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I due regni
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E-book629 pagine9 ore

I due regni

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Info su questo ebook

Nel regno di Altharis il re Orthar vive lontano dalla regione natia a causa di contrasti insorti con l’Ecclesia, un’organizzazione che riunisce tutti i sacerdoti, e il cui vertice – il Sommo Pontefice – regola a propria indiscrezione ogni aspetto della vita dei cittadini.
Uno scontro di ideologie e di poteri ha portato a una frattura senza precedenti tra i due, dando vita così a un periodo di crisi spirituale e di instabilità.
A seguito della morte del Sommo Pontefice, il re viene invitato dalla congregazione di sacerdoti nella capitale dell’Ulghemit per un incontro che possa riportare pace e tranquillità.
L’arrivo di Orthar è seguito da un tentato omicidio: sospetti di tradimento si propagano a corte, amici e alleati. Tutti possono avere interesse a eliminare il re…
Eladia, moglie di Orthar, grazie anche alla sua magia, giocherà un ruolo fondamentale in una vicenda adrenalinica e coinvolgente. Intrighi, cospirazioni, tradimenti si contrapporranno a lealtà, coraggio, fiducia.

I due regni ci offre un’avventura dal sapore fantastico, ci conduce in un mondo magico in cui vivere un’esperienza dal ritmo serrato, in cui sentimenti quali amicizia e amore sfidano sete di potere e infamia.

Kariba deglutì, cercando freneticamente di pensare: che quel drago fosse lì per ucciderla? Si diceva che la spada che Eladia portava sempre le fosse stata donata proprio dai draghi, quindi probabilmente era in buoni rapporti con loro: che avesse chiesto il loro aiuto contro di lei? In quel caso era morta: la magia non aveva effetto sui draghi e nemmeno i Cavalieri Senza Volto avrebbero potuto aiutarla.
 
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2017
ISBN9788867933259
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    Anteprima del libro

    I due regni - Giada Demaria

    dall’i

    Capitolo I

    L’inverno stava lentamente allentando la sua morsa sulla terra: i suoi tentacoli di neve si ritiravano ogni giorno a vista d’occhio e lambivano ormai solo le montagne. Le primule sbocciavano ovunque, trapuntando di giallo il terreno da cui cominciavano appena a sbucare i primi ciuffi d’erba verde e tenera. Era ancora presto per le farfalle, ma gli uccelli saettavano da un albero all’altro con rinnovata energia, cantando l’arrivo della primavera, presaghi del fatto che stava arrivando per loro il momento di cercare una compagna e nidificare.

    Tutta la natura si stava stiracchiando, pronta a risvegliarsi, e così anche gli uomini, più o meno consapevolmente. I contadini, infatti, erano ovviamente legati ai cicli della terra, ma anche chi non aveva un campo da preparare per la semina dava inizio quasi inconsapevolmente a nuovi progetti. E a nuove discussioni.

    Parlami dell’Ulghemit esordì la regina di Altharis, Eladia, sedendosi accanto a suo marito.

    Erano soli nella grande biblioteca del Palazzo d’Avorio e stavano discutendo dei loro progetti per l’immediato futuro. Tra questi, una visita all’Ulghemit. Orthar non era molto entusiasta all’idea, ma sapeva che era necessario: aveva rimandato fino a quel momento servendosi dell’inverno come scusa, ma nella sua terra natia c’erano troppe questioni in sospeso da sistemare. Nessuno laggiù l’aveva più visto dopo la sua partenza per Altharis e, in seguito, i sacerdoti dell’Ecclesia avevano dipinto chissà quale orrido ritratto di lui. Ora il Sommo Pontefice era morto e la sua organizzazione distrutta, almeno ufficialmente, ma nell’Ulghemit c’erano ancora molti sacerdoti – non ultimi quelli che componevano il consiglio cui era stata affidata la gestione del regno in assenza del re – ed era probabile che almeno la maggior parte lo odiasse e continuasse a cercare di ritrarlo come un eretico schiavo delle sue passioni animalesche che avrebbe condotto tutti alla rovina.

    È un territorio molto vasto rispose infine, ma non molto abitato. Non dovunque, almeno. È diverso da qui: molte zone sono aride, quasi desertiche. Ha una sua bellezza, ma non è molto ospitale, anzi. Per la maggior parte della popolazione la vita è molto dura: la terra è difficile da coltivare e trovare acqua a sufficienza sia per se stessi che per i campi è anche peggio. Tra le classi sociali più basse c’è una grande povertà.

    Come dimostra il dilagare della schiavitù commentò Eladia con amarezza.

    La schiavitù, ufficialmente almeno, era legale anche ad Altharis, ma era difficile imbattersi in uno schiavo tanto era esiguo il loro numero. Quell’anno, invece, da quando le strade erano ritornate facilmente percorribili erano cominciati ad arrivare i primi venditori ambulanti di merce umana. Sapendo che il re risiedeva a Pictahel tutti si erano diretti in primo luogo verso la capitale, per dare l’opportunità alla corte reale di avere la prima scelta, ma la regina non aveva apprezzato la cortesia e, vuoi per accordo con le sue idee, vuoi per timore di contrariarla, nessuno in città aveva partecipato alle aste. I venditori, quindi, seppure avviliti, avevano smontato i loro palchi, impacchettato le loro merci e si erano dispersi verso le varie contee nella speranza di un maggiore successo.

    Orthar sospirò: La schiavitù è una delle peggiori invenzioni umane, ma non c’è molto che possiamo fare a riguardo. Anche le leggi promulgate dalle tue antenate la permettono.

    Come alternativa alla prigione per alcuni reati minori o per ripagare un debito. E comunque solo temporanea e con la garanzia della tutela di alcuni diritti essenziali lo rimbeccò lei, caustica.

    Lo so. Ma, come tentavo di spiegarti, nell’Ulghemit è diverso. In alcune zone la gente muore di fame: chi ne ha l’età e la costituzione fisica si arruola, se trova un nobile con dei posti vacanti all’interno del suo esercito, chi non può si vende come schiavo. Non puoi impedirglielo senza condannarli a morte. Non c’è altra soluzione. Non possiamo aiutare tutti i bisognosi: neanche il regno di Altharis può permetterselo, per quanto ricco. Tutto quello che possiamo fare è inasprire le pene per chi si procura schiavi illegalmente, rapendo ragazzi e ragazze dalle campagne per poi venderli contro la loro volontà, e obbligare i proprietari a seguire delle regole per quanto riguarda il trattamento dei loro schiavi.

    Eladia annuì, anche se senza convinzione.

    Era proprio questo ciò che preoccupava Orthar riguardo al prossimo viaggio nell’Ulghemit: le reazioni di sua moglie. Molte cose avrebbero provocato la sua indignazione, lo sapeva bene. Senza contare che tutti laggiù erano abituati a vivere secondo i rigidi dettami dell’Ecclesia: se molte cose avrebbero fatto indignare la sua sposa, allo stesso modo lei avrebbe suscitato l’indignazione di molti. Forse nessuno avrebbe osato dire nulla, però, almeno a palazzo. Sì, decisamente una volta arrivati a Bartinaha, la capitale dell’Ulghemit, e sistemati nella residenza reale non ci sarebbero più stati grossi problemi e… Di colpo gli sovvenne un pensiero che aumentò a dismisura le sue ansietà. Non ci aveva più pensato durante l’anno trascorso ad Altharis, ma lui aveva un harem a Bartinaha.

    ***

    Orthar non aveva esagerato descrivendo le condizioni di vita nell’Ulghemit: il clima era impietosamente secco e la terra non eccessivamente fertile, vuoi per la sua stessa composizione, vuoi per la mancanza d’acqua. La gente si arrangiava come poteva per sopravvivere e, quando non ci riuscivano più, alcuni finivano per offrirsi come schiavi, soprattutto dalla mezza età in poi. Tra i giovani, invece, questa pratica non era molto diffusa: pur essendo forse alimentata unicamente dalla mancanza di esperienza, infatti, la speranza di riuscire ad andare avanti senza perdere la libertà sosteneva anche quelli che per qualsivoglia ragione non potevano o non volevano arruolarsi in un esercito. E questo era il più grande cruccio dei venditori di schiavi: la domanda di esemplari giovani era sempre maggiore rispetto all’effettiva disponibilità di questo genere di mercanzia. Così erano nati i cosiddetti cacciatori di uomini: mercenari senza scrupoli che rapivano il maggior numero possibile di ragazzi – ma soprattutto di ragazze – provenienti da famiglie disagiate e rifornivano così i mercanti di schiavi.

    Nella carovana che era appena arrivata a Nirthaen, capitale di Lorstia, una delle contee del regno di Altharis, vi era una discreta scelta tra la merce offerta e, ovviamente, gli esemplari più giovani arrivavano proprio dalle ricerche di questi particolari cacciatori. Uno di questi esemplari era una ragazza di circa diciassette anni dai lineamenti delicati incorniciati dai vaporosi capelli biondi. Era smagrita e prostrata dal viaggio, anche se il mercante, un ometto calvo e grassoccio, aveva cercato di risparmiarla il più possibile, essendo conscio del fatto che fosse una merce di un certo valore: aveva sperato di venderla per un buon prezzo a Pictahel ma, sfortunatamente, gli abitanti della capitale non erano sembrati interessati ad acquistare schiavi. Il mercante si augurava sinceramente di avere maggior fortuna lì a Nirthaen perché temeva che altrimenti quella ragazza non ce l’avrebbe fatta a reggere la marcia anche durante il viaggio di ritorno nell’Ulghemit – era troppo delicata – e per i suoi affari ciò avrebbe costituito una grave perdita.

    Vieni, si comincia le intimò, quindi, afferrandola per un braccio non appena i suoi assistenti ebbero finito di montare il palco: meglio cercare di venderla subito, prima che i potenziali acquirenti, dopo aver acquistato altri schiavi meno costosi, diventassero restii a sborsare la somma che sperava di ricavare da lei.

    La ragazza vi si lasciò trascinare sopra, troppo stanca e intimidita per ribellarsi: pur non essendo la prima volta che veniva esposta all’asta, infatti, non riusciva a liberarsi dall’angoscia e dalla vergogna che provava nel trovarsi lì, osservata con calcolo o con lascivia da un numero imprecisato di occhi che sembravano penetrare anche attraverso la misera e ormai lacera tunica, che comunque non nascondeva affatto il suo corpo, facendola sentire indifesa e vulnerabile, al contrario degli ampi e pesanti indumenti – concepiti appositamente per rendere una donna invisibile e asessuata – che aveva sempre indossato quando viveva libera nell’Ulghemit con la sua famiglia.

    Una discreta folla, intanto, si era radunata nei paraggi spinta dalla curiosità e alcuni stavano ammirando la fanciulla.

    Rendendosene conto il mercante sorrise, soddisfatto, e cominciò: Signore e signori, venite! Se avete bisogno di servitù, oggi è il vostro giorno fortunato! Ho qui i migliori esemplari di schiavi che potete trovare, e a prezzi molto competitivi. Vedete bene che non mento! continuò indicando la ragazza accanto a lui. Poi aggiunse, ammiccando maliziosamente: Certo, questa qui forse non ve la consiglio per lavorare nei campi, ma sono sicuro che il fortunato che l’acquisterà saprà come sfruttare al meglio le sue potenzialità! Guardate qui! È magrolina, ma ben fatta: guardatela bene! E poi aggiunse con aria confidenziale, è vergine! Pensateci, sarete i primi e, se vorrete continuare a tenerla, gli unici a possederla! Non capita tutti i giorni! Comunque, se prima di procedere all’acquisto volete dare un’occhiata alla merce… con queste parole il mercante fece per strappare il davanti del vestito della ragazza che, inorridita, tentò di divincolarsi, riuscendo solo però a far sferragliare le catene che le imprigionavano i polsi.

    Non è necessario. Offro venti pezzi d’oro per lei! lo interruppe una voce tra il pubblico.

    Tutti si scostarono e un soldato di mezza età si fece avanti ripetendo la sua offerta. Non era un uomo molto alto, ma aveva spalle larghe e braccia muscolose, temprate probabilmente dall’esercizio fisico in generale ma in particolare dai combattimenti con lo spadone che gli pendeva al fianco. L’espressione sul suo volto era praticamente indecifrabile, ma i folti baffi castani concorrevano a dare un’impressione di risolutezza al quadro generale.

    Bene sorrise il mercante, interrompendosi immediatamente e non senza una certa teatralità. Vedo che il signore vuole garantirsi il privilegio di essere l’unico a posarle anche solo gli occhi addosso. Non che possa biasimarvi, signore, ma bisogna tener conto che gli altri acquirenti potrebbero pensarla diversamente, e non potrei mai negare a un mio cliente il diritto di visionare il prodotto prima di acquistarlo… soprattutto se questo cliente facesse un’offerta più generosa della vostra. Dunque, che l’asta abbia inizio! Il signore qui offre venti pezzi d’oro – e a scatola chiusa – Qualcuno offre di più?

    In effetti la ragazza messa all’asta era piuttosto graziosa e alcuni tra i più ricchi fecero delle offerte, ma il soldato che aveva parlato per primo rilanciava sempre, imperterrito, finché gli altri non si ritirarono.

    Molto bene concluse il mercante. Dunque, venduta per cento pezzi d’oro! Per quanto, non per offendervi signore, ma mi sembra strano che un soldato possa permettersi una tale spesa.

    Bada ai tuoi affari, mercante lo rimbeccò questo gettandogli una borsa contenente il prezzo stabilito. Io so gestire i miei.

    Il mercante afferrò al volo la borsa, ne verificò il contenuto e quindi consegnò la ragazza al suo nuovo proprietario insieme alle chiavi delle catene, prima di riprendere il suo lavoro di banditore, cominciando a enumerare le qualità di un altro schiavo.

    La fanciulla, che aveva seguito l’asta con la morte nel cuore, guardò terrorizzata il soldato che la stava trascinando via dalla piazza: non era stupida, sapeva fin dal momento del suo rapimento per quale scopo l’avrebbero messa in vendita, e l’idea di essere finita nelle mani di quell’uomo… Avrebbe potuto essere suo padre, forse suo nonno: il solo pensiero che la toccasse la disgustava.

    Rassicurati, figliola le mormorò lui con un sorriso confortante, che distese i suoi lineamenti severi, vedendo la sua espressione orripilata. Non è per me che ti ho comprata, ma per conto del mio signore.

    Lei lo guardò interrogativamente, ma non riuscì a fare domande: non era abituata a parlare con uomini estranei e in quel momento, poi, era decisamente troppo sconvolta.

    Il mio signore è il proprietario di questa contea le spiegò il soldato con orgoglio. Ti ha vista perché ogni tanto se ne va in giro per la città in incognito, ma non poteva acquistarti di persona: avrebbe attirato l’attenzione e qualcuno l’avrebbe riconosciuto. Per questo ha lasciato l’incarico a me. ‘Comprala per qualsiasi cifra: non importa quanto costerà’ mi ha detto. Sei fortunata, te l’assicuro: il mio signore è una brava persona e sono certo che ti tratterà bene.

    – Bene come si può trattare una sgualdrina – pensò senza allegria Alyra, questo era infatti il nome della giovane schiava, mentre seguiva il suo compratore fuori città, fino al castello feudale del signore di Lorstia.

    Il signore in questione doveva averli preceduti lì perché, al loro arrivo, una corpulenta e non più giovanissima cameriera si fece loro incontro nel cortile interno spiegando di aver ricevuto istruzioni dal padrone di occuparsi della nuova arrivata.

    Il soldato annuì e si congedò con un gesto, mentre Alyra rimase con la sua nuova custode. Era contenta di essere in compagnia di un’altra donna, ma non ne approfittò per conversare: era cresciuta nell’Ulghemit, sentendo raccontare dai sacerdoti dell’Ecclesia storie sconcertanti sugli abitanti di Altharis, e quindi non si fidava di loro, uomini o donne che fossero.

    Vieni le disse la cameriera. Ti accompagno nella stanza dove alloggerai.

    Quindi le due donne si incamminarono all’interno del maniero. Era una costruzione solida e massiccia, ma non particolarmente sontuosa, anche se per Alyra, abituata a vivere nella misera casupola che divideva con i genitori, sembrò di entrare nella dimora di un re: le pareti erano coperte di arazzi e attraverso alcune delle numerose porte di legno massiccio, lasciate socchiuse, era possibile intravedere camere arredate con mobili pregiati e morbidi tappeti. Indubbiamente qualcuno avrebbe detto che era stata fortunata perché certamente in quel posto non avrebbe rischiato di patire stenti, d’altra parte, però, un signore tanto ricco doveva essere anche potente, e questa considerazione gettò nello sconforto Alyra: non le sarebbe stato facile sfuggirgli per tentare di tornare a casa. Era rinchiusa in una gabbia dorata, ma pur sempre in una gabbia. Tentò almeno di sperare che il suo padrone l’avesse acquistata per lavorare nelle cucine o nelle stalle, ma le sue fragili speranze si infransero entrando nella stanza che le era stata assegnata: era una camera elegante, posta nella zona padronale; una stanza adatta a una signora di nobili origini, o a un’amante.

    Ti ho fatto preparare un bagno la informò la cameriera, richiudendosi la porta alle spalle non appena entrata. Coraggio, vieni qui che ti tolgo le catene e ti aiuto a spogliarti. Era una donna energica, dai modi sbrigativi e un po’ bruschi, ma fondamentalmente di buon cuore, e si interruppe quando vide una lacrima scendere silenziosamente sul viso della ragazza che aveva di fronte. Be’, che hai da piangere, sciocchina? le chiese. Hai una bella stanza tutta per te e non posso credere che tu non voglia farti un bel bagno dopo il viaggio che hai fatto. Nessuno qui vuole farti del male: il padrone ha dato ordine di trattarti con ogni riguardo. Che c’è, dunque?

    Alyra scosse la testa, ma non rispose: se era vero quello che dicevano nell’Ulghemit sulla gente di Altharis, come poteva quella donna capire la sua pena? Probabilmente era abituata a vivere in mezzo alla promiscuità e al peccato fin dall’infanzia.

    La cameriera alzò gli occhi al cielo, esasperata: che quella giovane fosse muta? Decisamente, non sapeva cosa fosse passato per la mente al suo signore quando aveva deciso di raccogliere quella bestiolina selvatica. Be’, tanto peggio per lui: lei avrebbe finito di preparare la ragazza, e poi che se la vedesse lui con lei. Quindi liberò Alyra dalle catene e dal vestito sudicio prima di spingerla gentilmente in una vasca piena d’acqua calda e profumata e aiutarla a ripulirsi. Nel frattempo furono raggiunte da altre due cameriere più giovani che si incaricarono di svuotare e portare via la vasca alla fine delle abluzioni, mentre la più anziana aiutava la giovane schiava a infilare delle vesti pulite.

    Molto bene. Ora sì che sei presentabile. Il mio signore sarà qui a momenti, quindi ti lascio commentò infine la donna, prima di uscire con le altre cameriere.

    Alyra rimase sola per la prima volta dal giorno del suo rapimento. Improvvisamente si sentì stanchissima, spossata dagli avvenimenti delle ultime settimane, e così si sedette sul bordo del letto. Era un bel letto a baldacchino con lenzuola di seta e morbide coperte: comodo, accogliente… e a due piazze. La ragazza sussultò al pensiero del possibile utilizzo di quel letto e si alzò di colpo come se si fosse ustionata.

    Non sapendo che altro fare, cominciò quindi a passeggiare nervosamente per la stanza come un animale in gabbia. La cameriera aveva detto che il padrone del castello sarebbe presto venuto da lei: per vederla, presumibilmente. Di certo non avrebbe preteso immediatamente… O sì? Ma era pieno giorno! D’altronde, però, probabilmente lì nessuno si preoccupava della decenza. Bastava guardare il vestito che le avevano dato: copriva interamente il suo corpo, ma era così aderente da lasciare più che intendere le sue forme.

    Alyra era persa in queste considerazioni quando la porta si aprì. La ragazza sussultò, in preda al panico: il suo padrone era arrivato. Che cosa doveva fare? Inchinarsi, o magari inginocchiarsi? Non voleva sembrargli troppo arrendevole ma, d’altra parte, se non l’avesse salutato avrebbe potuto alterarsi, e allora… Disperata, cercò dì evitare il problema fingendo di non essersi accorta di non essere più sola nella stanza e guardando altrove: il pavimento, la finestra… Qualsiasi cosa pur di non posare gli occhi su di lui e di vedere materializzarsi le sue paure.

    L’uomo si avvicinò senza dire nulla, ma scrutandola con attenzione. Poi allungò una mano verso di lei e le sfiorò delicatamente un braccio per indurla a includerlo nel suo campo visivo.

    Qualcosa scattò nell’animo di Alyra a quel tocco: era stata silenziosa e passiva fino a quel momento, ma quel seppur lieve contatto risvegliò la sua frustrazione.

    Non mi toccare, porco! urlò ritraendosi. Poi tacque, inorridita dalla sua stessa audacia. Cosa aveva fatto? Ora lui si sarebbe infuriato, lo sapeva; come minimo l’avrebbe schiaffeggiata. Chiuse gli occhi, in attesa, ma il colpo non venne mai.

    Alyra? domandò invece l’uomo, in tono incerto.

    La ragazza sussultò: quella voce… Aprì gli occhi: Pemer! gridò, gettandosi tra le sue braccia.

    Pemer l’abbracciò: Sorellina mormorò stringendola.

    Oh, Pemer! Ti credevamo morto! Non abbiamo più ricevuto tue notizie da quando ti sei arruolato… continuò Alyra, ridendo e piangendo contemporaneamente. Dopo un attimo, però, si riscosse: Non puoi restare qui mormorò, concitata. Devi andartene, prima che lui arrivi. Se ti trova qui con me potrebbe pensare che…

    Suo fratello la fissò, perplesso: Ma di chi parli?

    Del proprietario di questo castello, naturalmente! sbottò lei, esasperata Dovresti saperlo: immagino tu sia arruolato nel suo esercito visto che sei qui. Stamattina mi ha acquistata al mercato degli schiavi, e non certo con propositi onorevoli: guarda questo vestito!

    Pemer osservò l’elegante abito blu indossato dalla sorella e mormorò, incerto: Mi… mi sembra di buona fattura. Non ti piace?

    Non è questo il punto! È molto raffinato, certo, ma è… è indecente! Comunque non importa. Se non altro ora so di non essere sola. Forse insieme riusciremo a fuggire da qui commentò la ragazza. Poi si fermò, come colpita da un pensiero: Se pensi che sia fattibile, naturalmente. Non voglio farti correre dei rischi inutilmente: so cosa succede ai disertori.

    Il ragazzo, imbarazzato, si schiarì la gola e fece per parlare, ma fu interrotto da un discreto tamburellare sullo stipite della porta, che aveva lasciato aperta entrando.

    Perdonate, mio signore mormorò il servitore che aveva bussato. Non intendevo disturbarvi ma… è arrivato un messaggero del re e…

    Hai fatto bene ad avvisarmi lo rassicurò Pemer. Fallo accomodare nel salone: sarò da lui tra poco.

    Sì, mio signore rispose il servitore, inchinandosi prima di allontanarsi.

    Intanto Alyra, sconcertata, stava osservando con tanto d’occhi suo fratello: inizialmente non aveva fatto caso al suo abbigliamento, infatti, ma ora notò i pantaloni dal taglio elegante, la camicia di seta e la fibbia d’oro che ne teneva abbottonato il colletto.

    "Tu… tu sei il proprietario di questo palazzo? balbettò, confusa Ma come… ?"

    Il re è stato generoso con me. Avrei voluto dirtelo subito, ma…

    Il re? Quindi hai combattuto per lui l’anno scorso, durante la guerra? Ma è un depravato!

    Niente affatto! insorse Pemer Non devi dare ascolto a ciò che dicono i sacerdoti. Quando sono arrivato qui la pensavo anch’io come te: sono finito in guai seri per questo ed è stato proprio il re a salvarmi il collo. Ho cercato di ripagare il mio debito combattendo per lui e la fortuna ha voluto che avessi l’opportunità di farlo: gli ho salvato la vita sul campo di battaglia e Sua Maestà mi ha ricompensato dandomi questa contea e il titolo nobiliare.

    È incredibile… mormorò Alyra, sconvolta. Poi, di colpo, scoppiò a ridere: E che bella famiglia assortita che formiamo! Tu un potente feudatario e io una schiava!

    Solo nominalmente assicurò lui. E comunque per poco. Sistemeremo tutto al più presto.

    La ragazza non parve molto convinta: Solo il re può affrancare uno schiavo. Tu lo conosci, è vero, ma immagino pensi di averti già ripagato a sufficienza per i tuoi servigi. Perché dovrebbe accordarci questo favore?

    Perché non dovrebbe? Pemer alzò le spalle Gliene parlerò appena lo vedrò: non avrei problemi a supplicarlo di acconsentire, ma non credo sarà necessario. È una persona piuttosto disponibile e, inoltre, potrei sempre appellarmi alla regina: dopotutto sono il suo testimone di nozze.

    Alyra cominciava a sentirsi girare la testa: quanto era salito in alto suo fratello? Chissà cos’avrebbero detto i loro genitori, o gli altri abitanti del loro villaggio, se l’avessero saputo. Stava per formulare ad alta voce questo pensiero quando la porta, diligentemente chiusa dal servitore, venne spalancata bruscamente, consentendo a una ragazza che pareva sua coetanea di entrare a passo di marcia.

    Pemer! tuonò, incrociando le braccia e fissando in cagnesco l’interessato. Normalmente i suoi occhi erano di un morbido color miele di castagno, ma la rabbia li faceva apparire quasi neri. Che significa questa storia? E chi accidenti è lei? Prima me ne andavo tranquilla per la mia strada quando ho sentito due cameriere ridacchiare sul fatto che ti eri comprato una schiava. Non volevo crederci, ma vedo che è la verità! Non so come funzionino le cose nell’Ulghemit, ma se credi di poter riempire di tue amanti casa nostra ti sbagli di grosso!

    Amore, calmati; non è come sembra cercò di difendersi Pemer.

    E com’è allora? Volevi comprare una spada e hai sbagliato bancarella?

    Il ragazzo scosse la testa e prese un respiro profondo: Ho comprato una schiava, è vero, ma solo perché avevo riconosciuto in lei mia sorella. Ti avevo detto di avere una sorella, ricordi? Tesoro, questa è Alyra. Sorellina, ti presento mia moglie, Teristia.

    Capitolo II

    Fin dagli albori del tempo gli esseri umani avevano cercato risposte di fronte ai fenomeni che non riuscivano a spiegare razionalmente, e si erano sempre sforzati di trovarle in ciò che viene normalmente definito religione: la fede nell’esistenza di una forza soprannaturale creatrice e ordinatrice del mondo, che veniva però immaginata sotto aspetti differenti tra le diverse popolazioni. Tra coloro che vivevano all’interno di un territorio fertile, ricco di flora e fauna di vario genere, infatti, c’era la tendenza ad avere una visione politeistica: un mondo così variegato doveva essere il prodotto del lavoro di più esseri, per quanto probabilmente uno fosse il coordinatore e il supervisore degli altri, forse una sorta di madre generosa che aveva cura del benessere dei suoi figli. Viceversa, per chi nasceva in un territorio arido e spesso ostile poteva venir naturale pensare all’esistenza di un unico essere, un sovrano assoluto che era bene non irritare, e la cui dimora doveva essere probabilmente il cielo: l’elemento forse più bello e puro del paesaggio circostante.

    Il secondo caso era quello dell’Ulghemit: secoli prima dell’istituzione dell’Ecclesia la popolazione seguiva già, sia pure con sfumature personali che variavano da un gruppo all’altro, una religione monoteistica, basata sulla venerazione di un Signore del Cielo che premiava coloro che, sia pure con grande sacrificio, riuscivano a compiacerlo e puniva senza pietà chi aveva la disgrazia di contrariarlo. Quando poi il capostipite della dinastia da cui discendeva Orthar aveva unito in un solo regno tutto l’Ulghemit, anche la religione era stata in qualche modo istituzionalizzata con il formarsi dell’Ecclesia, un’organizzazione che riuniva tutti i sacerdoti del regno e il cui vertice, il Sommo Pontefice, regolava arbitrariamente ogni possibile controversia riguardo ciò che era gradito a Dio e, di conseguenza, giusto. Questo rendeva il Pontefice un uomo molto potente, capace di minare anche l’autorità del re per quanto, per garantirsi la reciproca sopravvivenza, le due figure cercavano di non entrare in contrasto tra loro. La guerra che si era consumata tra Orthar e Horber era stata quindi un episodio senza precedenti e, per molti, senza spiegazioni: il potere temporale aveva sfidato quello spirituale e, incredibilmente, aveva vinto. La gente, solitamente abituata a obbedire passivamente, cominciava a porsi domande: il re era un eretico o l’eletto di Dio, che l’aveva preferito addirittura al Suo rappresentante in terra? Il Sommo Pontefice era stato un individuo corrotto che aveva occupato indebitamente quella posizione all’interno dell’Ecclesia, o una vittima innocente sacrificata da Dio per promuovere qualche Suo incomprensibile progetto? Dio esisteva? E, se esisteva, si interessava davvero delle faccende degli uomini?

    Era un periodo instabile, soprattutto per l’Ecclesia. Il grosso dei sacerdoti, in particolare quelli di alto livello, aveva seguito Horber ad Altharis ed era morto, imprigionato o impazzito lì. Quelli rimasti nell’Ulghemit erano quasi tutti sempre stati lontani dalle alte sfere del potere e in quel momento erano in preda alla confusione. L’unico ad aver mantenuto la calma pareva essere proprio il più giovane tra loro: un ragazzo sulla trentina, proveniente da una famiglia agiata, dalla vasta cultura che continuava sempre ad ampliare passando lunghe ore chino su antichi testi, come sembravano dimostrare il suo pallore e il suo fisico esile, accompagnati dagli occhi chiarissimi che illuminavano il viso sottile incorniciato dai capelli biondo cenere. Tutti avevano più o meno dato per scontato che un giorno sarebbe diventato Pontefice e, ora che quello in carica era morto, era stato per loro naturale fare riferimento a lui.

    Il ragazzo, il cui nome era Vior, aveva accettato come una responsabilità che si aspettava da tempo l’autorità di cui era stato ufficiosamente investito e, in previsione del prossimo rientro in patria del re, aveva riunito tutti i sacerdoti in una riunione nel Palazzo del Sommo Pontefice a Bartinaha per discutere e stabilire una linea di condotta comune.

    Fratelli miei esordì dunque alzandosi dalla sedia a capotavola, stiamo vivendo la pagina più buia della nostra storia, e forse alcuni di noi cominciano a sentire le loro convinzioni intaccate dagli stessi dubbi che si agitano tra il popolo, ma non dobbiamo dubitare della misericordia e della lungimiranza di Dio. Il nostro amato Pontefice è morto ma, voi lo sapete bene, la morte non è che la liberazione dalle nostre catene terrene. Dio ha permesso la morte di Horber perché era giunto per lui il momento di elevarsi a una condizione superiore e raggiungere la vita eterna. Non dobbiamo perciò crucciarci per il suo destino, bensì pensare a salvaguardare l’Ecclesia per il bene non solo nostro, ma di tutta la popolazione dell’Ulghemit.

    Ma come possiamo fare? obiettò tristemente un sacerdote anziano Siamo stati decimati, privati dei nostri capi più carismatici: voi, mio signore Vior, siete l’unico esponente di alto rango rimasto tra noi. Inoltre la gente non è più disposta a seguirci ciecamente com’era fino a poco tempo fa: quando il re tornerà qui – e lo farà presto a quanto si dice – cosa gli impedirà di sterminarci? È un eretico senza scrupoli: nessuno finora aveva osato muovere guerra al Sommo Pontefice, rappresentante di Dio in terra. Senza contare che Horber aveva un esercito con il quale resistergli, noi no. Forse una manciata di popolani si solleverebbe per proteggerci, ma a cosa servirebbe? Non abbiamo alcuna possibilità di combatterlo, anche solo per difenderci.

    Vior sorrise, imperturbato: Temo di essere stato frainteso. Io non proponevo di muovere guerra al re: so bene che sarebbe una follia inutile. Il mio progetto è un altro.

    Tutti i sacerdoti convenuti a quel punto lo fissarono sorpresi, ma anche speranzosi: malgrado ognuno di loro a una domanda diretta avrebbe risposto che non vedeva l’ora di ricongiungersi a Dio, infatti, nessuno era in realtà particolarmente ansioso di morire.

    Miei cari fratelli continuò il giovane anfitrione, anch’io, come voi, ero in preda alla confusione e allo scoramento da che avevo appreso la notizia della morte del nostro amato Pontefice. Come potete immaginare mi sono quindi rifugiato nella preghiera, dimentico di ogni altra cosa che non fosse la mia pena, e alla fine, Dio ha risposto alle mie suppliche e mi ha illuminato con un raggio della Sua saggezza: noi siamo qui per salvare anime, conducendole e riconducendole sulla retta via ogni volta che si corrompono, se necessario. Le anime di tutti e, di conseguenza, anche quella di Orthar. Voi tutti sapete che il re non ha mai imboccato la via della perdizione finché è rimasto nell’Ulghemit: al contrario, era un uomo devoto. Durante la sua permanenza ad Altharis è stato sedotto da un’ammaliatrice che lo ha completamente traviato e che lo tiene ora in suo potere. Il nostro dovere non è quindi combatterlo, ma salvarlo da se stesso e da lei. Per farlo, però, dobbiamo rimanere vivi: perciò al suo ritorno lo accoglieremo come si conviene al suo rango, se necessario congratulandoci per la sua vittoria che ha eliminato una branca corrotta della nostra organizzazione. So che è un grande sacrificio quello che vi chiedo proseguì Vior notando le occhiate allibite che gli lanciavano gli altri sacerdoti, ma non ci sono alternative praticabili. Se Orthar vedrà che non gli ci opponiamo non avrà motivo di dubitare di ogni nostra parola, come altrimenti farebbe, e abbasserà le difese che ha eretto nel suo animo contro l’Ecclesia. Ritornato qui, nell’ambiente in cui è nato e cresciuto, ritroverà tutto ciò che gli è familiare e a cui è legato e comincerà a nutrire dei dubbi sulla saggezza del proprio operato, ne sono certo. A quel punto avremo la possibilità di far breccia nel suo cuore e ricondurlo verso la salvezza. Non sarà un’impresa facile, ma possiamo riuscire: come ho già detto, il re un tempo era un uomo diverso, e potrebbe ancora ritrovare se stesso. Credo anzi che proprio per questo scopo il Pontefice sia morto: si è sacrificato per salvare l’anima di Orthar dalla perdizione. Non permettiamo che il suo sacrificio sia vano. Sono certo che con il tempo il re comprenderà l’enormità del suo errore: chiederà il perdono di Dio e, naturalmente, il nostro aiuto per ottenerlo.

    I sacerdoti mormorarono tra loro, incerti e increduli: Vior aveva loro prospettato delle possibilità che non avevano mai preso in considerazione ma che, incredibilmente, sembravano rimettere al suo posto ogni cosa. Indubbiamente quel giovane doveva essere ispirato da Dio, ed era una fortuna per loro averlo come guida. Dopo un momento di riflessione, tutti approvarono il suo piano e si congedarono con manifestazioni di rispetto e gratitudine verso colui che, ormai era evidente, era di fatto il nuovo Pontefice.

    Solo un sacerdote rimase seduto nel salone: era un uomo di mezza età, con i capelli ingrigiti e il viso scialbo rianimato da intelligenti occhi scuri di nome Shebar, l’assistente che accompagnava sempre Vior.

    Come sono andato? gli chiese quest’ultimo quando rimasero soli.

    Shebar alzò le spalle: Bene, com’era prevedibile: quelle pecore impaurite non cercavano altro che qualcuno che impugnasse il bastone lasciato cadere dal padrone morto e le riconducesse all’ovile. Il vostro carisma non avrà altrettanta presa su Orthar, però: perciò non inebriatevi per il vostro successo.

    Vior strinse a fessura gli slavati occhi azzurri: Credi che non lo sappia? Non sono uno stupido. Horber ha sottovalutato il re, ma io non intendo commettere lo stesso errore.

    "Non fategliene una colpa: quel vecchio bastardo aveva le sue ragioni per agire così. Orthar un tempo era maggiormente malleabile, e forse lo sarebbe ancora. Il problema è lei, quella che avete definito un’ammaliatrice: pare si siano sposati, perciò è sicuro che verrà qui con lui. Siete certo che riuscirete a ‘far breccia nel suo cuore’ – per usare le vostre parole – con lei al suo fianco giorno e notte? Non ci sono argomenti che facciano più presa su un uomo di quelli di cui può disporre una donna nell’alcova."

    Vior sorrise: Ma è proprio su questo che conto. Non intendo oppormi apertamente a quella puttanella di Altharis, tanto più che non ne avrò bisogno: qualcun altro se ne occuperà, qualcuno che può arrivare dove nessun altro potrebbe.

    L’assistente alzò un sopracciglio: Parlate di Kariba? Siete certo di potervi fidare di lei?

    Ha servito fedelmente Horber ed è nel suo interesse stare dalla mia parte. Inoltre, dal suo arrivo nell’harem di Orthar è sempre stata la sua favorita: dubito che si sia dimenticato di lei.

    ***

    I preparativi per il nostro viaggio nell’Ulghemit sono quasi completati. Per fortuna. Sono stufa di discutere con Orthar circa cosa possa aspettarci laggiù e, di conseguenza, chi portare con noi. Indubbiamente l’Ecclesia ha subito un durissimo colpo e difficilmente ci dichiarerà guerra aperta ma, d’altra parte, la popolazione potrebbe esserci ostile: hanno sentito parlare di noi come di individui corrotti e malvagi, e aver ucciso il Pontefice potrebbe essere stata per loro l’ennesima – e decisiva – dimostrazione di questo fatto. Se la popolazione è abituata a credere a tutto ciò che viene detto dai sacerdoti dell’Ecclesia, però, per contro è anche abituata a obbedire ciecamente al re, il che depone a nostro favore: tutto dipenderà dagli umori del momento quindi. Umori che dovremo ovviamente cercare di non provocare: Orthar, infatti, deve dimostrare di essere abbastanza forte e di possedere sufficiente potere e influenza da avere il diritto di reggere entrambi i regni, Altharis e l’Ulghemit, senza però apparire come un tiranno che, avendo cambiato opinione durante un viaggio, impone a tutti di modificare convinzioni e stile di vita da un giorno all’altro per assecondare i suoi capricci. Ho quindi promesso a Orthar che cercherò di non far scoppiare conflitti esprimendo giudizi negativi su tutto ciò che vedrò, a meno che non venga provocata. A questo proposito, però, anch’io ho preteso una promessa da lui. Dopo parecchie tergiversazioni, infatti, qualche giorno fa è riuscito a parlarmi del piccolo particolare dell’esistenza di un harem di sua proprietà nel suo palazzo a Bartinaha. Non posso fingere che la cosa non mi infastidisca, ma non intendo arenarmi a litigare con lui sul suo passato: è passato, e tanto basta. Ho voluto però che mi promettesse di occuparsi di risolvere questa questione al nostro arrivo laggiù: indubbiamente ci vorrà del tempo per trovare alle sue ex concubine una nuova sistemazione – Orthar mi ha infatti detto che dovrà cercare di procurare a ognuna di loro un matrimonio appropriato, perché altrimenti le loro famiglie lo accuserebbero di averle disonorate e poi gettate in mezzo a una strada – ma, se non altro, verrà messo in chiaro fin dall’inizio che mio marito non avrà altra compagna di letto che la sottoscritta.

    Eladia mi chiama in quel momento Orthar affacciandosi alla porta, sono arrivati Pemer e Teristia: un servitore è venuto ora a comunicarmelo. Andiamo ad accoglierli?

    Sì, certo esclamo raggiungendolo.

    Pemer e Teristia sono sicuramente le persone che più di tutte considero amiche: sono felice di rivederli e ancora di più del fatto che verranno con noi nell’Ulghemit. Quale che sia la situazione laggiù, infatti, abbiamo bisogno di qualcuno di cui fidarci più che ciecamente. Orthar in un primo momento aveva pensato ad Askarion, ma Isire è incinta e partorirà tra un paio di lune: sarebbe difficoltoso per lei affrontare il viaggio e impossibile per noi tornare prima del suo parto. So che a Orthar dispiace non avere al suo fianco il suo fratello di sangue, ma forse è meglio così: a parte il fatto che sarebbe ingiusto costringerlo a separarsi dalla moglie proprio in questo momento e a mancare così alla nascita del suo primogenito, Askarion è la persona più indicata a cui affidare l’amministrazione di Altharis in nostra assenza. Indubbiamente, infatti, anche Pemer svolgerebbe con responsabilità questo incarico ma, per quanto onesto e fedele, manca d’esperienza di comando: questi mesi trascorsi come signore di Lorstia devono essergli stati utili in questo senso, ma Askarion è stato cresciuto per essere un potente feudatario e ha dimestichezza con questo ruolo da anni. Lui e Isire si sono quindi già trasferiti qui a Pictahel in previsione della nostra prossima partenza: non credo avranno problemi durante la nostra assenza ma comunque, dal momento che non sempre Askarion potrà allontanarsi dal palazzo, sarà coadiuvato da Erufel, la cui sola presenza, ne sono certa, garantirà la sicurezza del regno, mentre invece avrebbe potuto compromettere la nostra missione diplomatica se ci avesse accompagnati, essendo una persona estremamente diretta e incline a mettere mano alla spada per risolvere ogni situazione spinosa.

    Torsid, invece, l’altro nobile nostro alleato durante la guerra dell’anno scorso, verrà con noi: oltre a essere più pacato di Erufel, infatti, potrà esserci utile se dovessimo aver bisogno di un rapido messaggero per richiedere aiuto ad Askarion in caso di pericolo, anche se spero che non sarà necessario dal momento che saremo scortati da quattro nobili, ognuno recante circa la metà del suo esercito. Oltre a Pemer e a Torsid, infatti, ci accompagneranno anche Lunvir e, per mostrare di avere il sostegno di tutti, Baradis, uno dei nobili rimasti neutrali durante il nostro scontro con l’Ecclesia. Personalmente avrei preferito che la scelta di Orthar fosse ricaduta su Dermar, dal momento che quest’ultimo non si era schierato dalla nostra parte per pura sfortuna: il messaggero che gli aveva inviato Askarion per chiedergli di unirsi a noi, infatti, era stato intercettato e trucidato dall’Ecclesia. Dermar aveva saputo della guerra in corso solo quando il Sommo Pontefice gli aveva a sua volta inviato un messaggio per richiedere sostegno: aveva quindi congedato il messaggero dell’Ecclesia senza dargli una risposta concreta e si era poi preparato per venire in nostro aiuto ma, essendo rimasto tagliato fuori, aveva saputo troppo tardi la nostra posizione ed era arrivato a battaglia finita.

    Dermar però è il signore di Galtia, una delle contee del Nord, e quindi Orthar ha preferito scegliere un rappresentante delle contee del Sud, dal momento che altrimenti questa sarebbe stata l’unica regione a non averne uno al nostro seguito. Morto Zakir, la scelta era stata tra Baradis e Azr, entrambi rimasti neutrali durante la guerra. Così, al nostro arrivo a Pictahel dopo la vittoria, Orthar aveva convocato entrambi per un chiarimento.

    Azr si era fatto precedere da una serie di fastosi regali e aveva quindi sostenuto di non aver partecipato alla guerra a causa di una grave indisposizione fisica – poi miracolosamente risolta – che lo aveva costretto a letto: con il suo gesticolare e il continuo inchinarsi mi aveva ricordato quel pusillanime di Irlim, anche se lo ritenevo ancora meno degno di fiducia a causa del suo tono mellifluo, da imbonitore, e del finto sorriso stampato sulle labbra sottili che però non raggiungeva mai i piccoli occhi neri.

    Quanto a Baradis, invece, aveva risposto immediatamente alla convocazione, e in modo completamente diverso.

    Lungi dal volersi accattivare a ogni costo le nostre simpatie, infatti, aveva detto a Orthar: Ti porgo i miei omaggi, Orthar, e ti garantisco la mia lealtà per il futuro, ma non chiedermi di congratularmi per la tua vittoria. Sei il mio re: il giuramento che ti ho prestato è inviolabile e mai potrei prendere le armi contro di te. Tuttavia non ho ritenuto che questo giuramento mi impegnasse a dannare la mia anima dal momento che tu avevi deciso di dannare la tua. Non so se quello che dici sul Sommo Pontefice sia vero ma, per come la vedo io, dichiarare guerra ai sacerdoti dell’Ecclesia è come dichiarare guerra a Dio. Per questo sono rimasto neutrale: se avessi partecipato alla guerra il mio cuore sarebbe stato pesante sia che avessi militato in una fazione, sia che avessi militato nell’altra. Ho cercato di salvaguardare la mia anima senza macchiare il mio onore: se sia riuscito nel mio primo intento spetta a Dio deciderlo, ma per quanto riguarda il secondo è la tua parola quella che vale. Se ritieni tradimento la mia mancata partecipazione alla battaglia, prenditi pure la mia testa, ma sappi che in nessun caso chiederò il tuo perdono.

    Orthar non si era scomposto a queste parole: mi aveva già detto in precedenza di aspettarsi da Baradis una reazione simile, essendo indubbiamente il più religioso tra i suoi nobili.

    È già scorso troppo sangue a causa del mio conflitto con il Sommo Pontefice e non intendo versarne altro, se possibile gli aveva quindi risposto. Non mi hai sostenuto, è vero, ma non mi aspettavo che lo facessi e, d’altro canto, non hai nemmeno cercato di ostacolarmi, perciò sarei propenso a perdonare la tua mancata risposta alla mia chiamata. Tutto quello che voglio è che mi provi la tua lealtà, in modo che sappia se potrò fare affidamento su di te in futuro. Ci sono perciò due cose che voglio che tu faccia. La prima è che mi accompagni nell’Ulghemit la prossima primavera. Devo infatti rinsaldare il mio potere laggiù, se non voglio che il Paese finisca per rivoltarmisi contro. Non temere, non ti chiederò di passare a fil di spada i sacerdoti dell’Ecclesia rimasti: è mia intenzione cercare di avviare una mediazione diplomatica con loro. Tu, tra tutti i nobili, sei quello che gode maggiormente della fiducia del clero: la tua presenza al mio fianco dimostrerà che ho il tuo sostegno, e questo mi aiuterà nelle trattative con loro.

    Se quello che cerchi con l’Ecclesia è un confronto pacifico, sarò onorato di far parte del tuo seguito aveva acconsentito Baradis. E riguardo l’altra cosa, che desideri da me?

    A quel punto Orthar aveva sorriso: Nulla di complicato: solamente un giuramento di fedeltà. Non a me, dal momento che, malgrado tutto, non ritengo che tu abbia infranto quello che mi hai prestato in passato, ma a mia moglie.

    A quelle parole Baradis mi aveva lanciato una fulminea occhiata sconcertata: "Ma… non ne capisco il motivo. Insomma, è tua moglie: che valore può avere un giuramento fatto a lei? Sei tu quello che conta: lei è… "

    Lei è qui presente e vi sta ascoltando, Lord Baradis non avevo potuto fare a meno di intervenire, caustica.

    A quel punto il nobile mi aveva guardata per un attimo con uno sguardo allibito e, mi ero resa conto, un po’ scandalizzato e Orthar gli aveva spiegato: Vedi, Baradis, ad Altharis il rapporto tra marito e moglie è concepito diversamente da come accade nell’Ulghemit, e comunque le cose stanno per cambiare anche laggiù. Eladia è la mia compagna, non una mia proprietà, e, a prescindere da questo, è la regina di Altharis e, dal momento delle nostre nozze, anche dell’Ulghemit. Il suo potere decisionale è pari al mio, sia in pace che in guerra.

    "In guerra? Ma è… una donna!" aveva esclamato Baradis, sconcertato.

    Durante la guerra che si è appena conclusa ha partecipato alla battaglia come me lo aveva informato Orthar, evitando però di aggiungere il particolare che ero stata proprio io a uccidere il Pontefice guadagnandosi anche i complimenti di Erufel tra l’altro, il che, lo sai, non è poco. Comunque non preoccuparti, riceverai quasi sempre ordini solo da me: voglio solo essere sicuro che, se per qualche motivo io non fossi presente, obbediresti a mia moglie come a me. Gli altri nobili hanno già giurato tutti: manchi solo tu.

    Così alla fine Baradis si era inginocchiato di fronte a me e aveva giurato, anche se evidentemente controvoglia e probabilmente solo perché si era reso conto di aver già tirato fin troppo la corda con il suo re per quel giorno.

    Baradis lo aveva infatti richiamato Orthar mentre si stava già allontanando, conoscendo la profondità delle tue convinzioni immagino che, se l’esito della guerra fosse stato diverso, avresti detto al Sommo Pontefice le stesse cose che hai detto a me, e nello stesso modo.

    Alla risposta affermativa del nobile, Orthar aveva continuato: Non per screditare i morti, ma dubito che te la saresti cavata altrettanto facilmente con l’Ecclesia.

    Baradis aveva stretto i pugni e lo aveva fissato con aria belligerante, ma poi aveva abbassato lo sguardo e aveva mormorato: Lo so.

    Non pretendo che tu mi sia grato per la mia clemenza, tanto più che non me l’hai chiesta aveva concluso Orthar severamente, ma esigo maggiore rispetto da parte tua in futuro.

    Sapevo che questo inasprirsi dei toni quando ormai sembrava essere stato raggiunto un compromesso era stato necessario per mettere in chiaro che la mitezza del re davanti all’arroganza di uno dei suoi vassalli, uno che per di più aveva motivo di sospettare di tradimento, non era dovuto a debolezza, ma Baradis mi era sembrato un uomo orgoglioso, anche troppo fiero: si era inchinato profondamente davanti a noi senza aggiungere altro, ma dubito che abbia apprezzato la lezione di umiltà e non mi sorride molto l’idea di avventurarmi in un Paese potenzialmente ostile in compagnia di qualcuno che nutre rancore nei nostri confronti.

    ***

    Pemer aveva cominciato a sentirsi sulle spine da quando un messaggero del re gli aveva comunicato che Orthar richiedeva la sua presenza durante il viaggio nell’Ulghemit. Era stato felice di avere così presto l’opportunità di incontrare il re per chiedergli di regolarizzare la posizione di Alyra e, inoltre, non poteva negare di provare un certo desiderio di ritornare nella sua terra natia da nobile intimo del sovrano, lui che l’aveva lasciata per arruolarsi come soldato semplice in cerca di mezzi di sussistenza. Tuttavia si sentiva a disagio: negli ultimi mesi aveva imparato a considerarsi un potente feudatario ma, trovandosi a viaggiare a stretto contatto con altri che lo erano per nascita da sempre, si sentiva imbarazzato. Non era particolarmente in confidenza né con Torsid né con Lunvir, che si era unito al loro gruppo durante la sosta nella sua contea, Ambara, che si trovava in prossimità del confine con l’Ulghemit, ma il personaggio che maggiormente lo turbava era Baradis: manteneva le distanze da tutti, guardando persino il re con biasimo a stento represso, ma Pemer sentiva che quando il suo sguardo si posava su di lui esprimeva un’ironia mista a disprezzo che lo innervosiva particolarmente. Aveva l’impressione che, seppur senza parlare, l’altro gli rinfacciasse costantemente la sua inferiorità, e la cosa lo infastidiva particolarmente perché sapeva che non avrebbe dovuto dare importanza alla sua opinione: nobile di nascita o meno, infatti, Baradis non poteva certo dire di godere del favore del re, e tutti sapevano che si trovava lì più che altro perché Orthar lo stava mettendo alla prova, pronto ad accusarlo di tradimento alla sua prima mossa sospetta.

    Se non altro, comunque, prima di partire da Pictahel Pemer era riuscito a ottenere la libertà per Alyra, fatto che lo aveva liberato da un grosso peso. Malgrado la sicurezza mostrata di fronte a sua sorella e l’effettiva convinzione di non star sottoponendo al re una richiesta eccessiva, infatti, doveva ammettere di aver provato un attimo di esitazione quando si era trovato a tu per tu con Orthar: si era sentito improvvisamente consapevole delle sue origini e non più così sicuro dei suoi meriti agli occhi del re. Gli aveva salvato la vita in battaglia, era vero, ma era stato diversi mesi prima: tutti sapevano che i re tendevano a dimenticare in fretta i servigi ricevuti, e poi, come gli aveva fatto notare sua sorella, Orthar doveva pensare di averlo ricompensato già più che degnamente. I suoi dubbi si erano però dissolti quando quest’ultimo lo aveva abbracciato calorosamente, rammentandogli con quel gesto le parole che aveva pronunciato nell’affidargli Lorstia, la contea che ora amministrava.

    Pemer, infatti, non sapendo quale scegliere tra quelle disponibili, aveva chiesto al re di essere lui a decidere, e questo gli aveva risposto: Le contee sono in effetti tutte equivalenti. Tuttavia, poiché me lo chiedi, ti dirò che mi piacerebbe che ti insediassi a Lorstia. Oltre a essere la contea che da più tempo è sguarnita, infatti, è anche quella che un tempo apparteneva a una persona a me molto cara, Regrond, e mi ero quindi ormai abituato a pensare che Lorstia fosse sotto il controllo di un amico: mi piacerebbe che fosse di nuovo così.

    Un amico. Il re lo considerava un amico. Che Baradis lo schernisse pure con il suo sguardo altezzoso: alla fine, malgrado fosse figlio di contadini, Pemer sapeva di essere tra i due quello che occupava la posizione più elevata.

    Capitolo III

    È ormai passata quasi una settimana da che abbiamo attraversato il confine tra Altharis e l’Ulghemit e ci vorrà altrettanto tempo per arrivare fino a Bartinaha. Decisamente, come mi aveva detto Orthar, è un territorio piuttosto vasto, anche se spoglio, ma non è stata una sorpresa. Dopo quello che mi aveva raccontato mio marito, mi ero anzi aspettata di dover attraversare un deserto di sabbia sotto un sole cocente, mentre in realtà il clima, per quanto secco, non è eccessivamente caldo: la temperatura è decisamente più elevata nella Terra dei Draghi. Inoltre non c’è sabbia: più che altro un po’ di ghiaia e pietrisco, che però rendono sicuramente la terra più ostica da lavorare.

    Non ci sono foreste naturalmente, ma alcuni alberi spuntano qua e là, insieme a diverse varietà di arbusti spinosi brucati con stolida indifferenza dalle capre che costituiscono

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