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Ti sveglio io, domani: storie di viaggio
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Ti sveglio io, domani: storie di viaggio
E-book333 pagine3 ore

Ti sveglio io, domani: storie di viaggio

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Info su questo ebook

Storie, che abbracciano la geografia. Dal primo presidente del Parlamento Lappone in Norvegia, al primo arcivescovo nero del Sudafrica. Da un viaggio a Mosca a uno a Kiev. 
Storie, che incontrano altre storie. La mitica Transiberiana o la traversata del San Lorenzo ghiacciato, nel Québec. 
I ragazzi brasiliani della capoeira, e i professori del Musikverein a Vienna, quelli del Concerto di Capodanno. Tre deserti incomparabili, come il Sahara della Libia, le Rockies canadesi, il Parco dei Ghiacciai della Patagonia argentina. 
Si parla della fede, mostrata dai sufi senegalesi o dai buddisti di Sri Lanka. Di un rompighiaccio pensionato in Finlandia e degli orfani di orango curati nel Borneo. Del contrabbando di fossili sotto l’Atlante marocchino o del viticoltore spagnolo che affina i suoi vini con la musica classica. Delle bici di Pechino e della fuga da Damasco, qualche decennio fa.
Non c’è nessun ordine logico. Solo la volontà di far salire il lettore sull’ottovolante, e scaraventarlo nelle infinite contraddizioni del pianeta. Il mondo in loop.
LinguaItaliano
Data di uscita2 giu 2023
ISBN9791222413099
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    Anteprima del libro

    Ti sveglio io, domani - Valerio Griffa

    PREFAZIONE

    Le espressioni viaggio, viaggiare hanno per me molti significati: impulso, passione, meta. E ancora: andare, vedere, gioire. Ho cominciato a viaggiare con la fantasia con i libri di Salgari, da me divorati durante una cattività obbligata, causa scarlattina. Avevo tredici anni e, chiusa in una stanza, in quaranta giorni avevo letteralmente divorato una pila di prodotti salgariani. Quei giorni eccitanti trascorsi tra Mompracem, India, Borneo, Malesia, Sumatra, Giava e Sulawesi hanno cambiato la mia vita. E mi hanno legato indissolubilmente alla passione per i viaggi e il viaggiare, il conoscere il mondo nella sua bellezza e diversità. 

    Nei quasi trenta anni che ho trascorso da giornalista alla Mondadori, ho trovato il modo di far volare qua e là le troupe delle redazioni di moda o i giornalisti di Epoca. Qualcuno forse ricorderà che Epoca era stata la prima rivista ad affrontare il tema dei viaggi, o delle esplorazioni. L’eroe di quei tempi era infatti Walter Bonatti, un re della montagna diventato per me anche un amico del cuore. Uomo rude e buono, silenzioso e impavido, amante della natura e del rischio, capace di tenerezze inattese. Lo vedo ancora con Rossana Podestà, sua bellissima e dolcissima compagna. Bonatti era amante della natura, tutti ricorderanno le sue traversate in Africa tra deserti e foreste, che affrontava a piedi, armato solo di una macchina fotografica. Alla segreteria di Epoca davo una mano volentieri quando Walter preparava le sue spedizioni nelle foreste a-fricane o sulle montagne andine. Insomma ero una consulente che sognava di viaggiare.

    Uscita da Mondadori, cui sarò sempre grata per la fiducia e la considerazione riservatami, ho cominciato a viaggiare da freelance con fotografi e giornalisti. Ho fatto il conto, rileggendo i miei taccuini, di aver avuto la fortuna di visitare 104 paesi. Il Grand Tour du Monde mi ha lasciato per sempre immagini e ricordi impagabili. Credo di aver scelto il mio percorso lavorativo sulla base di questa passione. Fare la giornalista mi ha sicuramente aiutato e incentivato.

    Fortuna? Forse, anche. Sicuramente entusiasmo e passione. Perché, senza questi indispensabili elementi, nessun lavoro o mestiere si può fare bene. Per di più divertendosi.

    Buona lettura.

                                                                      Laura Mulassano

    Milano, aprile 2023

    INTRODUZIONE

    Non è un diario di viaggio. Non è una raccolta di reportage. È, più precisamente, un racconto di viaggio, spezzettato in tanti viaggi, fatti in decenni diversi.

    Che cosa può importare, vi chiederete, di un viaggio nei Settanta o Ottanta, in un mondo che non c’è più?

    Tenterò di spiegarmi con una domanda. Non leggereste un romanzo, non guardereste un film o una serie tv solo perché non ambientati nel presente? Non vi interessereste di storie pensate e scritte oggi, ma riferite al passato?

    È vero, il web e i social ci hanno fatto interiorizzare la compressione del tempo. Ma non credo che funzioni così il cervello umano. L’attimo che cambia sempre e smentisce se stesso è un luogo spaesante, difficile da vivere.

    Il viaggio, cioè andare a vedere come hanno risolto la vita in altri luoghi e in altri tempi, è invece ampio, molto più ampio. Pieno di suggestioni, di rimandi, di citazioni, di confronti. È un cumulo di emozioni. Salvate e archiviate.

    Altrimenti, è solo un muoversi nello spazio.

    In questo libro ci sono il luogo, la persona o il personaggio, la situazione. C’è l’incontro, lo scambio.

    Il confronto, che poi sarebbe cercare di capire le ragioni di chi vive sotto altri cieli.

    Per questo non sono reportage, ma storie. Sono libere interpretazioni, supposizioni, intuizioni, emozioni, slanci e

    diffidenze. Con un certo grado di libertà.

    Racconti brevi, in una parola.

    Il modo di viaggiare è quello a piedi scalzi e fardello leggero. Andare, e cercare di capire che cosa c’è di buono, di ammirevole, o di pessimo, di biasimevole, di preoc-cupante. E di meraviglioso, di divertente, di stupefacente.

    Ho cercato di raccontare le cose in leggerezza, che non è il contrario di profondità, ma di pesantezza. L’altro e l’altrove sono prima di tutto curiosità e divertimento, anche se qualche volta devi sguazzare nel fango.

    Torino, aprile 2023

    NOTE

    METODOLOGICA

    Per l’indicazione del luogo del viaggio ho preferito mantenere il nome del Paese com’era al tempo, Urss-Unione Sovietica e non Federazione Russa, come si chiama dal 1991; Zaire e non Repubblica Democratica del Congo, com’è diventata dal 1997.

    Per quanto riguarda l’Ucraina, nome che ha ripreso dal 1991, ho precisato che al tempo del viaggio era uno dei 15 stati che componevano l’Urss.

    Per poter godere del racconto senza inutili distrazioni, ho scelto di corredare ogni storia di una CORNICE, solo alcune righe per precisare e spiegare, inquadrare storicamente, dare un’idea del regime politico e delle vicende di quel tempo.

    Nel testo, il corsivo è usato solo per i nomi scientifici delle specie, previsti solo nella parte Cornice.

    SULLE IMMAGINI

    Ho deciso di non pubblicare le foto relative a quanto raccontato. La prima ragione è estetica: foto di periodi diversi sono spiazzanti, soprattutto per occhi abituati al festival contemporaneo della foto quotidiana.

    La seconda ragione è che le parole delineano una cornice e un universo che poi ogni lettore riempie. Io scrivo, e ognuno si forma la propria immagine, senza che gliene sia imposta una.

    Chissà che belle storie illustrate vi farete.

    PLAY LIST

    Non è scontato abbinare un brano musicale a una storia. Ho provato a farlo perché sentivo affinità tra le vicende da me raccontate e quelle espresse dall’opera, dalla canzone o, semplicemente, dalla musica.

    Gli accoppiamenti, o affiancamenti, sono senz’altro arbitrari e molti li troveranno non congrui. Sono delle scelte, rivelatrici dei miei gusti musicali. O di quello che la mia personale AI, abbina ai feedback delle storie.

    Credo, però, che sia successo a tutti di sentire dentro di sé una musica, un componimento, vedendo un titolo, guardando un’immagine. O leggendo una storia. I neuroni, infatti, fanno ipotesi associative di continuo, anche se poi scartano il 99% di quelle costruzioni più o meno azzardate.

    Per farla breve, ho scelto 40 brani, uno per ogni storia. Alcuni sono quasi scontati, come il Tema di Lara per il treno siberiano, o la Casta Diva per il vino valenziano. Ma non li ritengo affatto banali, sono legati intimamente alla storia che accompagnano. Altri sono senz’altro arditi, come ad esempio un madrigale del Seicento accostato a un rompighiaccio finlandese. Ma è quello che ho sentito. Ho cercato di evitare i suoni etnici, salvo quando esprimono a fondo una cultura locale accoglibile da un orecchio contemporaneo, come per il joik sami, lo oud marocchino, i suoni sahariani. Dove possibile, ho riportato una parte del testo del brano. Se il gioco vi piace, vi invito a suggerirmi altri brani, accarezzati leggendo le storie.

    I link che trovate dopo la storia sono a un audio, perché ho voluto tenere fuori le immagini, i video, salvo rari casi. Il collegamento è con Spotify e Youtube Music, ed è gratuito. In proposito, ringrazio sentitamente tutti i grandi artisti segnalati.

    Se la musica vi sarà propizia e gradita, e aiuterà le storie a decollare nella vostra testa, ringrazieremo insieme la musa che ci ha regalato, ancora una volta, una prova del suo talento.

    Buon ascolto.

    1. Denti di ghiaccio - Patagonia, Argentina

    Le cuspidi assomigliavano davvero a denti aguzzi, pronti a lacerare la carne. Come quelli dei felini che popolano le Ande. Riflessi azzurrognoli, insoliti, nella barriera poderosa che bloccava il passaggio. Un muro di settanta metri verticali di azzurro, più tenue di quello del lago.

    Una delle guide ne approfittò per farci notare come quelle sfumature di azzurro fossero quelle della bandiera nazionale che garriva a prua.

    Avevamo preso un battello a Puerto Bandera, sulla riva meridionale del Lago Argentino, il più grande del Paese. Acque cerulee, alimentate dai numerosi ghiacciai intorno.

    Era il novembre 2007. L’Argentina si stava lentamente riprendendo dal default del 2001.

    Arrivammo con un comodo volo da Buenos Aires a El Calafate e, da lì, partimmo per il grande lago. L’imbarcazione offriva tutto lo spettacolo selvaggio delle Ande primaverili, e l’aria frizzante, che si raffreddava approcciandosi alla barriera glaciale. E poi, un accenno di verde sulla sinistra, in fondo: un bosco patagonico di faggio australe.

    Una delle ragazze che ci accompagnavano si mise a prua, alla maniera di Kate Winslet sul Titanic. I suoi capelli venivano sferzati dal vento glaciale, creando un parallelo con la bandiera argentina.

    Ci avvicinammo lentamente. O fu la barriera ad avvicinarsi a noi, difficile dirlo. Quella sembrava una frontiera, un cambiamento di ambiente. Sempre acqua, ma declinata diversamente. L’enorme lingua glaciale andina, di trenta chilometri di lunghezza, sembrava voler mostrare i denti, in quella sua porzione terminale. Intanto, mandava avanti i suoi spruzzi, la sua saliva. In quell’avvicinamento, sulle acque del lago comparivano piccoli iceberg, che rendevano il paragone con il Titanic di Kate improponibile. Una riduzione di scala decisa, che diminuiva proporzionalmente la drammaticità della scena.

    Tuttavia, quelli erano messaggi glaciali, come a dire: attenti, state superando un confine. Lo superammo, il limite, annusando l’aria del ghiacciaio che ancora non si vedeva. Poi, svoltando a fianco di una montagna, arrivammo alla parete finale, un muro sfaccettato che svettava su tutto. Di nuovo quel ciano-turchese, che sembrava voler dominare l’orizzonte vicino.

    Il respiro del Perito Moreno si sentiva, forte e chiaro, come una creatura vivente in agguato. Pensai ancora al puma, il gattone andino, perché solo un felino trasmette quel senso di inquietudine. Mi domandai il perché, mentre le ragazze servivano un calice di bollicine per festeggiare. La risposta che mi diedi era che quel ghiacciaio avanza e si ritrae, staccando in continuazione pezzi di varia grandezza, che scivolano in acqua con una velocità che sembra rallentata. È un ghiacciaio dinamico, che figlia in continuazione. Proprio come la dea primordiale Gea, che generava senza sosta ciclopi, titani, dei dell’Olimpo. E lo fa perché la lingua finale galleggia sul lago, dato che un cuscino d’acqua non permette l’ancoraggio alla roccia. È come una specie di proboscide, bianca e fluttuante. Il fronte, insomma, è instabile, mobile, avanza e stacca le parti terminali, spesso con grandi boati. Vive un moto perpetuo, figlio della meccanica, e del calore.

    Guardarlo, è come vedere un puma rinchiuso in gabbia, che ti fa sentire la sua presenza, e ti manda freddi messaggi. Impressionante e poetico. Come la Patagonia intera.

    Il giorno seguente ci arrivammo in camioneta, al ghiacciaio, dal Calafate. Una strada costiera, che aggirava la penisola di Magallanes, seguendo uno dei rami del lago.

    Nel punto più a ovest della penisola, quello del boschetto di faggi australi, una passerella di legno consentiva una visione più ampia e aperta dell’insieme. Da lì passammo direttamente al ghiacciaio. Le guide ci dettero corde e ramponi, e le seguimmo in un tour sul mare bianco.

    Non era il mio primo ghiacciaio, ma era il primo esplorato vicino al suo fronte, e vicino alle acque di un lago.

    Vedere da una delle tante cuspidi il ghiaccio scivolare, e ricongiungersi alla Madre Acqua, era come poter assistere alla sua evoluzione, o involuzione, sapendo che il motore era semplicemente la variazione di temperatura.

    Mentre si saliva lungo i corridoi che le guide avevano individuato, e si ammirava la purezza del lapislazzulo nelle sacche di ghiaccio riempite di acqua azzurrissima, si potevano fare tante riflessioni e congetture, sul Perito Moreno.

    Le mie erano focalizzate sul movimento del ghiaccio.

    Mi venne in mente un vecchio film, Cinque giorni, un’estate, di Fred Zinnemann, in cui la giovane guida cade in un crepaccio, e solo cinquant’anni dopo, quando il ghiacciaio sputa il corpo, la moglie, oramai ottantenne, può accompagnare il feretro al cimitero.

    Francisco Moreno era uno scienziato ed esploratore di Buenos Aires. Nella disputa di fine Ottocento sulle frontiere tra Argentina e Cile lui, che aveva viaggiato in Patagonia, scoperto fossili, trattato con gli indigeni tehuelche, propose l’unica cosa sensata da fare: una linea di confine sulle Ande, quello a est agli argentini, quello verso il Pacifico ai cileni. Per questo ottenne il titolo di perito, esperto.

    La camioneta si arrampicò, nei giorni seguenti, anche sulle basse montagne a sud del Calafate. Una zona di magnifico silenzio, senza nessuna costruzione a vista. Piccole valli che si insinuavano tra formazioni geologiche chiamate cappello messicano, per la loro forma. Il ghiacciaio aveva lavorato duro, a modellarle. Da lassù, il Lago Argentino era un altro spettacolo. Era il lapislazzulo, circondato dallo zircone cannella della montagna. E, in qualche valletta, dominava il calafate, un arbusto sempreverde con i fiori giallo-arancio.

    Pensai a padre De Agostini, che aveva passato tanti anni da queste parti, ammaliato dalla natura andina. Un salesiano, un grande esploratore, colto e sensibile, nato a pochi chilometri da casa mia.

    Le sue parole sono la sintesi del Ghiaccio del Sud:

    Foreste sempre vergini di faggi, mirti, cipressi e magnolie di un verde intenso e perenne, fanno stupenda cornice a ghiacciai eterni, che discendono dall'alta montagna in immani pareti di seracchi bianco-azzurri fino a lambire e precipitare nelle acque….

    Come dirlo meglio?

    De Ushuaia a La Quiaca, Gustavo Santaolalla, 1998, colonna sonora di "I diari della motocicletta, 2004

    https://open.spotify.com/track/1pdz8zR8gb1qfEBi64H1fa

    Cornice

    Il Parque de los Glaciares è nella Patagonia Argentina, al confine con il Cile. Comprende 47 ghiacciai in altrettante valli, che formano una calotta glaciale gigantesca. I ghiacciai si formano a partire dai 1500 metri e scorrono fino a 200 metri sul mare, dando origine prima alla foresta patagonica di faggio nano, e poi alla steppa arida a est, quando l’umidità del Pacifico non riesce più a raggiungere le pianure. Istituito nel 1937, il parco copre un’area di più di 7000 kmq, di cui un terzo coperto da ghiaccio. All’interno, c’è il grande Lago Argentino e, più a nord, il lago Viedma. Dal 1981 fa parte del Patrimonio dell’Umanità Unesco.

    Il Perito Moreno, a 50° S e a 244 metri sul mare, con 250 kmq di superficie e 30 km di lunghezza, fa parte del Campo de Hielo Sur, che ricopre le Ande patagoniche, argentine e cilene, ed è la terza riserva di acqua dolce del pianeta. È a ottanta chilometri da El Calafate.

    Il ghiacciaio si riversa, con un grande fronte glaciale in rapido movimento, nel Lago Argentino. L’avanzamento è di circa 700 metri all’anno, ma la sua massa si scioglie nel lago, per cui il fronte è sempre allo stesso posto. Il Ponte di Ghiaccio, che si forma per l’erosione del fronte glaciale da parte del lago, sulla sua sponda sinistra, ogni 2-4 anni si rompe. Ed è uno spettacolo.

    Intorno al Lago Argentino ci sono due altri enormi ghiacciai spettacolari: lo Spegazzini e l’Uppsala.

    Il calafate pianta è la Berberis microphylla, arbusto che produce bacche edibili.

    Il faggio australe appartiene alla famiglia dei Nothofagus.

    2. Polpi e polpacci - Isola di Rodrigues, Mauritius

    Ne vidi una. Stavo sulla spiaggia in bassa marea, tra ciottoli e conchiglie che l’Oceano Indiano riversava con dovizia, in quel lembo di sabbia. Il pomeriggio tardo regalava una luce radente niente male, e le acque separavano l’indaco dal violetto e dal celeste, come gli strati di un cremino.

    Una signora quarantenne si avvicinò all’acquetta senza forza della battigia, si tirò su le gonne leggere fino al ginocchio, appoggiandosi al sottile bastone che aveva in una mano, ed entrò. Pensai a un bagno, anche se l’asta era incongrua, come anche il cappello di paglia di vacoa. La seguii con il teleobiettivo, e la vidi immergersi nell’acqua, con i suoi sandali di plastica. Poi vidi altre donne, due, tre, cinque, che armate di asta e parlando tranquillamente, forse dei figli o forse dei vicini, procedevano verso le onde quiete, come se andassero insieme a una passeggiata rituale. Alcune avevano sandali, altre corti gambali.

    Pensai immediatamente a Pellizza da Volpedo, e al suo Quarto Stato. Certo, era incongruo accostare la questione sociale, a fine Ottocento in Italia, rappresentata dal pittore, a quel gruppo di donne. La mia, era solo una suggestione, forse perché le rodriguesi avanzavano in linea, come nel quadro facevano i lavoratori.

    Arrivate al bordo delle acque, quelle ripeterono lo stesso rituale della donna già in mare, ed entrarono, allontanandosi un po’ le une dalle altre. Continuai a guardare, bloccato dalla curiosità. Ci volle poco per capire. Le sirene creole alzavano la loro lancia, pronte a colpire nell’acqua e, quando la prima la risollevò con un polpo infilzato, tutto mi fu chiaro. La signora sfilò la preda, e la infilò nella borsa che pendeva al suo fianco. Poi, fu una pesca miracolosa. Individuata la zona migliore, le signore si trasformarono in implacabili caccia-pescatrici, infilzando il sommerso con colpi ben assestati della loro lancia legnosa o metallica. Tentacoli ormai inermi videro la luce del cielo, e le sporte si riempirono.

    Le creole non avevano però l’espressione del cacciatore, né la smorfia di chi sta uccidendo la preda, ma la faccia tranquilla di chi sta procurando il cibo per i figli. Di chi non mette in discussione, neppure per un momento, le leggi naturali del predatore e della preda. Uscirono dall’acqua come erano entrate, parlando d’altro, con il sorriso tranquillo di chi ha fatto il proprio dovere.

    I polpi li rividi appesi ai fili per stendere i panni, come fossero merletti messi ad asciugare. I tentacoli, ormai senza forza, cadevano verso il basso, aspettando la levitazione che il vento, seccandoli, generava. Accanto, i filetti di pesce subivano la stessa sorte.

    Rodrigues, isolata dal mondo, aveva creato il suo sistema di pesca. Gli uomini, con le loro barchette a vela triangolare, rapide e maneggevoli, a pescare con le nasse aragoste, gamberi e granchi. O in mare aperto, dove si trovano facilmente marlin neri, tonni dalla pinna gialla, razze e squali. E le donne a riva, a infilzare polpi, ourite, in creolo locale. Cibo sicuro, senza rischio.

    Le donne su quell’isola, più che in altre luoghi dell’Oceano Indiano, avevano e hanno un ruolo economico forte. Ce ne parlò Marie, una signora determinata, mentre guardava soddisfatta i suoi polpi lavati in un grosso secchio. Fanno semplicemente più mestieri, disse, come se fosse normale. Le madri, le coltivatrici di frutta e legumi, le allevatrici, e le pescatrici di polpi, concluse, ridendo e indicando con gli occhi i cefalopodi catturati.

    Incontrai qualche altra donna, sulla spiaggia. Non erano per nulla infastidite dalla mia presenza e dalle mie domande. Con il loro sorriso forte, si dissero stupite che qualcuno si stupisse del loro essere multi-skilled.

    Non usarono quella parola, all’epoca non esisteva nemmeno, ma il senso era quello. Per loro, era normale far girare le cose in quel mo-do, con un forte spirito di comunità. Peraltro indispensabile in una piccola isola, lontana dalle altre sorelle Mascarene. Questo sentimento di isolamento, dava responsabilità. Gli uomini si prendevano il rischio, andando in mare aperto attraverso la passe, la porta della barriera corallina.

    Quindi, a loro il resto. Good deal, si potrebbe dire.

    All’apertura del periodo di pesca ai polpi, le donne, a seconda del meteo e delle maree, entravano nella laguna rodriguese. All’alba, o verso il tramonto, le si vedeva aggirarsi per la spiaggia, in attesa della bassa marea. Quando le cose si mettevano bene, scendevano in acqua con le loro lance, e si immergevano fino ai polpacci, o anche fino alla cintola, guardando attraverso l’acqua, che è sì trasparente, ma non permette, come l’aria, una visione esattissima delle cose sommerse. Ci vuole abilità. Mi venne da pensare, ironicamente, che quelle donne erano coerenti: almeno in italiano, polpaccio e polpo, derivano dalla stessa parola, polpa. Mi parlarono anche di piroghe, con le quali andare negli angoli in cui il mare lagunare era meno profondo. E alla barriera corallina. Ci potevano volere ore, per la pesca. I polpi andavano trovati e stanati, e poi infilzati. Gli indizi della loro presenza erano conchiglie o carapaci di granchio vuoti, i segni dei loro pasti. Al ritorno sulla spiaggia, i polpi erano lavati e pesati, e venduti per l’esportazione. Quelli che restavano, erano appesi a seccare al vento, per qualche giorno. Il che regalava un paesaggio di tentacoli vaganti, ma non minacciosi. Quasi poetici, perché erano il pane dei creoli.

    Danza spagnola n.1, da La vida breve, Manuel de Falla, 1904, interpretata da Thibault Cauvin.

    https://open.spotify.com/track/7GbTklZSHnQG3xmx68TbIy

    Cornice

    Il viaggio è della primavera 1995. Rodrigues, Rodrig in creolo, fa parte della Repubblica di Mauritius, dal 1968. È la più orientale dell’Arcipelago delle Mascarene, scoperto dal portoghese Pedro Mascarenhas nel 1513, al

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