Marianna Sirca
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Edizione integrale
L’universo arcaico e immobile della Serra nuorese, la durezza e l’inospitalità del clima barbaricino e un ambiente rurale e montano inconciliabilmente diviso fra padroni, servi e banditi costituiscono il paesaggio geografico e sociale in cui si svolge la storia della contrastata passione fra due personaggi – la possidente Marianna e il giovane bandito Simone – che tentano di violare l’incomunicabilità fra i ruoli imposti loro dal destino. L’eroina deleddiana, pur di rifiutare le immutabili leggi e consuetudini della propria terra, è disposta a legarsi a Simone «più per la morte che per la vita». Alla fine il protagonista più debole, votato alla promessa e all’impegno di un impossibile matrimonio, dovrà soccombere. Con Marianna Sirca si conferma la visione romanticamente pessimistica della grande scrittrice sarda, secondo cui nessuno può sfuggire all’infelicità e al destino, essendo tutti costretti nel carcere della propria condizione.
Grazia Deledda
(Nuoro 1871 - Roma 1936) esordì come narratrice su un periodico di moda. Nel 1926 ottenne il premio Nobel per la letteratura. È stata definita la scrittrice del verismo romantico. Restano famosi alcuni suoi titoli: Elias Portolu; Marianna Sirca; La madre. Delle sue opere la Newton Compton ha pubblicato Canne al vento, Marianna Sirca e Tradizioni popolari di Sardegna.
Grazia Deledda
Grazia Deledda was born in 1871 in Nuoro, Sardinia. The street has been renamed after her, via Grazia Deledda. She finished her formal education at 11. She published her first short story when she was 16 and her first novel, Stella D'Oriente in 1890 in a Sardinian newspaper when she was 19. Leaves Nuoro for the first time in 1899 and settles in Cagliari, the principal city of Sardinia where she meets the civil servant Palmiro Madesani who she marries in 1900 and they move to Rome. Grazia Deledda writes her best work between 1903-1920 and establishes an international reputation as a novelist. Nearly all of her work in this period is set in Sardinia. Publishes Elias Portolu in 1903. La Madre is published in 1920. She wins the Nobel Prize for Literature in 1926 and received it in a ceremony the following year. She dies in 1936 and is buried in the church of Madonna della Solitudine in Nuoro, near to where she was born.
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Anteprima del libro
Marianna Sirca - Grazia Deledda
564
Prima edizione ebook: agosto 2016
© 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-9822-7
Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma
www.newtoncompton.com
Grazia Deledda
Marianna Sirca
Introduzione di Anna Dolfi
Edizione integrale
Newton Compton editori
Introduzione
Marianna Sirca, nel 1915 (questa la data della prima pubblicazione del romanzo presso il milanese editore Treves), si inserisce in un quinquennio di ripensamento, di pausa nella produzione deleddiana. Quasi che dopo l’avvio in maggiore che aveva accompagnato il fìtto inoltrarsi nel Novecento (si ricordino, tra gli altri, alcuni titoli e date particolarmente significativi: II vecchio della montagna, 1900; Elias Portolu, 1903; Cenere, 1904; L’edera, 1906; Colombi e sparvieri, 1912; Canne al vento, 1913) la Deledda avesse sentito il bisogno di un periodo di meditazione scandito quasi unicamente dalla stampa di raccolte di racconti, prima di chiudere nel 1920, con La madre, il ciclo dei romanzi sardi e avviare, con II segreto dell’uomo solitario (1921), La danza della collana (1924), Annalena Bilsini (1927), II paese del vento (1931), La chiesa della solitudine (1936), Cosima (1937) un nuovo periodo contrassegnato da istanze e turbamenti di marca simbolista-decadente. Marianna Sirca, assai più di alcuni dei romanzi di poco precedenti, è tutto inscritto nella tipologia della prima maniera (in quella linea che aveva trovato origine nel primo vero romanzo deleddiano, La via del male), incentrato com’è, malgrado l’importanza della figura femminile che dà titolo al libro, anche sulla descrizione e ricostruzione di un paesaggio e di un ambiente. Che è quello della Sardegna montana, meglio si direbbe barbaricina, delimitata da un centro abitato (Nuoro) e dalle montagne (quelle della Serra nuorese, dove hanno sede la casa colonica e i terreni ereditati da Marianna), una Sardegna dove la terra è tutto e dove, in nome e a causa del patrimonio da mantenere, custodire, conquistare, ci si divide in padroni, servi, banditi. A costituire categorie e classi distinte, con difficile e scandaloso transito dall’una all’altra, ma pur accomunate da una sorta di regola comune, che è quella dell’omertà di gruppo, dell’obbedienza. Al denaro, alle sue necessità, alle fatiche per mantenerlo si assoggettano i padroni (così va letto il sacrificio della giovinezza di Marianna in cambio di una fortuna familiare); al suo valore, al potere che inevitabilmente conferisce si piegano i servi in posizione intermedia si collocano i banditi che, di provenienza spesso servile (il caso, nel romanzo, di Simone Sole), osano almeno sognare uno status diverso, una libertà che ai padroni dà solo e parzialmente il denaro, ma pagando poi questo sogno, e la violenza che comporta, con un prezzo assai caro, se è vero che una certa qual aura di terribile nobiltà che li accompagna e li avvicina per un attimo ai proprietari ha come complementare risvolto il forzato esilio e la clandestinità. Costretti tutti insomma, nelle tre distinte categorìe, a obbedire alle leggi necessarie della propria situazione e a subirne l’inevitabile fatalità, che condanna comunque alla solitudine.
Marianna Sirca ci offre, di queste tipologie (raramente riunite assieme), una esemplificazione su doppio o triplo modello, con gradazioni differenti d’appartenenza che vanno da un minimo a un massimo d’intensità. E saranno allora Marianna, il vecchio Berte (singolare figura di padre mite/quasi servo, caso unico nell’universo deleddiano caratterizzato da padri/padroni), Sebastiano Sirca a rappresentare il mondo padronale (ma partendo dall’apice della proprietà per arrivare a chi soltanto fedelmente la custodisce o a chi ne è nobilitato di riflesso, per parentela lontana); Bantine Fera, Simone Sole, Costantino Moro a graduare quello dei fuorilegge (muovendo dalla ferocia spregiudicata del giovanissimo Bantine ai piccoli e contrastati reati di Simone, per arrivare al paradossale Costantino, che prega invitando al pentimento e alla cessazione della violenza e allerta le vittime dei soprusi); Fidela (e la radice del nome è già indicativa) e anonime e sfocate figure di servi a rappresentare quello subalterno. Ove poi si ricordi che, eccezion fatta per i banditi, tutti vivono sotto lo stesso tetto, in una promiscuità fortemente soggetta a tabù di intoccabilità, obbedienza e divieto, riuniti ogni giorno nello stesso luogo privilegiato della cucina, con i mantelli appesi dinanzi allo stesso focolare (come «fa il servo o fa il padrone» appunto, non l’ospite). Essendo poi presi tutti, inclusi i banditi, oltre che nel «carcere» della propria condizione, in quello più generale della vita; giacché nell’universo deleddiano non si dà mai salvezza, e i personaggi, quali che siano i comportamenti, le scelte, devono scontare la prima, fondamentale colpa di «esser vivi». Così a poco servono le parole, che non possono che richiamare alla fallibilità, alla rinuncia, alla necessità del sacrificio (speculari in questo senso, nei confronti di Simone e Marianna, i ruoli di Costantino e Fidela). I personaggi si muovono silenziosi, liberi soltanto nei deliri notturni o in un reale che subito si configura nelle forme del sogno; durante il giorno, alla luce vera delle cose, le loro allocuzioni paiono non conoscere il dialogo, si trasformano piuttosto in ordini, minacce, invocazioni. Che rinviano, per cammini diversi, a una tacita, oscura lex che vieta comunque agli uomini di essere felici. Anche nelle colpe i personaggi sembrano obbedirle, mentre vanno verso la loro certa rovina (così Marianna, Simone, e diversamente Sebastiano), con una sorta di consapevolezza di «crepuscolo» (non a caso parola ricorrente), di fallimento.
Aperto sul tramonto, in tramonto il libro si chiuderà, quando tutti i personaggi avranno fino in fondo esperito l’immutabilità della sorte, condannati a restare dov’erano o a pagare con la vita il desiderio di una collocazione diversa (il caso di Simone). Chi è senza status senza status rimarrà, nell’impossibilità di liberarsi dai legami che lo stringono alle scelte o alla fatalità del passato. Non ci sarà futuro possibile per Simone (vittima del suo essere tra due mondi e due sistemi di valori: quello di Marianna, ovvero della società civile, e quello libero ed eversivo dei grassatori), per Sebastiano (ricacciato nel suo essere «né giovane né vecchio, né ricco né povero», sostanzialmente senza speranza, dall’inutile omicidio finale, vissuto per altro con successivo, acuto senso di colpevolezza), per Marianna, che è comunque l’unica a scegliere davvero la propria sorte, o a subirne in modo consapevole, maturo, l’inesorabile accadere. Pure, anche in lei, come negli altri personaggi, si verifica come uno sdoppiamento costante, nella contrapposizione possibile (dinanzi a un Simone mite e innamorato oppure orgoglioso e feroce; a un Sebastiano rispettoso e ironico oppure ostile e passionale) di «due Marianne ben distinte, una che parlava a Simone, curva su lui come sull’acqua di una fontana nella quale tentava invano d’immergere le labbra arse, l’altra vigile e fredda ad ascoltare, pronta a difendersi e a difendere la sua compagna incauta». Ogni personaggio è quindi come rispecchiato, prima ancora che nell’altro a lui corrispondente, in se stesso; come a ritrovare, nel fondo di una metaforica fontana o di un pozzo allusivo, l’ambigua duplicità del carattere, la complessa realtà di una multiforme personalità. E rispecchiato in quanto gli assomiglia e in quanto gli si oppone, in quel che ama e in quanto lo respinge, a costituire, per tutto il romanzo, coppie sempre mobili che accostano alla diade centrale Marianna/Simone, Simone e Sebastiano (ambedue i nomi iniziano con la S e i personaggi sembrano anche fisicamente contrapposti, l’uno giovane, l’altro senza età, bandito dagli occhi azzurri il primo, tranquillo borghese con occhi e barbetta scura il secondo), Bantine e Marianna (i due oggetti del desiderio di Simone, opposti e parimenti generatori di sofferenza, quasi braccia di «una stessa croce»), Sebastiano e Costantino (per sostituzione di presenza e spostamento di ruolo), Marianna e la madre (o la sorella di Simone, accanto alle «due prime», «due seconde» sorelle già in coppia), e poi, nella solitudine, Fidela e Marianna, Simone e Costantino. Intorno, al di là dei prati e dei boschi, dei temporali e della pioggia (la tipica natura sconvolta consonante con lo stato d’animo dei personaggi che la Deledda aveva certamente ereditato dal romanzo romantico, gotico e d’appendice che era stato alla base della sua formazione letteraria di autodidatta), soprattutto la neve e il fuoco, ovvero quanto brucia e quanto poi lentamente, mortalmente nasconde. Il paesaggio di Nuoro sotto la neve, a Natale, d’altronde, aveva subito risvegliato l’immagine di «un grande cimitero», inclinando in senso funebre-luttuoso l’incontro dei due giovani amanti. Ciò che poteva preludere al matrimonio e alla vita si chiude in bodas de sangre, in nozze di morte. Il banchetto «funebre» imbandito da Berte è quanto può offrire alla riunione improvvisa di tutti i personaggi in scena un carattere paradossalmente nuziale, con la presenza anche del prete, dell’anello (si ricordi il «qualcosa di religioso in quella cena»).
Spento il fuoco della passione con quell’acqua sulla quale i personaggi si erano a lungo chinati per riconoscersi e trovare nel fondo assieme l’altro e se stesso («mi ricordo un giorno che noi due assieme si guardava dentro il pozzo ove era caduta qualche cosa, e ti sentivo vicino e vedevo i nostri due visi in fondo al pozzo»; ma non diversamente «Si chinarono assieme verso il fuoco, silenziosi, come scrutando nelle forme delle brace il loro destino»), non resta che la fontana nella quale alla fine si chinerà Simone da solo, qualche attimo prima di cadere colpito a morte. L’acqua che aveva restituito assieme i due volti mostra ormai soltanto ciò che è distante, passato, scomparso, senza alcuna possibilità di tornare alla luce. Quel pozzo di «sogno» e «dolore» che solo per attimi affiora alla superficie degli occhi facendo credere a un’immagine afferrabile di felicità, dagli occhi riprecipita al fondo, in luoghi nascosti, ulteriori, nei quali, di ciò che era sogno, non si recuperano ormai più che barlumi trasposti. Divenuto di nuovo specchio il pozzo, ma non di un ritrovamento tremante dell’anima¹ (sarà da leggere così l’immagine riflessa e unita dei due amanti), ma di una solitudine impetrata («s’avvicina al pozzo e, senza volerlo, vi guarda dentro; ma la sua immagine sola si riflette nell’acqua ferma metallica e rotonda come uno specchio brunito»). Accanto alla fontana, a scaturire è ormai il sangue, per un battesimo di fuoco diverso da quello di purificazione che aveva sognato Marianna, quando aveva sperato che Simone si lavasse «l’anima come il viso alla fontana». Nella camera di lei, la spoliazione del giovane, quasi trasformato in agnello pasquale, immagine cristologica (la ferita al costato, l’aceto...), scandisce un’appartenenza che può essere soltanto «nella morte, nell’eternità». Ma era cosa che si era da sempre saputa, se Marianna, in tempi che ancora avrebbero potuto essere felici, aveva dichiarato di volersi legare a Simone «più per la morte che per la vita».
Ed ecco rivelarsi allora, a latere di un paesaggio ricorrente (che è di pastori e di tancas), e della rigida divisione in classi di cui si diceva, un’altra delle caratteristiche del mondo deleddiano: quella di un eros che è sempre, geneticamente si potrebbe dire, distruttivo e colpevole, generatore di colpa o di morte, possibile solo (impossibile quindi) ove sia oltrepassato il tempo umano, e con quello lo spazio del corpo. Gli stessi momentanei abbandoni di Marianna e Simone vengono, post factum, inscritti dai protagonisti in un’aura irreale: momenti isolati nei quali la donna può offrirsi in una sorta di immagine liberty («trecce come serpentelli», capelli ritorti) e l’uomo in una specie di tenera, inerme, sfocata solarità. Non è un caso che Simone Sole (ove per un attimo si renda significato al nome) possa mostrarsi alla sua donna soltanto al lume di luna; né che la luna sia l’astro più vicino alla circolarltà dell’acqua, del pozzo, all’umidore degli occhi e del pianto. Ma la contrapposizione (l’ennesima: sole/luna stavolta, e diversamente uomo/donna) non è priva di contraddizioni: e così Simone, «animale» solare per forza d’amore circoscritto alla notte, si troverà, quell’amore, a sconfessarlo quando il giorno, nella persona di Bantine Fera, lo ridesta nella sua assopita virilità. La donna e la libertà paiono fatalmente contrapporsi, così come la vita e la morte, l’eros e la possibilità di esistenza. L’amore si qualifica come forza potentemente distruttiva e allo stesso tempo inarrestabile: tutti ne sono vittime, sia pure in forme e gradazioni diverse: Marianna, Simome, Sebastiano, Costantino. Due fino a morime o dare la morte, mentre a Marianna resterà il destino dell’immobilità, adombrata anche in un tardivo matrimonio reso possibile da un’eco perduta del passato («E disse di sì, perché gli occhi del pretendente rassomigliavano a quelli di Simone»). Ma è proprio la forza del destino che travolge con la violenza della passione rendendo inutile ogni resistenza o consapevolezza, a dare qualcosa di grandioso all’universo deleddiano. l personaggi, che mentre credono o tentano di guidare la loro esistenza si sanno in balìa di forze più forti di loro che con corso inesorabile li menano alla morte, avvicinano l’arcaico mondo della Sardegna e i suoi drammi a quello della tragedia antica. Non solo le sofferenze esplicite, ma ogni scelta, ogni momento di quiete sono come sempre velati da un velo cupo di tristezza, da un basso continuo che risuona come un tragico, vetero-testamentario memento mori. Nessuno è libero; ognuno porta in sé il proprio destino, condannato a seguirlo, o meglio ad adempierlo, per una doppia ragione genetica (assieme fisica e sociale) e per una più generale condanna esistenziale. Nessuno sfugge all’infelicità, né i padroni né i servi; per tutti si «schiccano» gli acini dell’uva che la Deledda, in una fin troppo facile comparazione, fa rotolare «sul pavimento come i grani di una collana rotta». E la collana, ce lo dirà, ove ce ne fosse bisogno, un testo del 1924 che la collana recherà nel titolo, è metafora della vita, così come l’anello lo è della felicità impossibile. Non a caso rotta la collana dunque, e rubato l’anello (quello che Simone avrebbe dovuto offrire a Marianna), quasi ad alludere che la vita e la felicità sono un furto non consentito (e furto verso quel primo, assoluto padre /padrone che è Dio), qualcosa che si può toccare per un attimo ma per restituirlo subito, dopo dura espiazione, quasi a certificare, a ribadire l’accettazione, la necessità di una vita ove la felicità non può darsi. Giocando con acini d’uva tra le mani, i personaggi del romanzo giocano per un anno con la vita (tra una primavera e quella dell’anno successivo si svolge la storia quasi completa di Marianna Sirca) dimenticando nell’ebrezza dell’impossibile la grande distesa di ghiaccio e il mondo fuori, «pari a una grande nave naufragata fra i ghiacci» («il ciclo stesso si abbassava sempre più, abbandonandosi su tanta tristezza come una vela morta»). L’illusione del rispecchiamento cercato sarà per loro occasione di speranza, di riposo («Sono venuto a riposarmi come il viandante accanto alla fontana»), ma subito affabulata nei toni della fiaba, nell’incerto discrimine subito stabilito tra sogno e realtà. Ai servi (che sono in Marianna Sirca senza velleità o ambizioni), o meglio alla serva Fidela che tutti li rappresenta, il compito di porsi come realtà inflessibile tra i due giovani amanti; di operare con inesorabile, immobile presenza la trasformazione della prima cena tra il vecchio Berte, Marianna, Sebastiano e Simone (arrivato per ultimo a ridestare l’amore) nell’altra, che seguirà un anno dopo, con scambio di ruoli e di figure maschili, tra Berte, Marianna, Costantino (in luogo di Simone), Sebastiano (arrivato per ultimo, ma per minacciare la morte). Le figure di fiaba si sono insomma cangiate in ombre minacciose, ostili, mentre anche le leggende, i racconti nati sulle gesta dei banditi, i loro viaggi per monti, chine, borri, dirupi, labirinti, grotte, quell’andare mitico del racconto (si pensi a «racconta», «racconta», «dunque devi sapere», «cammina, cammina»...) si traducono in elegiaco spossessamento dal proprio presente, da un passato che diventa mitico anch’esso, possibile non nella realtà ma nel suo improbabile riflesso speculare. Un’unione percepibile all’esterno solo dagli occhi di una malata: la vecchia madre di Simone, che potrà vedere l’immagme del figlio nelle pupille di Marianna, ma per trovare poi, nella tanca tra i monti, le pupille del ragazzo chiuse per sempre.
Anna Dolfi
1Per una lettura tra es e anima di Marianna Sirca, sia consentito il rimando ad A. Dolfì, Grazia Deledda, Milano, Mursia, 1979, pp. 126-129.
Nota biobibliografica
LA VITA
Grazia Deledda nacque a Nuoro il 27 settembre 1871, da Giovanni Deledda e Francesca Cambosu, in una famiglia della piccola borghesia isolana. Fu costretta, malgrado l’ottimo profitto (per il suo essere donna nell’Ottocento, e in Sardegna), a frequentare solo le scuole elementari, a ripetere l’ultima classe (per usufruire ancora per un anno dell’insegnamento pubblico), e a lasciare il resto della sua formazione culturale alle imprecise e varie possibilità che avrebbe potuto offrirle la vita. Alle lezioni sistematiche, ma fortuite di un professore regio capitato in casa della zia Paolina con casse piene di libri e poi misteriosamente scomparso, seguì un periodo ricco di letture personali, una educazione sostanzialmente da autodidatta (avrebbe letto soprattutto i francesi, i russi, il romanzo d’appendice, D’Annunzio...); mentre la vita in famiglia si faceva sempre più difficile a causa dei dissesti finanziari del commercio paterno e dei problemi creati dai due fratelli maggiori (Santus, alcolizzato fino al delirium tremens; Andrea, arrestato per furto e per spaccio di monete false).
Il conseguente ripiegamento interiore facilitò nella Deledda lo svilupparsi di una fantasticata, sognante, protratta adolescenza, piena di romantici vagheggiamenti di gloria e