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Il diavolo senza corna
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E-book788 pagine10 ore

Il diavolo senza corna

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (655 pagine) - Un certo caporale tedesco muore nelle trincee della prima guerra mondiale e un sanguinario commissario bolscevico viene ucciso poco dopo per vendetta. Il mondo cambia drasticamente.


La Germania non avrà il nazismo e l’URSS non conoscerà lo stalinismo. E tuttavia, in un serrato racconto di protagonisti noti e sconosciuti, scivolerà pian piano verso l’irreparabile.

Il mondo costruito dai suoi leader, nella nostra time line come in quella alternativa. Uno straordinario racconto a più voci ideato da un autore esordiente ricostruisce ciò che la storia sarebbe stata se non avesse conosciuto Hitler e Stalin. E con un’America ben diversa da quella che conosciamo.


Stefano D’Adamo è nato nel 1974 a Busto Arsizio, ed è un appassionato di storia alternativa.

L’unico libro che ha scritto prima di questo è la sua tesi di laurea in storia, a riprova di una conclamata vocazione a una vita di sacrifici. Per il resto, si è dedicato occasionalmente alla poesia.

Il diavolo senza corna è il suo primo romanzo.

LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2021
ISBN9788825418057
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    Anteprima del libro

    Il diavolo senza corna - Stefano D'Adamo

    1

    15 ottobre 1918, fronte occidentale

    Le porte dell'inferno si erano chiuse sulla compagnia, sul reggimento, su tutto il fronte. Erano calate il giorno prima come una cortina di nebbia giallo-bruna seguita al ruggito e al terremoto del concerto d'artiglieria cortesemente offerto dagli inglesi. Le porte dell'inferno avevano anche ingoiato un gran numero di soldati del Kaiser: quegli stessi uomini che appena sei mesi prima, nonostante la fame, le ferite, le malattie, sentivano profumo di vittoria e ora tremavano accucciati sotto i colpi devastanti delle granate nemiche. Quel tratto di trincee improvvisate nelle piane del Belgio sarebbe diventato per molti, troppi, la tomba. Proprio in vista della conclusione di una guerra che appena mezzo anno prima sembrava poter essere vinta e che ora i disfattisti, i traditori, volevano perdere per procedere alla loro rivoluzione.

    Il caporale, che ancora schiumava di rabbia a ripensarci, era rimasto contaminato dal gas. Ne aveva avvertito l'odore penetrante ma non era riuscito a indossare la maschera per tempo. Ora, l'aveva visto già in altri casi, si sarebbe gonfiato di bolle dolorose e purulente. Forse sarebbe rimasto cieco, per chissà quanto. Non bastavano l'incubo del fuoco tambureggiante, la mira infallibile dei tiratori scelti, il rischio mortale di portare messaggi sotto l'azione nemica da un comando all'altro: lui lo aveva corso ormai da quattro anni, senza mai lamentarsi, sempre ligio agli ordini e ardente di patriottismo e senso del dovere, da vero, eroico soldato della Germania. Ora avrebbe conosciuto anche l'invalidità, come tanti altri veterani: per quanto? Per sempre, forse?

    A scuoterlo dall'immobilità in cui si era raggomitolato fin dal giorno prima, la maschera ormai inutile sul viso, nell'attesa forse vana di essere evacuato, fu l'improvvisa ripresa del fuoco dei mortai nemici. Vicino, vicinissimo. Vi furono urla e una pioggia di schegge. Si coricò su un fianco. Rialzandosi con difficoltà, si accorse di essere ferito a un braccio e sanguinante, anche se in grado di camminare. Vedeva ancora, ma a malapena, le sue palpebre si stavano gonfiando rapidamente, e gli occhi erano in fiamme. Quelli sì, facevano male, male da piangere, se solo avesse potuto.

    Giurò di vendere cara la pelle. I maledetti Schweinhunde non lo avrebbero avuto così facilmente, non si sarebbe dato per vinto. Il braccio sinistro doleva, ma il destro poteva ancora reggere il fucile. Il nemico avrebbe quasi certamente tentato un attacco locale di fanteria, credendo di aver spazzato via ogni difesa, ma lo avrebbero respinto, come tante altre volte.

    Non appena l'ultima scarica di lanciamine cessò, il caporale, seguendo due camerati con le ultime forze, si trascinò fuori dalla trincea. Si arrampicò per una scaletta, benché altri cercassero debolmente di richiamarlo all'interno. Incespicò, cadde, si rialzò con una fitta lancinante al braccio ferito; fece fuoco, alla cieca, in direzione delle posizioni nemiche, dei Tommies. Non poteva vederli, ma li sentiva. Non seppe quanti metri fece verso il nemico, quanti colpi ancora sparò gegen England. Non lo seppe mai. Il proiettile di un cecchino lo raggiunse al cuore, spappolandoglielo. Il giovane che aveva sparato, un minorenne dello Yorkshire arruolatosi mentendo sull’età, non seppe mai di aver ucciso non un tedesco, bensì un austriaco.

    2

    24 ottobre 1918, Tsarytsin, Russia

    Anastasia Petrovna camminava a passi decisi verso l'edificio. Aveva smesso di tremare. Se mai aveva avuto paura, ormai era alle spalle. Il suo cuore era di pietra. Quando non hai più nulla da perdere, è così. Sotto il cielo d'acciaio di un autunno già freddo, diede un ultimo sguardo al Volga: il grande fiume scorreva lontano, e ancora non mostrava le lastre di ghiaccio portate dalla corrente a preannunciare i rigori tremendi dell'inverno russo.

    Gli stivali che battevano un lastricato luccicante di brina sciolta, si trattenne dall'affrettarsi solo per non destare sospetti. Il lasciapassare nelle sue mani, ottenuto probabilmente in modi irriferibili e fornitole dal vecchio Nikolaj, era la sua carta decisiva. Con quello avrebbe potuto ingannare gli stretti controlli delle Guardie Rosse e puntare il suo uomo. Che poi, quella era una parola grossa: l'osceno butterato che da mesi seminava terrore e morte in città con i suoi tagliagole bolscevichi, uomo non era. Anche le più feroci tra le bestie avrebbero avuto da ridire, a sentirselo paragonare.

    Erano i suoi ultimi passi, ne era cosciente. Non sarebbe uscita viva da questa azione: non solo, non ne aveva la minima intenzione. Non dopo aver perso il suo unico figlio maschio, il suo Vassili Sergejevič dagli occhi del colore del cielo di Russia, come quelli di nonno Vanja. Vassili, colpevole solo di essere un cadetto militare, di famiglia né operaia né contadina, bensì borghese, e pertanto ipso facto nemico del popolo nella nuova Russia rivoluzionaria del compagno Lenin. Una rappresaglia fra le tante, un massacro fra i tanti in questa città che dall'estate aveva già pianto vittime a decine, a centinaia, di questa guerra civile condotta da entrambe le parti con ferocia estrema. Una famiglia onorata non esisteva più. Ma i bolscevichi non avevano fatto i conti con una madre colpita nell'affetto più caro.

    Fu presto davanti a quella porta da cui la maggior parte dei cittadini si teneva prudentemente alla larga, salvo certi individui dal viso di topo, sempre pronti alla delazione. Le guardie rosse le chiesero il lasciapassare, trapassandola con occhi sospettosi, e ottenutolo la fecero entrare, tanto più che la donna aveva riferito di avere informazioni urgenti per il compagno S. Un soldato anziano e trasandato la perquisì sommariamente, frugandole nelle tasche del cappotto. Lo sguardo di Anastasia Petrovna lo fulminò e il milite, che non aveva ancora perduto ogni traccia di decenza, quasi si scusò. Ora si trattava di trovare quell'essere spregevole.

    Lo aveva visto in un paio di occasioni, glielo avevano indicato per strada delle persone, sussurrando terrorizzate, e dalla deferenza con cui i suoi sgherri lo trattavano non poteva che essere lui: un uomo basso, tarchiato, baffuto, dagli occhi feroci di bandito del Caucaso dal cuore nero come il diavolo quale, ne era certa, era.

    Fu lo stesso soldato che la aveva perquisita ad accompagnarla al piano superiore fino alla porta di quello che doveva essere un appartamento di pregio confiscato. Con il suo pesante accento contadino le ordinò di attendere. Intorno altre porte sbattevano, soldati, commissari e civili dall'aria guardinga andavano e venivano, ordini conditi di bestemmie e volgarità venivano gridati dalle finestre alle guardie rosse che ciondolavano mezze ubriache in strada. Dopo dieci lunghissimi minuti, scanditi dal pulsare dei battiti del cuore, Anastasia Petrovna fu chiamata ed entrò, già temendo di trovare altre guardie a protezione del suo obiettivo.

    Invece l'uomo era solo alla sua scrivania. Leggeva dei dispacci con una pipa tra i denti, una matita tra le dita ingiallite dal fumo. Restò così per quasi un minuto, ignorandola. Infine alzò lo sguardo, gli occhi arrossati e torvi, il viso segnato e gonfio: davanti a lui comparve la canna di un piccolo revolver, spuntato da una tasca interna del colbacco della donna.

    – Per mio figlio – mormorò Anastasia con voce fredda come la Siberia, tirando il grilletto una, due, tre volte.

    Il georgiano sobbalzò all’impatto dei proiettili. Ci mise tre settimane a morire. Anastasia Petrovna molto meno.

    3

    11 novembre 1918, ore 10,55, fronte occidentale

    Il tenente Rudolf Diercks si sentiva una tigre in gabbia. Di lì a cinque minuti i combattimenti dovevano cessare su tutto il fronte, ma si sparava ancora. Curiosamente, erano solo i tedeschi a insistere. I francesi avevano già smesso da un pezzo. Anche Rudolf aveva promesso a sé stesso di usare fino all'ultima pallottola prima della cessazione delle ostilità. Al limite della trincea, sparava un colpo dietro l'altro, con metodo, ma senza alcun obiettivo preciso.

    Aveva ucciso varie volte nei quattro anni precedenti, in cui era asceso a quello che per gli arroganti Junker era il primo gradino dell'umanità, ed era stato quasi ucciso a sua volta, cavandosela miracolosamente in più di una circostanza. Non era per uccidere che sparava ora, combattendo lacrime che aveva tenuto dentro per troppo tempo. Sparava per dimostrare di esistere ancora, per dare un senso all'immane macello cui aveva preso parte forse senza l'entusiasmo bruciante dei giovanissimi, ma con la cupa determinazione di chi era già veterano dentro, prima ancora di sentirsi fischiare le pallottole intorno. Mesi, poi anni di combattimenti senza tregua, passando da semplice Unteroffizier a ufficiale decorato al valore.

    E ora, tutto si dimostrava inutile, la patria umiliata e costretta a chiedere un armistizio al nemico implacabile che da settimane li respingeva lentamente indietro, verso il Belgio, verso la Germania.

    – Lasci perdere, tenente – azzardò il sergente Weber, un'altra vecchia pellaccia del fronte, seduto con la schiena alla parete della trincea. – Non ne vale davvero più la pena . – L'ufficiale stava per fulminare il suo sottoposto con un'occhiataccia quando il silenzio lo sorprese, improvviso e quasi sovrannaturale. E dopo pochi istanti, un fruscio… no, un mormorio, crescente per volume e intensità.

    Era il nemico che festeggiava nelle sue trincee, distese dal Mare del Nord ai Vosgi per una striscia sconvolta di terreno arato dalle bombe e fertilizzato dai cadaveri. Diercks pianse di rabbia. Weber, al suo fianco da mesi, da quando Hansen era caduto sulla Marna, e ormai quasi un padre per i più giovani della compagnia, si avvicinò, si tolse l'elmetto e gli mise una mano sulla spalla.

    – Dovremo farcene una ragione – mormorò.

    Diercks si scosse rabbiosamente. – Nein – ringhiò con voce soffocata. – Quattro anni di sacrifici… tanti camerati caduti… per questo?

    Davvero era questo tutto quello che restava di un così immane sforzo? Nessuna parata vittoriosa, nessuna consolazione. Un paese di vedove e orfani affamati, un esercito che sì, salvo cedimenti locali di fronte alla superiorità nemica si sarebbe battuto ancora per puro orgoglio, per cameratismo, ma stava in piedi a stento. Nelle retrovie, i lavoratori in agitazione in nome del socialismo qui e ora e della pace immediata a qualsiasi costo, e con l'idea di fare come in Russia. Queste le voci che giravano per le trincee.

    A Diercks girava la testa. Crollò a terra, sfinito dopo la sua ultima futile battaglia. Non lo attendeva più nessuno, per quanto ne sapeva. La sua famiglia era il fronte, e benché ormai quasi trentenne, non era nemmeno fidanzato, dopo aver rotto con Else poco prima della guerra. Mutti era morta in quel periodo; quanto a papà, non si era mai ripreso dalla vedovanza improvvisa e aveva raggiunto sua moglie poco dopo.

    L’allora Feldwebel Rudolf si batteva in quel periodo nell'inferno di Verdun, terrorizzato ma indomito, guadagnandosi la stima dei superiori e la prima ferita di guerra. Dopo un non breve periodo in ospedale erano arrivati la Croce di Ferro di prima classe e i gradi da ufficiale. Restava giusto la sorella, Lise, ma i rapporti non erano dei migliori, soprattutto con il cognato. Che ne sarebbe stato ora di lui? E che ne sarebbe stato della patria tedesca tutta?

    Il futuro gli appariva cupo e incongruo come il silenzio che era sceso sulle trincee ancora bagnate dal sangue di milioni di sventurati.

    4

    11 novembre 1918, ore 15 (ora locale della East Coast), Newport, Rhode Island, USA

    Il sottotenente di vascello Nathan Willard Compton aveva tutte le ragioni di sorridere soddisfatto. La nave, la base e tutta la città festeggiavano la fine della guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre. A lui, poi, era andata particolarmente bene. Non che fosse strettamente necessario, ma non partecipare allo sforzo bellico sarebbe stato molto mal visto da parte di un giovane uomo d'affari in carriera sì, ma anche di sana e robusta costituzione.

    La reputazione è tutto nel business, e se la gente ti guarda male perché ancora non sei in divisa, e arriva a denunciarti pubblicamente per averti sentito parlare in tedesco col vecchio Steinhauser, il tuo primo mentore e amico, ti devi adeguare al periodaccio.

    Cose da pazzi, con mezzo paese di discendenza tedesca, torme di esagitati se l'erano presa con impeccabili patrioti americani!… Arruolarsi in Marina era stata una buona scelta, tanto più che pure lì i germanofoni tornavano utili, sai mai. La soluzione lo aveva tenuto ben lontano dall'orrore delle trincee, intanto, e a dispetto del timore che gli U-Boote del Kaiser provocavano, anche dai siluri.

    Un concerto di sirene dello squadrone di cacciatorpediniere di stanza nella base di Newport si fondeva con lo scampanio delle chiese, le trombe delle automobili di passaggio e gli ottoni della banda che provava e riprovava marcette vivaci e l'immancabile inno nazionale. Nunc est bibendum era il pensiero diffuso, sia pure in termini meno classici, pensò Compton guardando i commilitoni che gettavano i berretti in aria e si davano gran pacche sulla schiena, senza dubbio pregustando il momento di scendere a terra e sfondarsi di alcool alla faccia delle dame della temperanza, per poi andare, se ancora stavano in piedi, a caccia di gonnelle, a pagamento e no.

    Non che le donne non gli interessassero, ne sapeva qualcosa la rossa Mary, quella baldracca d'una irlandese!, ma Compton, uomo forse rozzo ma pratico, aveva in mente un altro tipo di ritorno a terra, quello ai suoi benedetti affari e agli amati dollaroni. Nulla meglio che sentire frusciare le banconote, essere al centro del movimento, della vita, guardare dall'alto l'America che cresce, che conquista, che dà l'esempio, l'America sempre prima grazie allo spirito sano e vitale dei suoi innumerevoli businessmen.

    A Nat in verità poco importava ora di essere nella divisa di un ufficiale di marina, la guerra era stata per lui un inconveniente, una parentesi che lo aveva costretto a lasciare al buon Gus la gestione dell'azienda, con l'edilizia quasi ferma e quindi tutto l'indotto in stasi; anche se in fondo la naia gli aveva permesso di fare qualche conoscenza utile. Ad esempio quel Jonathan McClintock, che ora gli strizzava l'occhio mentre si godevano lo spettacolo della città in festa.

    Su un uomo come quello, pensò Compton, si poteva fare affidamento. Senza famiglia, da poco rimasto disoccupato all'inizio della guerra, quel povero bastardo dalla schiena di ferro si era fatto in quattro anche per lui a bordo, lo aveva preso in simpatia, e gli si era messo a disposizione per il dopo, per qualunque evenienza, dal recupero crediti ai classici compiti di un galoppino aziendale. Non si sarebbe fatto problemi a trasferirsi da Boston a Chicago.

    Un tetto sulla testa, una paga decente, e cose e persone si muovevano. Questa era l'America! Quanto a lui, Compton, era tempo di tornare a spennare i compagni a poker, prima di dedicarsi nuovamente all'eterna lotta per l'affermazione del più adatto: non era questo il senso della vita? E se qualcuno, come già avvenuto più d'una volta, lo avesse etichettato come figlio di puttana, be', quant'è vero Iddio, con buona pace della sua vecchia, lui lo avrebbe accolto come un complimento sincero.

    5

    29 gennaio 1921, Riga, Lettonia

    Il freddo umido dell’inverno baltico assediava la capitale della giovane Lettonia. In un signorile edificio di stile tedesco, dominante in città, due delegazioni stanche e irritabili brindavano quiete, e per lo più in disparte l'una dall'altra, alla conclusione dell'ennesimo trattato di pace della storia, sintomo e conseguenza dell'ennesima guerra.

    Da una parte i rappresentanti della rinata Polonia; dall'altra i bolscevichi moscoviti di quella che ancora non si chiamava Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ironicamente questi ultimi non solo in buona parte non erano neanche russi doc, ma la loro ferrea dittatura rivoluzionaria era sostenuta da un reparto di fucilieri lettoni, fra le più fidate guardie di Lenin, e dalla spietata polizia segreta, la Ceka, guidata proprio da un polacco della piccola nobiltà che aveva rinnegato nazionalità e appartenenza di classe in nome del sol dell'avvenire: Feliks Dzeržinski.

    La guerra fra i polacchi e i bolscevichi era stata aspra e sanguinosa, per quanto misericordiosamente breve nella sua fase più acuta; e tanto movimentata e piena di rovesciamenti della situazione quanto era apparso inchiodato nelle trincee l'immane conflitto in Francia appena pochi anni prima. Si era trattato peraltro di un episodio di una più vasta e devastante guerra controrivoluzionaria, ampiamente sostenuta dall'estero, che aveva insanguinato vaste plaghe del continente, dalle città tedesche alle campagne baltiche, dalle foreste finlandesi alle paludi del Pripjat.

    Mentre i rossi, ancora alle prese con i bianchi zaristi e i loro eserciti dalla Crimea alla Siberia, tentennavano sul da farsi, i polacchi avevano attaccato per primi e invaso con forze consistenti l'Ucraina, patria contadina dallo spirito insieme anarchico e identitario, già insofferente del giogo bolscevico come lo era stata di quello zarista.

    Male gliene era incolto, però, e la giovane ma già esperta Armata Rossa di Trotskij li aveva respinti invadendo rapidamente gran parte della Polonia fino alle porte di Varsavia. Qui doveva proprio averci messi una mano la Madonna Nera di Częstochowa, perché si era compiuto quello che ai più era parso un miracolo: l'orda russa era stata battuta in modo più che sonoro e i polacchi avevano trionfato in pompa magna. Non contenti, nelle settimane successive avevano altrettanto velocemente occupato vasti territori fino dentro la Bielorussia.

    Il problema più spinoso era rimasto però quello ucraino, o galiziano che dir si volesse. Leopoli era finita sotto assedio da parte dei rossi; e benché la cavalleria bolscevica del baffuto comandante rosso Budyonnyj fosse stata sbaragliata in un primo tentativo di rompere le linee da parte polacca, gli assedianti non avevano mollato la presa e avevano anzi presto ripreso a circondare la città, anche per garantirsi un migliore accordo di pace.

    Dopo un rinnovato tentativo polacco, fallito, di sbloccare la situazione militare, la diplomazia delle due parti per ragioni opposte e concomitanti si era rassegnata a firmare in fretta un trattato che non soddisfaceva davvero nessuno, e men che mai le sfortunate popolazioni interessate, le quali avevano ben altri problemi quotidiani che le linee su una mappa.

    Avevano spinto in questa direzione da un lato le lotte politiche interne polacche fra un altro celebre baffuto, Piłsudski, e i nazionaldemocratici, dall'altro il caos interno della Russia bolscevica, in preda a ribellioni contadine e agitazioni nell'esercito e nella flotta sobillate da anarchici, menscevichi e socialrivoluzionari.

    – Era tempo di farla finita, per voi come per noi – osservò un inviato polacco quando ancora l'inchiostro delle firme non era asciutto.

    – Indubbiamente – rispose il ben più giovane collega russo vicino a lui, constatando il dato di fatto.

    – Sui punti da chiarire alla fine vi siete mostrati ragionevoli. Mi sarei stupito del contrario, questo trattato dopotutto vi concede più di quanto vi sareste mai sognati

    – Può essere – fece il polacco, accendendosi una sigaretta e traendone una boccata soddisfatta – a un certo punto il vostro… governo, come lo chiamate?, era addirittura disposto a cedere Minsk. Poi, proprio quando vi ritenevamo battuti su tutta la linea, le cose si sono, ahem, complicate nuovamente intorno a Leopoli. E quando in autunno i combattimenti sono ripresi e non siamo riusciti a sbloccare la città, ci siamo dovuti rassegnare ad accettare una soluzione per noi non proprio soddisfacente. Piłsudski non ne sarà contento, ma, detto privatamente, non me ne straccio le vesti.

    Il russo rispose appena con un'alzata di sopracciglio, senza commentare: la disciplina di partito dell'avanguardia rivoluzionaria non sembrava prerogativa di questi imperialisti di un'altra epoca, ancora dediti al baciamano alle signore e ai duelli tra gentiluomini per punto d'onore. La Storia, pensò, si sarebbe incaricata di seppellirli con i loro vecchiumi.

    L'importante era che ora che il nuovo Stato bolscevico avesse un confine di cento chilometri lungo i Carpazi con la Cecoslovacchia, altra giovane e strana creatura statuale di questi tempi nuovi: un paese plurinazionale, a guida borghese, indubbiamente, ma certo meno antibolscevico della Polonia e non privo di potenzialità progressiste. Un paese, soprattutto, che aveva già dato segno di essere intenzionato a riconoscere, nella sostanza se non nella forma, l’autorità del compagno Lenin e dei suoi commissari. Forse sarebbe stato anche possibile stabilire una qualche forma di relazione commerciale, per quanto possibile attraverso i Carpazi, quei monti remoti ricchi di foreste (e di ribelli ucraini seguaci di Petliura) ma poveri di strade.

    I rumeni, per contro, avevano dato ogni segno di non gradire: tanto peggio per quei boiari rifatti, che per il solo fatto di parlare una lingua neolatina si atteggiavano a francesi dell'Est, e pur avendo straperso la guerra si erano ritrovati il territorio nazionale espanso a dismisura. Non era stato facilissimo disegnare un confine senza scontentare i polacchi. Su Ternopol', Kolomiya e Stanislav con le relative province comunque i bolscevichi l'avevano avuta vinta, ed era quanto contava per il momento.

    Per il momento, ribadì fra sé, scambiando uno sguardo diffidente con la controparte polacca ormai distante. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, con certi vicini: la Storia è maestra ma i suoi allievi sono disattenti, e me ne dovrò ricordare, se vorrò continuare a essere degno di essere chiamato compagno Kirov, pensò Sergej Mironovič Kostrikov.

    6

    13 gennaio 1922, Chicago, Illinois, USA

    – In politica? Io? Bè, perchè no? – Nathan W. Compton non si aspettava la proposta, ma in fondo la cosa aveva il suo senso. Se un uomo cui doveva dei favori come l'ex congressista Frank L. Smith, recentemente trombato nell'ultima corsa al Senato e ora a capo della Illinois Commerce Commission, gli proponeva di impegnarsi in politica con i repubblicani, perché deluderlo? Le conoscenze sono tutto nel business, e la politica non è che un altro strumento per avanzare i propri interessi, e se proprio va bene, anche quelli del paese.

    – E va bene Frankie, questo te lo devo – ammise infine, fingendo un sospiro.

    – Non solo a me, all'Illinois, a questa città, agli Stati Uniti – ribatté Frank. – Serve gente sveglia e capace a tutti i livelli dell'amministrazione, che tu ne resti fuori sarebbe uno spreco. Un goccio? – aggiunse Smith tirando fuori da un cassetto una bottiglia di whisky prudentemente avvolta in un anonimo sacchetto di carta.

    – Grazie – rispose Compton, che del proibizionismo, come ogni adulto responsabile, se ne faceva un baffo, pur appoggiandolo pubblicamente.

    – A noi, dunque – brindò Smith. – Alla tua elezione alla Camera dei rappresentanti di questo Stato dell'Unione – aggiunse cerimoniosamente. – Mi rendo conto di chiederti qualcosa che potrà metterti in difficoltà nel gestire gli affari, ma è vero anche che ti vanno piuttosto bene, no?, e dopotutto non sarai costretto a dedicare alla politica tutto il tuo tempo. I miei galoppini e lo staff del partito saranno a tua disposizione. Non ti devi preoccupare. L'importante è avere un uomo affidabile all'interno delle istituzioni, pronto a vigilare contro i rossi e contro chi allunga mani avide sui frutti del lavoro.

    – Questo è parlare, boss – commentò Compton, che tutto intendeva meno che boss riferendosi a quello che chiamava ormai con familiarità Frankie, ma privatamente non considerava né particolarmente dotato, né capace.

    – Ormai non sei più un ragazzo, hai trentatré anni, se ben ricordo – puntualizzò Smith. – L'età di una stella in ascesa della politica locale, e perchè no, magari non solo locale.

    – Calma, non corriamo – rise Compton sorseggiando con calma il liquore e apprezzandone il gusto rotondo – prima bisogna farsi eleggere, e non è mai facile. Abbiamo garanzie?

    – Ti ripeto, non preoccuparti – fece Smith appoggiandosi allo schienale della sua poltrona. – I nostri sanno su quali tasti battere, che personaggi avvicinare, quali comprare, in quali quartieri si vota e come… Nella sola Chicago senza troppa difficoltà dovremmo trovare di che farti avere la maggior parte dei voti necessari. Del resto qui vive mezzo Illinois. E tu sei già un nome conosciuto nel mondo dell'edilizia, e ultimamente anche in altri business.

    – Oh sì – osservò Compton con noncuranza. – Nel mio caso parlare di marchio di fabbrica è forse prematuro, ma sicuro come l'inferno, molta gente sa chi sono, di strada ne ho fatta. Per uno venuto da ragazzo dal Wisconsin non me la sono cavata male, per niente.

    – E i tempi promettono bene – aggiunse Smith, lo sguardo che si perdeva, oltre la finestra, nella selva di cemento della grande città patria autoproclamata del vento. – Se continua così saranno anni eccezionali. Dobbiamo viverli sul ponte di comando, o almeno provarci. Credo tu capisca perfettamente cosa intendo, del resto eri in marina durante la guerra…

    – Sì, è stata una gran seccatura doversi arruolare ma alla fine sono orgoglioso di esserci stato, e mi è rimasto l'amore per il mare e le navi. Qui al massimo conoscevo il lago con il suo vento e le sue isolette, i suoi ghiacci e le sue tempeste, visto dalla barchetta a vela di zio Harry.

    – Bene, Nat, qui si tratta di passare dalle barchette al cacciatorpediniere – rispose Smith in vena di metafore. – Sai che abbiamo di fronte una macchina politica ben oliata come quella democratica, che conta sul supporto di intere comunità di immigrati, polacchi, ebrei, irlandesi, italiani e quant'altro. Ma sono attaccati da socialisti e marmaglia varia, anarchica e bolscevica – precisò quasi ripulendosi la bocca dal gusto delle parole. – E costoro gli portano via dei voti, abbastanza da darci chance concrete. Posso assicurarti che noi repubblicani disponiamo dei mezzi, se non degli argomenti, per smuovere le acque. Tu sei una figura non ancora caratterizzata, mi pare che le tue idee possano pescare fra gli indecisi. Con te spareremo un colpo che risuonerà in tutto l'Illinois. Se poi io dovessi riuscire un domani a rientrare a Washington, magari al Senato… Non mi scorderò di te.

    – Promesse di politico! – ghignò allegramente Compton. – Domani, domani, domani, se, se, se. Però quando ho avuto bisogno di contatti e, diciamo, qualche agevolazione, non mi hai lasciato a piedi, Frankie. Per questo accetto volentieri, anche se ancora non so quanto valgo come oratore. Non me ne vogliate se scriveranno su qualche foglio che un asino sa tenere comizi migliori!

    – Non dire scemenze, Nat. I giornali scriveranno quello che vorremo noi. È sempre stato così. Qui siamo dove tutto si tiene e trova senso. A Washington possono mettersi in posa e fare i galletti, ma è qui che si fa l'America, giorno dopo giorno. E poi abbiamo dalla nostra il governatore Small – aggiunse con una strizzata d'occhio.

    – Hai ragione Frankie. E sia – rispose Compton stringendo la mano del suo interlocutore. – Andiamo a combattere la nostra battaglia.

    7

    1° maggio 1923, Dortmund, Germania

    – Non ci resta altra scelta – ripeté Rudolf Diercks passeggiando nervoso avanti e indietro per la piccola stanza fumosa. Ripensava alla strada che l'aveva condotto fin qui, dalla smobilitazione al tempestoso periodo passato nei Freikorps tra fanatici, assassini per gusto e Junker boriosi, battendosi contro i comunisti e i polacchi; fino al consiglio ricevuto da un distinto colonnello dei servizi di sicurezza di iscriversi al partito socialdemocratico, il bastione del nuovo ordine repubblicano.

    Mai Diercks, i cui genitori pure politicamente si orientavano in quella direzione, si sarebbe aspettato di trovarvi rapidamente impiego e carriera, ma la sua retorica convincente e concreta, la sua giovanile energia e la sua devozione, o almeno così la vedevano, avevano fatto proseliti e gli avevano creato una certa posizione. Nella Ruhr e in Renania, il suo era un nome ormai affermato, in particolare fra i veterani di guerra e fra i militanti più giovani.

    – È un passo grave – riconobbe Gerhard Lieb a voce bassa. Anche il primo sostenitore, il più fedele, sempre in prima fila, si rendeva conto della situazione politica in tutta la sua serietà.

    – Me ne rendo ben conto – continuò Diercks – uscire dal Partito è un grosso azzardo, e se si vuole anche una sconfitta, ma a volte bisogna arretrare di un passo per poter avanzare di due. Non è questo il momento in cui possiamo disquisire in punta di teoria politica. Oggi come oggi ci sono solo due campi: chi è patriota, magari anche sbagliando nei modi e nei toni, e chi non lo è, magari anche per ragioni in apparenza nobili. La maggior parte del paese è e sempre sarà con i primi, e se la sinistra e il governo non lo capiscono, povera Germania.

    . – Insomma, dobbiamo dare rappresentanza a un sentimento – chiosò Lieb – prima che questo venga intercettato da forze reazionarie o estremiste, non ci si può permettere un altro putsch di Kapp o, Dio non voglia, manifestazioni di separatismo incoraggiate dall'occupante per i suoi porci interessi.

    Diercks si voltò e puntò il dito, abbandonando la pipa per un attimo.

    Ja. E non solo. Dobbiamo effettuare una scelta di campo netta che chiarisca ogni equivoco. Non possiamo tentennare e farci confondere con un governo percepito come debole e inetto: non mentre francesi e belgi occupano la Ruhr, la nostra Ruhr, umiliando e maltrattando i tedeschi per strappare loro una libbra di carne come l'ebreo Shylock.

    – Ah, gli ebrei! Se non ci fossero bisognerebbe inventarseli – sospirò Helmut Geerner da un angolo, la grossa mole abbandonata sulla spalliera di una sedia che quasi chiedeva pietà per lo sforzo.

    – Sempre il solito: sei sempre tu che racconti le barzellette migliori sugli ebrei – sghignazzò Diercks, rompendo per un attimo la tensione nella stanza piena di fumo.

    – Ma io amo gli ebrei! – protestò quasi indignato l’omone – senza di essi il mio fine senso dell'umorismo non potrebbe mai esercitarsi! A parte – aggiunse – che le migliori barzellette sul loro conto sono quelle che raccontano loro stessi.

    – E forse – aggiunse Lieb sardonico – se non fosse per loro non saresti neanche più fra noi, Geerner. A curarti quel brutto enfisema non fu il professor Rosenthal, quel vecchio bacucco dal naso adunco laureato in una sinagoga?

    Ach! Non farmici pensare: mi manca ancora il fiato – lamentò il corpulento Genosse.

    – Bene – commentò Diercks riannodando il filo del discorso, rivolto alla piccola platea di vecchi amici, nuovi seguaci ed ex camerati – resta ora la questione più importante, il nome da dare alla nostra nuova formazione, il nome che annunceremo nelle sedi opportune, nei comizi pubblici, sui manifesti, il nome che ci accompagnerà nelle campagne elettorali e nelle aspre lotte che ci attendono: non più come corrente ma come partito, anzi come movimento, perché non a una semplice separazione corrispondiamo, ma a qualcosa di vivo.

    Fece una pausa a effetto e si guardò intorno, studiando le espressioni dei compagni: erano attente e concentrate.

    – Andremo a un congresso – riprese – annunceremo un programma, chiariremo ciò che ci distingue da ogni altra formazione politica. Io ho pensato a un nome breve, asciutto, semplice, che si possa pronunciare senza bisogno di ricorrere per forza a una sigla: SozialFront. Che ne dite?

    – Che manca Deutsche davanti – fece dopo un attimo di silenzio Hans Clemens, che per età non aveva potuto combattere nella grande Guerra, ma non era stato troppo giovane per soffrire la fame e per veder morire sua nonna di malnutrizione a causa del blocco britannico e sua sorella di polmonite durante il flagello dell'influenza spagnola.

    – Il nostro patriottismo dovrebbe essere evidente a tutti… ma sì, lo davo per scontato, quindi… giusta osservazione – rispose Diercks. – Dunque tedesco, senza dubbio; sociale, perché non abdichiamo certo, come fanno le forze della reazione, alla necessità di costruire una società basata sulla partecipazione delle masse da cui tutti noi qui presenti proveniamo, figli di operai, artigiani, contadini o bottegai che si sia; ma soprattutto fronte, perché il cameratismo che ci ha uniti nelle trincee non è perduto, e il sangue versato dai compagni caduti sia il seme della rinascita di una Germania unita, potente, rispettata!

    Accompagnò le ultime tre parole con altrettanti pugni sul tavolo.

    – Bravo! – Lieb si alzò in piedi, seguito dagli altri, e partì l'applauso.

    – Viva il SozialFront! Viva la Germania e il popolo tedesco!

    8

    27 gennaio 1924, Mosca

    – Il freddo che avvertiamo oggi, compagni, è più del morso dell'inverno: è il gelo nei nostri cuori.

    Mikhail Kalinin si avvicinò al microfono. Parlare di fronte a una simile folla lo metteva a disagio, ma era un momento importante. Solenne. Si era deciso in Politburo che spettasse a lui, in quel momento segretario generale del Partito, tenere il più rilevante fra i molti discorsi di quel giorno di lutto nazionale.

    Tanto più che il compagno Trotskij, convalescente nel Caucaso al momento del decesso, non era potuto rientrare in tempo per le esequie del compianto Lenin. Non era un grande oratore, Kalinin, e ne era ben consapevole, ma aveva potuto avvalersi della collaborazione di un brillante giovane in ascesa, Bukharin, il direttore della Pravda, con cui aveva concordato il testo.

    – Abbiamo perduto più della guida della Rivoluzione. Abbiamo perduto un padre, il padre di tutti noi bolscevichi, e ora siamo orfani – disse. – Non ripeterò quanto già detto da chi prima di me si è soffermato sul dolore che questa perdita prematura ci causa. Dirò del danno che per il governo degli operai e dei contadini costituisce la dipartita del compagno Lenin. È vero che un uomo solo non costituisce l'interezza di un movimento, noi bolscevichi non lo crediamo. Ma è vero anche che il ruolo della personalità nella storia non si può sottovalutare. E la personalità del compagno Lenin, credetemi, era eccezionale: lo dico anche rivolgendomi ai nostri giovani militanti, a quanti sono qui a udirmi o leggeranno questo intervento sui quotidiani e non hanno mai avuto modo di conoscerlo in persona.

    Prese fiato, e continuò:

    – Un uomo di ferro, come nessun altro dedito alla causa di una rivoluzione radicale, di un tentativo mai prima fatto nel mondo di cambiare la società umana, di abolire gli strumenti dell'oppressione dell'uomo sull'uomo, il feudalesimo e il capitalismo. La ricerca di una nuova via al progresso, al benessere, all'eguaglianza e alla giustizia. Sì, compagni – proseguì aggiustandosi il leggìo – nientemeno che questa è la posta in gioco di tutti questi anni di dure lotte e sofferenze. Se perdiamo di vista questo, perdiamo di vista tutto. Il mondo ci è largamente ostile, ancora dominato dalle minoranze, dai privilegiati, dagli oppressori delle masse che in ogni epoca si sono erti a ostacolare la marcia del progresso civile e morale. Eppure, guardatevi intorno; fra di noi ci sono molti che vengono da lontano, in testa le delegazioni che da tutto il pianeta sono venute e a rendere omaggio al grande Lenin, e che qui saluto calorosamente. Esse testimoniano le speranze di chi guarda a noi con interesse e partecipazione; esse sono portatrici di un vento nuovo, quello del comunismo, che spirerà su tutta la Terra, sconvolgerà le nazioni, e preparerà la fossa ai nemici del popolo vecchi e nuovi –.

    Kalinin si tormentò il pizzetto e si schiarì la voce. Sarebbe stato un discorso non breve, pensò girando i fogli pieni di appunti, ma voleva dire le cose salienti nei primi minuti, finché l'attenzione era alta.

    – Noi non arretriamo di fronte a parole ed atti forti, non ci nascondiamo dietro formulazioni ipocrite. Sì, compagni, non si danno cambiamenti senza martiri e vittime. Il terrore ha accompagnato la nostra rivoluzione: il terrore bianco l'ha combattuta con la complicità delle potenze imperialiste, il terrore rosso della Ceka, degli organi del Partito e dell'Armata Rossa degli operai e dei contadini l'ha preservata e salvata. Il terrore per i nemici, certo, questo ci ha lasciato Lenin come ammonimento; ma la costruzione di uno stato dei lavoratori non può essere basata solo su questo. Ci ridurremmo a una riedizione della tirannia zarista e della sua bieca violenza sulle masse, oltre a fornire alibi alla reazione in tutto il mondo. Il comunismo è ben altro! Potere ai soviet ed elettrificazione, come ben disse il compagno che qui celebriamo con la nostra presenza; educazione del popolo, perché nessuno resti indietro, perché coloro che ancora oggi sono analfabeti vedano la luce dell'istruzione; perché possano informarsi, studiare, progredire nella cultura, nella scienza e nella tecnica, e farsi da servi dei nobili e dei possidenti uomini liberi, portatori ognuno di una sua personale rivoluzione, tanti io nel grande noi del comunismo. Senza questo grande movimento, senza questo entusiasmo che il compagno Lenin ci lascia in eredità, cosa saremmo mai? Dei sepolcri imbiancati, o dei parolai. Mai lo saremo! – tuonò Kalinin. – Lasciamo questo ruolo a certe figure ambigue e infingarde di riformisti o moderati che ben conosciamo, che abbiamo confutato, combattuto e sconfitto.

    Scrosciarono applausi, e Kalinin finalmente si concesse una pausa. Poi riprese:

    – Ora ci attendono sfide grandiose. Inutile che vi sottolinei come il paese sia uscito in condizioni drammatiche dalla guerra imperialista dello zar prima e dalla guerra rivoluzionaria poi contro la reazione e i suoi manutengoli interni ed esteri. La Nuova Politica Economica del compagno Lenin, che in molti all'interno del partito criticano, non lo nascondo, come cedimento alla borghesia, non è che la logica risposta alle terribili difficoltà e alle sofferenze del popolo nei nostri anni più duri. È ben vero che il ricorso al comunismo di guerra ci ha dato la vittoria, ma esso ha anche scavato un solco tra i vertici e la base, fra le città e la campagna. Un solco molto pericoloso – avvertì Kalinin con le parole di Bukharin, andando a toccare tasti delicati. – Le insurrezioni che abbiamo affrontato e schiacciato ne sono state la logica conseguenza, ma costituiscono un ammonimento.

    Kalinin pensò che sulla Pravda questo passaggio sarebbe stato omesso: certo sarebbe stato opportuno.

    – Ora la vita è tornata a scorrere nelle vene del paese: ma siamo ancora indeboliti. Quasi tutto è da costruire o ricostruire, e nulla appare per magia. Non le preghiere dei preti, ma il lavoro e la pianificazione ci porteranno avanti. Occorrono un'industria forte che ci dia le risorse per entrare appieno nel secolo del progresso, un'agricoltura moderna e produttiva che ci liberi per sempre dalla minaccia della carestia, un esercito rosso invincibile per mezzi e per numeri che sia avanguardia mondiale del comunismo, scudo e spada della Rivoluzione d'Ottobre. E questo non è che l'inizio, compagni! Dovremo poi riorganizzare gli incarichi all'interno del nostro partito, che è in piena crisi di espansione, e del primo stato socialista che l'umanità abbia conosciuto, l'Unione delle Repubbliche Socialiste dei Soviet. Solo se sapremo gestire questi compiti necessari e difficili ci proveremo all'altezza della fiducia che i lavoratori ci hanno tributato difendendo la causa rivoluzionaria!

    Gli applausi non furono stavolta così unanimi come ci si poteva attendere, ma Kalinin non se ne preoccupò. C'era molto da dire, e fra bolscevichi, pensò, bisogna essere franchi. Sarebbe stata necessaria una lunga fase di confronto su alcune questioni cruciali, e per tutto il potere accumulato dallo stato dei Soviet, non era affatto detto che si sarebbero sempre potute prendere decisioni nette e definitive. Per conto suo, egli non era certo roso dall'ambizione, e sperava che nessuno volesse assumere posizioni di potere troppo evidenti. Per questo si sarebbe adoperato, con misura e buonsenso, due virtù che nei sei anni trascorsi dalla Rivoluzione d'Ottobre non erano state molto praticate.

    9

    14 Novembre 1928, Chicago

    Dalla prima pagina del Chicago Tribune

    Con Compton le mani dei Democratici si allungano sull'Illinois

    La vittoria del discusso ex repubblicano apre un nuovo capitolo nella storia del nostro Stato: noi vigileremo in nome dei cittadini onesti, come sempre abbiamo fatto.

    L'editoriale del Direttore.

    È infine accaduto: i Democratici hanno messo piede al Campidoglio di Springfield con l'elezione a Governatore di Nathan W. Compton.

    Secondo molti era inevitabile, dopo le tristi vicende dell'amministrazione Small, partita fra tante promesse e affondata fra gli scandali. Noi da buoni Repubblicani (non ci nascondiamo dietro un dito, o dietro supposte imparzialità) non possiamo che dolercene. Va detto per chiarezza che, più che un qualche merito democratico, in questa campagna elettorale vi sono state colpe gravissime da parte repubblicana.

    Atti di violenza senza precedenti si sono susseguiti nella metropoli di Chicago mentre infuriavano – è il caso di dirlo – le primarie: dai delitti Esposito e Granady alla bomba esplosa di fronte alla casa dello stesso senatore Deneen, non ci siamo fatti mancare nulla. È dunque il caso di sorprendersi se Compton, dato sei mesi fa per sicuro perdente, fra l'ostilità repubblicana per aver cambiato cavallo e il sospetto della base democratica, sia ora governatore invece dello sconfitto Emmerson?

    Possiamo solo lamentare le prospettive di uno Stato ora in mano a cattolici, irlandesi, sindacalisti, ebrei, socialisti e gangster. L'unica luce di speranza viene dal fatto che Compton, in quanto ex repubblicano, non appartiene certo alle frange più estreme del fronte democratico: e si mormora che anche molti elettori repubblicani, di quelli stessi che già lo avevano eletto anni fa rappresentante di questo Stato, lo abbiano votato, convinti dalla sua retorica e disgustati da scandali e violenze all'interno del proprio partito, quello che fu di Abe Lincoln.

    Avremo ancora a Springfield un'amministrazione amica dei produttori, degli uomini d'affari, dei gentiluomini che ancora fanno di questa terra l'avanguardia degli Stati Uniti d'America? È presto per dirlo. Certo è che Compton non appare sgradito a queste categorie quanto dovrebbe esserlo un democratico di questi tempi inquieti. L'uomo è certamente astuto, ha pochi scrupoli, come dimostra il suo stesso passaggio da repubblicano a democratico, che per primi anticipammo su queste pagine causando una bufera politica, e mostra una rara capacità di dire a tutti quello che vogliono sentirsi dire: il segno di un politico di razza.

    Noi per parte nostra abbiamo cercato di avvertire tutti contro la sua seduzione: non per ostilità personale, che non abbiamo, e qui lo ribadiamo un'ennesima volta, ma per un onesto timore di un cambiamento di così vasta portata potenziale. Non saremmo dei conservatori convinti e conseguenti, e meno che mai dei buoni patrioti americani, se non avvertissimo i nostri lettori del rischio insito nell'affidare l'Illinois alla macchina politica del Partito Democratico, tanto più in circostanze così ambigue ed oscure.

    Non ci resta che rassegnarci a soffrire l'indegnità di vedere nel Campidoglio del nostro Stato figure di cui faremmo volentieri a meno, e prepararci a subire l'influenza di gruppi e ambienti, spesso stranieri o nemici della civile convivenza, che abbiamo sempre osteggiato. Questo scenario ci riempie di amarezza, dobbiamo dirlo. Accanto ai demeriti di un Grand Old Party che può solo fare mea culpa battendosi il petto e flagellandosi in processione come un papista qualsiasi, e attendere il lavacro purificatore di una traversata del deserto all'opposizione, vanno riconosciuti alcuni meriti al vincitore, all'eletto dal popolo.

    Compton ha anche parlato bene, ha saputo rassicurare ambienti che in altri tempi avevano votato repubblicano e che hanno deciso in suo favore il voto: ma sappia che lo teniamo d'occhio, e non faremo sconti. Noi vigileremo. Non è questa la fine del mondo, e l'accesso alla Casa Bianca di una figura di peso come Herbert Hoover ci dà fiducia; per questo paese c'è ancora e sempre speranza in un futuro nel segno della prosperità, dell'indipendenza e della fierezza nazionale.

    il Direttore

    col. Robert M. McCormick

    10

    7 Novembre 1929, Mosca

    L'annuale sfilata sulla piazza Rossa per l'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre aveva messo di buonumore il Comitato centrale del Partito Comunista dell'URSS. Tra le file di soldati in marcia e i cavalleggeri dalla sciabola sguainata si erano visti sfilare i primi soddisfacenti tank di produzione nazionale, seppur ricavati dall'attento esame di modelli stranieri.

    Il potere sovietico era saldo dai confini della Polonia a quelli della Manciuria. Proprio di quest'ultima si sarebbe dovuto parlare nella riunione che era stata discretamente convocata al Cremlino: la guerra recentemente vinta contro l'esercito nazionalista cinese del Giovane Maresciallo costituiva un gradito diversivo rispetto alle interminabili e aspre discussioni su ritardi e fallimenti nella collettivizzazione dell'agricoltura o sulla desiderabilità di salvaguardare i risultati della Nuova Politica Economica leniniana, il tutto pur senza dimenticare di sviluppare l'industria ed elettrificare l'immenso paese.

    Lo stesso Trotskij quando si parlava di questioni militari riacquisiva improvvisamente tutto il suo prestigio e la sua autorità quale erede naturale del grande e compianto Lenin. La sua posizione da qualche anno in qua si era progressivamente indebolita: a minarne certezze e posizione le rinnovate ribellioni contadine, spesso a sfondo religioso, represse con ferocia, le occasionali carestie locali, il caos in cui era proceduta dal 1925 la collettivizzazione dell'agricoltura, dapprima con le Aziende di Stato, in seguito frettolosamente riconvertite a Cooperative con un ben maggiore ruolo per l'attività privata dei contadini. Per tacere del quadro politico internazionale, quanto mai fosco.

    Tanto meglio dunque trovarsi a parlare di un limpido successo militare. I cinesi, sempre divisi in cricche di ufficiali aspramente ostili tra loro, avevano cercato di rimangiarsi l'accordo del 1924 sulla gestione congiunta della ferrovia della Manciuria, cruciale per i collegamenti con la remota ma strategica Vladivostok. La guerra manciuriana era stata breve e vittoriosa: in pochi mesi le forze del Giovane Maresciallo le avevano buscate sode dai reparti dell'Armata Rossa, meglio condotti ed equipaggiati.

    La relazione del commissario del popolo agli Esteri, il compagno Čičerin, diplomatico ereditario (di famiglia nobile, suo padre aveva servito gli zar, cosa che non gli impediva di essere un buon bolscevico), fu completa e informativa, solo resa più lunga dalle pause che la malattia gli imponeva di tanto in tanto. Negli ultimi anni, a dirla tutta, aveva passato più tempo in sanatorio fra Germania e Costa Azzurra che in patria. La Cina non era la sua specialità, ma non omise nulla nel delineare gli sviluppi dei mutevoli rapporti fra l'URSS e il partito nazionalista cinese, il Kuomintang, al potere, fragilmente, in quel di Nanchino. Tali rapporti erano ormai, chiarì, profondamente compromessi per tutta una serie di ragioni.

    – Sotto il compianto Sun Yat-sen, il KMT è stato forza progressiva di popolo per il riscatto della Cina dal feudalesimo così come dall'imperialismo straniero – ricordò Čičerin ai convenuti. – Ma quando anche in quel grande paese ha cominciato a soffiare il vento della Rivoluzione e si è formato un partito comunista, il KMT è caduto preda di cricche militari, e in particolare nelle mani avide di potere di Chiang Kai-shek. Con costui abbiamo intessuto a lungo relazioni ambigue, supportandolo nella lotta contro i signori della guerra del Nord, rifornendolo occasionalmente di armi di cui avremmo avuto forse più bisogno noi per guardarci da vicini assai ostili e ben armati quali la Polonia…

    Prese una pausa e continuò: – Due anni fa questo aspirante imperatore senza corona ha gettato la maschera facendo massacrare i nostri fratelli comunisti a Shanghai e a Canton, con l'entusiastica approvazione dei nostri fuoriusciti bianchi e delle potenze imperialiste. I tentativi insurrezionali sono falliti sanguinosamente e hanno danneggiato non poco la nostra causa a livello di relazioni internazionali, dove come ben sapete restiamo per ovvie ragioni quasi del tutto isolati – i suoi occhi si posarono per un attimo su Trotskij, che sbuffava e storceva la bocca frustrato. – Data la situazione era dunque inevitabile che si arrivasse ad uno scontro. E quando il signore della guerra erede della Manciuria, il giovane Chang Tsue-Liang, ha cercato di espellerci dalla gestione della ferrovia manciuriana, in combutta con gli emigrati russi bianchi di Harbin e con quegli stessi giapponesi che pure gli avevano assassinato il padre – proseguì con una nota di disgusto nella voce – non ci è restato che rispondere alla forza con la forza.

    La voce di Čičerin salì di un tono.

    – Il compagno Trotskij – e fece un cenno, questa volta benevolo – ci ha ben illustrato le qualità mostrate dall'Armata Rossa degli operai e dei contadini in questa lotta. Ho sentito alcuni leggerla come una rivincita per la guerra del 1905. Siamo seri: non lo è e non dobbiamo ragionare in questi termini. Lo zarismo con le sue guerre imperialistiche era una cosa, l'URSS tutt'altra. La geopolitica quella rimane, i confini quelli sono, ma è il cuore dello Stato che è cambiato, tant'è che siamo a Mosca e non a Piter – disse usando il nome popolare della recentemente ribattezzata Leningrado.

    Qualche sorriso e alcune risatine accolsero la battuta.

    – Con il governo del Kuomintang – riprese Čičerin – avremo a che fare ancora per parecchio, temo. Il compagno Ch'en Tu-hsiu è ancora esule qui a Mosca, ma quel che è peggio si è creata una spaccatura nel Partito Comunista Cinese, ora di fatto capitanato da una diarchia fra i compagni Li Lisan, che guida l'organizzazione clandestina del partito, e Mao Tse-Tung, che comanda l'Armata Rossa cinese, poche migliaia di uomini concentrati attualmente nella regione del Kiangsi, nel sudest del paese, dove sono assediati dalle forze di Chiang Kai-Shek. Capirete – soggiunse – che la nostra politica deve essere equilibrata. Da un lato – e fece nuovamente un cenno a Trotskij – non possiamo né vogliamo abbandonare i nostri compagni di lotta comunisti, dall'altro dobbiamo affrontare la realtà di una Cina nelle mani di un governo che ci è in sostanza ostile, e che non ha nemmeno il pieno controllo del paese.

    Sì, pensò Čičerin, sarebbe stato un bel grattacapo, e ancora per un pezzo. Del resto l'URSS con la sua pretesa di esportare la rivoluzione in nome del proletariato mondiale si era fatta nemici quasi ovunque. E al momento, oltre alla Mongolia e a Tuva, stati fratelli, l'unico dei suoi vicini che poteva definirsi ragionevolmente amico era… l'Afghanistan di re Amanullah, piuttosto conciliante a parte qualche sporadico problema di confine legato al banditismo tribale. Almeno la fornitura di tappeti, giacche di montone e albicocche secche era garantita…

    La riunione proseguì ancora a lungo. Si discusse, non senza recriminazioni e critiche verso Trotskij, ormai parafulmine degli errori in politica interna come estera, il quale ribatteva punto su punto con ardore ai colleghi del Comitato centrale, e in particolare a quelli del Politburo, l'ufficio ristretto che di fatto comandava il PCUS e orientava l'azione di governo. La corrente detta di destra del partito, alla faccia del divieto leniniano ai frazionismi, era ormai maggioritaria; si decise comunque collettivamente che ogni ambiguità nei rapporti con la Cina nazionalista andava eliminata. Se supporto doveva esservi per i cinesi, doveva andare ai compagni comunisti. Il problema sarebbe stato come farlo arrivare… e come evitare che venisse usato per lotte interne di potere invece che per la causa.

    11

    14 maggio, 1930, Wiesbaden, Germania

    – E così, dopo averci ricoperti di secchiate di merda per anni, ora venite a dirci che vi servono i nostri veterani – Rudolf Diercks guardò fisso negli occhi il suo interlocutore, il maggior generale Kurt von Hammerstein-Equord, il nuovo comandante de facto della Reichswehr, l'embrione di esercito che i vincitori della Grande Guerra si erano degnati di concedere alla Germania sconfitta.

    – Stiamo lavorando per salvare la patria dal caos – ribatté freddamente l'ufficiale. – Ho approntato un piano per triplicare le forze dell'esercito, Versailles o non Versailles. Il rischio c'è ma di fronte alla situazione i francesi e i belgi dovranno capire. Contiamo sulla Gran Bretagna e sugli Stati Uniti perché tengano ben salde le briglie a Parigi. Mi preoccupa di più l'atteggiamento dei cecoslovacchi, ma la Polonia a sua volta li dovrebbe trattenere. Il maresciallo Piłsudski guarda con favore a uno stroncamento dell'influenza comunista in Germania, anche se ciò dovesse comportare il ristabilimento di un esercito vero e proprio.

    Diercks sbuffò. – L'esercito, appunto – replicò. – Alla fine è tutto quello che vi interessa. Voi Junker combatterete per quello, noi per la Germania – disse. – Come siamo messi, poi, dover dipendere dal parere di polacchi coi baffoni e lord londinesi con bastone e bombetta… E va bene: alla fine remiamo nella stessa direzione, ossia contro i comunisti e i loro compagni di strada, e al diavolo quello che pensano all'estero. Al diavolo Mosca e i suoi bolscevichi, al diavolo i polacchi e i cechi, al diavolo gli anglo-francesi e, sì, pure i belgi.

    Diercks era di lontane origini fiamminghe ma non ci badava granchè: il nonno prima di morire gli aveva insegnato un po' di parole in quella lingua, affine al dialetto delle sue parti. – La Reichsbanner Schwarz-Rot-Gold è dalla nostra con i suoi camerati; almeno la gran parte, credo. Saprà forse che Hörsing ha lasciato la SPD e si è unito a noi del SozialFront proprio in questi giorni.

    – Meglio così. Il governo è nel caos più totale dopo i fatti del Primo Maggio – lamentò von Hammerstein-Equord ricordando come imponenti manifestazioni a ricordo di una strage di manifestanti filocomunisti dell’anno prima fossero state il sintomo, sottovalutato, di un nuovo putsch rosso. – Il cancelliere Brüning è giusto capace di fare i conti come un ragioniere, ma ha il carisma di un uovo sodo. L'unico membro del governo che sta lavorando a dovere è Schleicher – aggiunse. Il ministro della difesa, e collega nell'esercito, era un suo amico.

    Sospirando, Diercks concesse che le osservazioni del generale erano corrette. Dopo l'apparente tregua di alcuni anni in seguito agli aiuti e ai finanziamenti americani, con il crollo di Wall Street nelle ultime settimane la situazione politica, già tesa di suo nella repubblica tedesca, era andata degenerando rapidamente col montare di una crisi economica senza precedenti. Milioni di persone erano allo sbando, senza impiego né reddito, in preda alla disperazione e pronte a unirsi a chi desse un senso qualunque alle loro esistenze. La SPD, che Diercks aveva lasciato anni prima rosicchiandole via via fette di consenso minoritarie ma importanti, stava andando in pezzi. Per le strade fazioni armate alla bell'e meglio si combattevano. A partire dal Primo Maggio i paramilitari comunisti e altre formazioni associate, alcune originariamente perfino provenienti da ambienti nazionalisti, avevano fatto causa comune e lo Zweiter Blutmai era diventato una guerra civile.

    Risultato: interi quartieri delle più importanti città industriali del paese erano caduti in preda alla rivoluzione. Una rivoluzione la cui leadership, formalmente nelle mani del presidente del Partito Comunista Tedesco, Arthur Ewert, appariva tutt'altro che salda e monolitica, alla faccia dei principi leninisti: ma in Germania, dai tempi non sospetti del Sacro Romano Impero, nulla era mai semplice e lineare. Intanto pezzi importanti della SPD e dei sindacati si erano uniti ai rivoltosi e stavano assumendo il controllo di intere province. Il sospetto, o per meglio dire la certezza, di esercito, borghesia e filofascisti vari, era che agenti sovietici soffiassero sul fuoco della sovversione di sinistra, ora come in passato. L’ambasciata sovietica era famigerata.

    – Hindenburg scioglierà il parlamento? – chiese Diercks. Che lui, un membro di quel consesso, dovesse chiederlo al comandante di fatto dell'esercito, la diceva tutta.

    – Forse oggi stesso, al massimo entro due o tre giorni – assicurò von Hammerstein-Equord. – Io posso essere pigro e procrastinatore per natura, ma il vecchio maresciallo è di un'altra pasta: quel che è necessario fa, e nei tempi giusti. Come a Tannenberg – aggiunse speranzoso.

    Gut – commentò Diercks, anche se lo scioglimento del parlamento gli faceva torcere le budella. Da quasi sei anni vi sedeva, tuonando contro destra e sinistra estreme, e aveva preso gusto al confronto politico, anche aspro, come un'alternativa preferibile allo scannamento per bande. Ormai però si trattava di guerra civile, e il suo SozialFront c'era dentro fino al collo, con tutti quelli che poteva aggregare a difesa dello Stato tedesco.

    – Penso di poter avere a disposizione almeno cinquantamila veterani della Reichsbanner, e forse altrettanti volontari dal nostro partito. Si tratterà di armarli. Ho notizie certe che in varie città nostri uomini sono stati assassinati dai comunisti. Le situazioni più gravi sono nella Ruhr, ad Amburgo e in Sassonia. Poi c'è il Württemberg… Quel rinnegato di Schumacher ha unito le forze locali del governo socialdemocratico a quelle dei rossi – sibilò furioso.

    – Anche a Berlino

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