa per non disturbare la pennichella degli adulti, i ragazzini si appollaiavano sul ciglio di un costone ad ammirare lo spettacolo ininterrotto di animali che arrivavano a Nogiano diretti a Santo Stefano – mucche, vitelli, capre, maiali, pecore – in una nuvola di polvere e di vapori di sudore. Di domenica, poi, tutto il contado si riversava nel Centro – restavano aperti i negozi di commercianti, le botteghe degli artigiani, e dei barbieri, e dei sarti, e dei fotografi, e tanti bar che offrivano i gelati. In Piazza degli Eroi, passeggiavano Don Ciccio, il parroco, e l’onorevole Cecchino, il sindaco per eccellenza, accompagnati dai rispettivi accoliti, incrociandosi e scambiandosi delle frecciate come se fossero usciti dalle pagine di Guareschi. Le grandi feste erano tante: quelle tradizionali delle contrade, la festa dell’Assunta e poi, una ricorrenza recente, il festival cantautoriale Settembre Rendese
. Sembrava davvero che, con Domenico Modugno, appena reduce da San Remo che tutti o quasi han potuto vedere su uno dei pochi televisori presenti, Rende condividesse la modernità con l’Italia intera.
È stata un’infanzia felice, nonostante la scarsità. Rende emerge da questo racconto come un luogo pulsante di vita, popoloso e operoso. Il lavoro c’era, per tutti, e anche qui la dimensione collettiva era dominante. Rende di allora era un borgo soprattutto di artigiani – mastri d’ascia, pignatari, lavoranti nell’industria di liquirizia e dei fichi. Anche i saperi più specializzati erano diffusi, grazie al coinvolgimento della comunità e, soprattutto, dei ragazzini che aiutando nel lavoro o svolgendo l’apprendistato vi trovavano anche il gioco e il divertimento. Molti lavori venivano svolti collettivamente secondo veri e propri rituali. Attraverso il racconto vivace, l’autore ci restituisce delle vignette mirabili. La vendemmia, con le donne che portano le uve nelle grandi ceste sulle teste, spesso al ritorno mettendoci per scherzo un bambino; la pigiatura con stormi di bambini che se la spassano saltando e pestando le uve con i piedi nudi, tra risate e cadute. I riti legati al maiale – l’acquisto dei passaturi
a maggio in Contrada Pietà, il giorno della festa di Santa Croce, e poi le macellazioni crudeli, molto maschili, con le donne che raccoglievano il sangue, con le rievocazioni delle parti di maiale e i loro contenitori di cui i nomi molto specifici – salaturi, pignatieddri – fanno roteare deliziosamente la lingua, il tutto coronato da un rito pseudo magico attorno alla quadara. La panificazione a casa dei nonni Ritacca con i ruoli ritualmente ben assegnati alle anziane, alle giovani, al nonno, e il profumo di pagnotte calde che emana dalle parole. La mietitura, con gli uomini falciatori e le donne che trasportavano i covoni, che culminava con la trebbiatura alla quale partecipavano tutti e tutte.
In questo mondo collettivo, il confine tra il lavoro e il gioco era poroso, così come quello tra il mondo riservato agli adulti e quello dei bambini. Sembrerebbe che i bambini giocassero in continuazione, sfidandosi e inventandosi i giocattoli; con una ingegnosità oggi sconosciuta costruivano da niente i carri, e per i giochi usavano frutti degli alberi, una noce, una castagna. La marea dei giocattoli che sommerge i bambini di oggi, era allora sconosciuta. Dopo mezzo secolo, in una conversazione su Skype tra Giuseppe da Rende e Gina da Los Angeles, si ricorda il vero triciclo
regalato a Giuseppe da qualcuno, un giocattolo talmente di lusso da essere messo in bella vista fuori dalla portata dei ragazzi.
Odori, sapori e rumori sono delle madeleine che fanno scattare i ricordi di quel tempo perduto. L’odore delle pagnotte calde, condite con un filo di olio; l’odore del latte di capra appena munto; il rumore degli zoccoli di vitelli, cavalli, capre, maiali, pecore. Leggende e miti raccontati dagli anziani, nelle interpretazioni molto originali, come quello di Polifemo che il nonno raccontava ogni volta che si torchiava il mosto.
L’istruzione era agognata da tanti ragazzi ma spesso osteggiata: il nonno Matteo che nascondeva il calamaio sotto la camicia, fu scoperto dal padre che con una bastonata glielo fracassò. Eppure, i ragazzi imparavano, grazie anche al ruolo inestimabile e pionieristico dei
maestri e delle maestre, mai ancora abbastanza apprezzato. Qualcheduno faceva lezioni in segreto ai ragazzi i cui genitori non volevano mandarli a scuola, e poi, con la scuola d’obbligo affermata, li motivavano a mirare in alto. Un ricordo particolarmente tenero è riservato al maestro delle elementari, Lunetto Vercillo, che prestava i libri agli alunni, e che voleva mandare Peppino al liceo classico. Il padre decise per l’Industriale.
I primi amori: da una parte, quelli ritualizzati nello struscio serale, con le ragazze da un lato e i ragazzi dall’altro, con i primi abbocchi che, nella versione prescrittiva, dovevano quasi subito sfociare in una visita alla famiglia della ragazza abboccata; dall’altra, le emozioni delle prime scoperte sessuali nel buio di un fienile.
Il borgo era anche litigioso, come tutti i posti confinati, dove un conflitto poteva sorgere attorno allo sconfinamento compiuto dalle galline ignare, ma che si risolveva con una risata. Era un borgo dove si rideva volentieri, per gli scherzi e per l’autoironia, come l’autore racconta citando la storia del nonno e la botte: il nonno, che non disdegnava qualche assaggio di vino in più, rimproverato dalla moglie, ha punito la botte colpevole di essersi svuotata.
Il conflitto di classe era presente, ma anche questo premoderno, per le terre del barone Giorcelli e per l’affrancamento dei contadini. Il conflitto politico nuovo inizia con la accresciuta presenza dello Stato e il suffragio allargato, con i partiti politici, i comunisti, i socialisti, la caccia al voto, il voto di scambio. L’antagonismo politico si accentua con l’affermazione del regno della Democrazia Cristiana, che negli anni ’50, insieme al parroco, decideva a chi accordare i visti per l’emigrazione, negandoli ai comunisti e ai socialisti o costringendoli all’umiliazione della pubblica abiura. La transizione alla modernità segna un cambiamento nel metodo politico: la DC, e presto anche il Partito Socialista, con il supporto della Cassa per il Mezzogiorno e altri fondi di emergenza per il Sud, sostituiscono lo scontro ideologico con la ricerca del consenso. Lo stato del benessere arriva sotto la forma di assistenzialismo: diretto, con la pioggia di pensioni di invalidità o indiretto, tramite le innumerevoli assunzioni negli enti pubblici statali e parastatali. Rende è relativamente privilegiata nell’accesso alle sinecure statali grazie alla benevolenza di Francesco Principe, suo sindaco per quasi trent’anni e politico molto influente. La modernità (la maturità), fanno uscire il paese dalla povertà e aprono nuove prospettive a Giuseppe e i suoi coetanei, ai quali il mondo del borgo stava stretto. Giuseppe, completate le scuole superiori a Cosenza, entra come studente e subito anche come dipendente alla nuovamente istituita Università della Calabria.
Ma il prezzo che Rende e altri piccoli centri del Mezzogiorno pagano per una siffatta modernità è la rapidissima scomparsa del lavoro, della sua dimensione comunitaria, degli antichi mestieri e, gradualmente, di tutte, o quasi, le istituzioni e i rituali della comunità. La favola dei pignatari, con cui l’autore conclude la sua Bildungsgeschichte, suona come un accorato pianto per l’autonomia perduta.
Marta Petrusewicz
Rende, luglio 2021
PROLOGO
Amo la mia terra
Amo la mia terra, ci passo i miei giorni perché tra quegli alberi i ricordi mi parlano e mi tengono compagnia. Rivivo episodi di quand’ero bambino. Faccio le cose che vedevo fare ai grandi, per come le percepivo.
Rivedo mio nonno che sbuccia una pera per me e mio fratello, seduti su un muretto, mentre ci racconta di quando era soldato del Re, della guerra combattuta da volontario, quella vinta con più morti di chi l’ha perduta, lasciati sui campi di battaglie perse.
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