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La linea d'argento
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E-book245 pagine3 ore

La linea d'argento

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Info su questo ebook

Narrativa - romanzo (190 pagine) - Una missione disperata durante la Prima Guerra Mondiale. Un giovane cuore pieno di ardimento e passione. Nessuna via di fuga


Novembre 1917. Cosa nasconde la fuga di un disertore italiano? E quali segreti intende rivelare ai tedeschi? È ciò che si chiede Francesco Martini, giovane ufficiale invischiato in una caccia all’uomo che lo porta a combattere dietro le linee nemiche. Oltre una sottile linea d’argento, il fiume Piave, unico elemento ancora in grado di opporsi agli inarrestabili vincitori di Caporetto.

In una missione disperata, fra amori, colpi di scena e oscuri alleati, Martini affronterà la sua battaglia più dura. Quella per tornare a casa.


Marco Baggi vive e lavora a Bergamo. Fin dalla giovinezza tiene la testa immersa in storie da raccontare attraverso la scrittura. Laureato in Scienze Storiche, ha pubblicato i romanzi La fuga dei vinti (2011) e Vertigine (2013), entrambi editi dalla 0111 Edizioni. Da alcuni anni collabora con la redazione bergamasca del Corriere della Sera, per il quale va a caccia di curiosità e aneddoti della propria terra. Appassionato di disegno, cura illustrazioni per pubblicazioni e mostre culturali, oltre a gestire dal 2015 il progetto L’armata di carta, vetrina virtuale dei propri lavori su web e social.

Per non farsi mancare nulla, è anche membro del Gruppo Modellistico Picchiatelli e dell’Associazione Storica Cimeetrincee, quest’ultima dedita al recupero e la conservazione della memoria relativa alla Grande Guerra.

LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2017
ISBN9788825403817
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    Anteprima del libro

    La linea d'argento - Marco Baggi

    Guerra.

    A Lisa

    La guerra e la malattia, questi due infiniti dell’incubo.

    Louis Ferdinand Céline

    Prologo

    16 novembre 1917. Sponda sinistra del fiume Piave

    La violenza dell’esplosione lo colse di sorpresa. Una pioggia di detriti e sedimenti investì lui e i suoi compagni, mentre la costruzione si sbriciolava in un’enorme voluta di fuoco capace di nascondere i primi bagliori del nuovo giorno. Quando pochi minuti prima aveva innescato la miccia, non immaginava un effetto tanto devastante.

    – Cazzo, Galassi, a momenti ci scavi la fossa! – ringhiò un commilitone alle sue spalle. – Guarda che roba.

    Galassi volse indietro il capo, fissando il compagno che riemergeva dal folto strato di ramaglie usato come riparo. – Non sono mica un artigliere! – replicò rabbioso. Le fiamme di quell’inferno lo stavano abbagliando. – Dovevamo solo stare più lontani. E comunque la prossima volta maneggialo te, l’esplosivo!

    – Qualche sasso in testa non ci farà troppo male – esordì una voce poco più indietro. Galassi riconobbe il tono stentoreo del suo comandante, e tacque. Lo vide avanzare chino verso di sé e il compagno, e infine stendersi a terra accanto a un altro soldato.

    – L’intero deposito è saltato, probabilmente i crucchi ci tenevano anche delle munizioni, là dentro – proseguì l’ufficiale, gli occhi puntati sull’andirivieni frenetico dei primi soccorritori nemici. – Dunque ottimo lavoro, Galassi.

    – Grazie, signor maggiore.

    – Smettila di chiamarmi signore – lo ammonì l’ufficiale. – Siamo civili, ora. Non ti sei ancora accorto che non indossi più un’uniforme? Tienilo bene a mente. – Con una mano indicò i tedeschi poco lontani, ombre stagliate contro la luce delle fiamme. – Se i crucchi scoprono cosa siamo in realtà, ci fucilano all’istante.

    – Mi scusi signore, ehm… volevo dire, signor Ravelli – s’affrettò a fare ammenda Galassi. Un po’ per la differenza d’età, un po’ per la disparità di grado, al cospetto dell’ufficiale si sentiva sempre uno scolaro imberbe. Abbassò lo sguardo sui suoi miserevoli abiti civili, quasi a voler cercare conferma delle parole di Ravelli. Stabilì che, in fondo, lui e i suoi compagni non avevano bisogno di una divisa, per essere ancora soldati.

    Galassi rimase immobile con i compagni per diversi minuti ancora, nelle orecchie le urla dei soldati nemici in arrivo sul luogo della deflagrazione. Ne scorse almeno una cinquantina, troppo impegnati a sottrarre feriti e munizioni alla furia del fuoco per accorgersi di loro stesi poco più in là.

    – Abbiamo sollevato un bel vespaio – asserì all’improvviso Ravelli, i baffi argentei sollevati in un sorriso. – Stanno arrivando un sacco di crucchi e mangiasego. Tutto procede secondo il nostro piano. Questa distrazione – guardò Galassi rimarcando quell’ultima parola, – dovrebbe tenerli impegnati per qualche ora. Giusto il tempo che ci serve per compiere la volontà del Signore.

    Galassi abbozzò un cenno di diniego con la testa, certo che la poca luce lo nascondesse dai rimproveri del comandante. D’altronde, Ravelli non era nuovo a invocazioni religiose, come se ogni suo gesto fosse dettato da un’autorità superiore che lo aveva prescelto. Forse, pensò malizioso, la stessa volontà di resistere agli invasori gli stava dando alla testa, facendolo assomigliare a una copia sbiadita di Giovanna d’Arco. A parte questo, lo reputava un ottimo ufficiale.

    L’arrivo di un nuovo fante nel nascondiglio spezzò qualsiasi altra considerazione. Galassi sobbalzò nel ritrovarselo accanto, nessun rumore aveva infatti rivelato il suo avvicinarsi. Notò un lungo coltello insanguinato stretto nella mano e da quel dettaglio riconobbe il compagno.

    – È tutto pronto, signore – esordì quest’ultimo con un sogghigno che a Galassi mise paura. – Tonini e gli altri sono in posizione alla villa.

    Ravelli adocchiò la lama vermiglia. – Vedo che ti sei dato da fare, Fusili.

    Galassi guardò a sua volta il nuovo arrivato, intento a ripulire l’arma fra le ramaglie prima di farla scomparire noncurante nella cintola. – Ordinaria amministrazione – replicò questi, mettendosi a fissare con apparente interesse la costruzione esplosa. I soccorritori, notò Galassi, non erano ancora riusciti ad avere ragione delle fiamme.

    – Bene, concentriamoci sul nostro prossimo compito – concluse Ravelli. Galassi ne avvertì la tensione nella voce. – Andremo uno per volta, io per primo. Punto di riunione il lato nord della villa, a quanto pare il più sguarnito. – Passò in rassegna gli occhi dei suoi uomini, forse in cerca di segni di debolezza o cedimento. – Non mettetevi a correre tutti insieme, altrimenti verremo subito scoperti.

    Galassi si stupì ancora una volta della rapidità del suo anziano comandante, balzato in piedi fulmineo e già scomparso nella penombra a est. Dopo diversi minuti di corsa fra i campi, lo raggiunse all’interno del fossato allagato che circondava il muro di cinta della villa. Scivolò con un grugnito nell’acqua gelida, ma riuscì comunque a proseguire imperterrito verso la porta principale, ben visibile fra i ciuffi d’erba del bordo del canale. Ricordava che in quel punto il fossato veniva interrotto da un piccolo ponte di pietra, atto a permettere il passaggio fra il viale d’ingresso e la strada. Appena più in là, scorse una porzione della splendida costruzione storica che si offriva all’abbraccio della tenue luce dell’alba, tingendola di una tonalità rosata.

    Immerso in quello spettacolo di colori, Galassi franò contro la schiena di Ravelli. – Mi scusi! – bisbigliò ritraendosi. Il comandante rimase immobile per lunghi, eterni istanti, mentre Galassi si domandava cosa fosse successo. Una densa fitta alle viscere lo trafisse non appena ne scoprì il motivo.

    Vide due fanti tedeschi sul ponte, fermi a osservare l’incendio in lontananza. Distavano soltanto una decina di metri, troppo vicini per proseguire una qualsiasi avanzata verso la villa.

    Galassi portò d’istinto la mano alla tasca della giacca, ma una presa ferrea gliela bloccò. Incrociato lo sguardo cupo di Ravelli, decise di mollare all’istante la presa sulla rivoltella.

    Poi qualcosa piovve di schianto nell’acqua torbida. Galassi si protesse il viso con un braccio, spaventato, e quando lo spostò vide i corpi dei due tedeschi che gli galleggiavano accanto in una marea rossa. Ansante, notò Fusili steso sul bordo del canale col suo coltellaccio, e per la prima volta ringraziò di averlo come commilitone, piuttosto che nemico.

    – Problema risolto – proclamò Ravelli con durezza. – Proseguiamo, il sole sta arrivando.

    Galassi si sforzò di riprendere la marcia al seguito del maggiore. Tremava come una foglia, pur non riuscendo a stabilire se per l’acqua fredda che gli arrivava alla cintola o per la paura della missione a cui stavano andando incontro. Per farsi forza ripensò ai primi giorni dopo la ritirata, quando tutto sembrava perduto. Era rimasto con pochi altri superstiti della sua unità, bloccato sulla riva sinistra del Piave e condannato alla prigionia o alla morte. Ravelli li aveva riuniti sotto il suo comando, infondendo loro una nuova speranza, convinto che la guerra non fosse perduta. Avrebbero continuato a combattere gli austro-tedeschi, solo in maniera diversa.

    Erano infatti riusciti a stabilire un contatto con la popolazione locale, messa in ginocchio dalle privazioni della guerra e dominata dall’odio nei confronti di chi le stava portando via tutto. Confondendosi fra essa, disturbavano in ogni modo la logistica del nemico, fra sabotaggi di linee telefoniche, modifiche alle segnalazioni stradali e furto di munizioni. Ma in quell’ultima circostanza Galassi valutò che forse si erano spinti molto al di là delle loro possibilità, arrivando a ideare un piano tanto ambizioso e pericoloso che mirava all’eliminazione del comandante tedesco di quel settore del fronte. Rabbrividì, pensando alla sua maldestra esplosione di poco prima, con la quale aveva rischiato di far fallire l’operazione fin dal principio.

    Ravelli non aveva rivelato il reale motivo del piano, ma Galassi era certo che il maggiore volesse vendicare alcuni suoi compagni, catturati poco dopo la ritirata e subito fucilati dai tedeschi. Aveva assistito per lunghi giorni alla sua angoscia, al tormento interiore che muoveva il comandante nello studio maniacale dei luoghi, delle truppe nemiche e del momento giusto per colpire. Infine era stata scelta l’alba, in modo da sorprendere il nemico proprio nel bel mezzo degli avvicendamenti fra i reparti. Il momento migliore, immaginò Galassi, per creare confusione.

    Si ritrovò a pensare alle conseguenze di tale azione, soprattutto a quanto potesse costare in termini di ripercussioni sulla povera popolazione civile. La sua mente volò rapida a tutte le persone che li avevano aiutati fino a quel momento, trovando loro un nascondiglio, fornendo informazioni o anche semplicemente un pasto caldo. Scacciò a fatica il pensiero di cosa potesse accadere se fossero stati scoperti ad aiutare dei soldati italiani in incognito. Se fosse dipeso da lui, considerò infine, l’esplosione del deposito sarebbe già stata sufficiente a mitigare ogni senso di colpa per i compagni caduti.

    Raggiunse il luogo dell’incontro proprio nel bel mezzo delle sue riflessioni. Scavalcato il fossato, in pochi secondi si mise al riparo con i compagni dietro alcuni rovi, cresciuti nell’incuria davanti al muro di cinta della costruzione.

    – Attendiamo gli altri – ordinò Ravelli, ansante. Galassi pensò che il maggiore dovesse aver passato da un pezzo l’età per certe imprese, eppure eccolo lì, sempre in testa ai propri uomini. Approfittò della sosta per osservare la villa attraverso una breccia nel muro. Se ne stava come adagiata su un rialzo del terreno, l’unico di una certa rilevanza in chilometri di pianura uniforme fatta di campi coltivati e terreni alluvionali.

    Un punto perfetto per un comando militare, si ritrovò ad ammettere Galassi. La bella struttura, soltanto sfiorata da qualche occasionale colpo d’artiglieria italiana, sfidava la guerra con la sua imponenza ed eleganza, pur se costretta in un ruolo tanto triste. Nei lunghi appostamenti con Ravelli, Galassi ricordò che tutte le imposte della villa erano sbarrate giorno e notte, in modo da ostacolare l’osservazione aerea e quindi evitare un bombardamento diretto su di essa. E così la ritrovò anche quel mattino, barricata e silenziosa, a eccezione di un piccolo gruppo di soldati tedeschi che vi facevano la guardia all’ingresso della costruzione; assistevano sgomenti al tetro spettacolo dell’incendio, e i loro commenti concitati giungevano chiari alle orecchie di Galassi.

    – Bene, i crucchi sono distratti – sentenziò Ravelli dopo alcuni minuti di studio. – È venuto il momento di muoversi, dovremmo esserci tutti. – Galassi si volse e scoprì che anche gli ultimi compagni avevano raggiunto il punto di riunione. Sospirò, soppesando che l’intero contingente di Ravelli era tutto lì: una decina di fanti male in arnese pronti a sfidare l’ignoto.

    – Oltrepassiamo il muro qui – proseguì il maggiore, – poi in fila indiana raggiungeremo il secondo ingresso della villa, che sembra sguarnito.

    – E se il colonnello crucco non c’è? – avanzò Fusili.

    – Ci sarà senz’altro – tagliò corto Ravelli. Galassi l’osservò armeggiare con la pistola, una vecchia Bodeo fino a quel momento tenuta nascosta nella cinta dei pantaloni. Aveva certamente visto tempi migliori, pensò, ma nonostante la ruggine sarebbe stata comunque in grado di fare il suo dovere. – Una volta superato il portone non perdete tempo a guardarvi attorno. Restate uniti dietro di me fino al secondo piano. Se le informazioni che abbiamo sono corrette, l’ufficio del comandante tedesco si trova lì. – Rialzò il volto, accennando un sorriso tirato che ebbe solo il merito di inquietare ancor più Galassi. – Saremo fuori in un attimo.

    Il silenzio più completo accolse la spiegazione di Ravelli. Galassi valutò che, a parole, il piano pareva una mera formalità, tanto semplice da riuscire difficile anche soltanto immaginarne un qualsivoglia imprevisto. Eppure nella vita e in guerra, come stava imparando, nulla era davvero così facile e lineare.

    – Tutto chiaro? – proseguì Ravelli. – Controllate le pistole. Mi auguro che non vi servano, ma è sempre meglio non rischiare. – Fissò per un istante gli occhi neri di Fusili, imperturbabili. – E non voglio uccisioni inutili. Hofberg verrà con noi vivo e vegeto. Intesi?

    Galassi annuì all’unisono insieme agli altri nove fanti, deciso a concludere quanto prima quella folle missione di cattura.

    – Bene. Quando l’avremo preso ci dirigeremo al solito nascondiglio e andremo avanti con il piano. – Ravelli sospirò platealmente, quasi volesse estinguere così la propria tensione. – Non vi preoccupate, Dio è con noi.

    – Dove l’ho già sentita, questa? – borbottò Fusili piazzandosi a fianco di Galassi.

    Galassi rispose con un’alzata di spalle e tornò a cercare lo sguardo del comandante, che però era già sparito attraverso una breccia nel muro. Sentì di nuovo la tensione cingerlo d’assedio, perché comprese che la fase più importante e pericolosa dell’operazione era appena iniziata. Gli ci vollero alcuni tentativi per levare la sicura alla pistola e ricacciare la paura in un angolo della mente. Infine riuscì a seguì l’anziano superiore.

    Galassi procedette curvo fra gli arbusti del giardino, accompagnato dai rochi respiri dei compagni. Arrivato fin sotto il secondo portone d’ingresso alle spalle del gruppo di tedeschi, constatò con sollievo che fino a quel momento nessun grido d’allarme aveva interrotto la loro avanzata. Raggiunto il maestoso portone di legno, rimase a fissare preoccupato gli enormi battenti che parevano pronti a inghiottirlo.

    – Aprilo, Galassi – ordinò Ravelli in un sussurro.

    Galassi deglutì e cominciò a spingere con cautela il portone, che si spalancò senza cigolii. Venne accolto da un grande atrio in penombra e deserto. La sola vista di quella splendida casa, violata della propria bellezza, gli provocò un’intensa fitta di rabbia che fu in grado di dominare a fatica. Un giorno, di questo ne era certo, quei profanatori l’avrebbero pagata cara.

    Corse rapido dietro Ravelli verso la rampa di scale di marmo, debolmente illuminata da alcune lampade a olio posizionate al piano superiore, dove si apriva un lungo corridoio inframmezzato da diverse porte chiuse.

    – In quale stanza sarà? – domandò Fusili, che Galassi vide per la prima volta agitato. – Potrebbero volerci delle ore!

    Ravelli non rispose, e Galassi pensò che fosse troppo concentrato sulla missione per rispondere a simili domande. Intuì che volesse dirigersi subito in fondo al corridoio, al termine del quale, secondo gli abitanti della zona, sorgeva la stanza più bella di tutta la villa. Una scelta che Galassi sapeva bene essere affine al ruolo di un comandante di reggimento come Hofberg.

    All’improvviso si spalancò una porta alla sua destra. Ne vide uscire un fante assonnato, con la divisa sbottonata e disarmato. Adocchiò confuso le lacere figure davanti a lui.

    Was is das? – domandò al nulla.

    Galassi si arrestò contro la parete opposta, troppo spaventato per opporre qualsiasi reazione. Impietrito, scorse con la coda dell’occhio una figura sfrecciargli davanti e balzare addosso al nemico come un felino. Solo dopo alcuni interminabili istanti riconobbe Fusili.

    Alarm! – riuscì soltanto a gridare il tedesco, prima di venire trafitto alla gola dal terribile arnese del soldato italiano. Galassi chiuse d’istinto gli occhi, ma la fine del nemico penetrò comunque nella sua mente. Infine si accorse che il silenzio tornava a essere ancora padrone del nuovo giorno.

    Galassi riaprì gli occhi sul viso schizzato di sangue di Fusili, mentre questi trascinava il corpo nella stanza aperta. – Speriamo non ci abbiano sentiti – riuscì soltanto a mormorare, ancora addossato alla parete.

    Un trambusto al piano inferiore infranse però le sue speranze. Udì isteriche voci straniere, unite all’inconfondibile scalpiccio degli scarponi sul marmo.

    – Arrivano! – grugnì Ravelli. Galassi l’osservò lanciarsi con i propri uomini in una corsa sfrenata, fino allo stanzone del possibile ufficio di Hofberg. Provò a stargli dietro, ma il maggiore aveva già sfondato la porta senza esitazioni, la pistola puntata in avanti alla ricerca del bersaglio. Nel corridoio cominciarono a risuonare i primi spari.

    – Chiudete la porta! – ordinò Ravelli boccheggiante. Galassi la chiuse con l’aiuto di Fusili e vi mise davanti alcuni mobili per sbarrarla dall’assalto nemico. I battenti fremevano sotto le pallottole tedesche, ma l’improvvisata barricata resistette.

    Galassi fece scorrere gli occhi su quell’ambiente semibuio, dominato da un’enorme scrivania di mogano circondata da un’altrettanto imponente libreria semivuota, tanto simile al sorriso sdentato di un vecchio. Nulla sembrava confermare che quello fosse davvero l’ufficio di Hofberg. E comunque, appurò Galassi con un brivido, lui non c’era.

    Sentì susseguirsi colpi sempre più forti contro il portone, ormai pronto a cedere di schianto. Più che la porta, ebbe la sensazione che i tedeschi stessero colpendo la sua testa.

    I suoi compagni ribaltarono la scrivania e si misero al riparo dietro di essa, avvolti dalla paura dello scontro imminente. Galassi li fissò mesto, conscio che Ravelli li avesse trascinati a morire per una causa impossibile. Probabilmente così voleva il Signore, avrebbe detto il maggiore, eppure non riusciva a non prendersela con il destino o la malasorte. Inspirò a fondo, strinse forte nella mano la pistola e infine prese posizione fra i compagni, accompagnato dai sinistri scricchiolii del legno massacrato.

    Quando gli parve che la porta dovesse finalmente rovinare del tutto, la foga dei fanti tedeschi cessò improvvisa. Galassi contemplò il nuovo, lacerante silenzio appena ripiombato sulla villa, che sembrava si fosse portato via la guerra da quel mondo malato.

    – State pronti, soldati – sussurrò Ravelli.

    Galassi avvertì la morsa soffocante della paura, che gli attanagliò le viscere in un turbinio di dolore mai provato prima. Sapeva che la vecchia signora con la falce era lì, nascosta in qualche angolo della casa e pronta a reclamare il suo lauto bottino.

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