L'ultima storia
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Anteprima del libro
L'ultima storia - Elena Francesca Gallone
I
… .basta nasconderla e la più banale delle cose diventa deliziosa…
[Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Grey]
So poco del loro primo incontro. Ho spesso cercato di ricordare quella prima volta che Rita me ne ha parlato - Rita è mia madre - ma mi sono sempre venuti in mente solo i fatti, cioè ben poca cosa. Mi sono persa il taglio della sua prospettiva, le emozioni, le incertezze tra le parole.
Lei si era sempre mostrata così trasparente, così aperta… Non avrei mai immaginato che potesse nascondere con tanta cura l’evento più importante di tutta la sua vita. Quello che è successo poi è stato un tale vortice che soltanto adesso ho coscienza del vero sentimento che ha costituito per me il sostrato latente e indefinibile di tutta questa storia: la sorpresa.
Se ripenso a quella sera non riesco nemmeno a collocarla in un punto preciso del mio orizzonte temporale, già normalmente vago per conto suo. Non mi ricordo non dico il giorno o il mese, ma nemmeno la stagione. So solo che quando me ne ha parlato per la prima volta eravamo in cucina.
Rita da ragazzina trascorreva le vacanze e tutto il tempo libero a casa della nonna materna, in un piccolo borgo rurale sul lago. La sera accanto al camino, com’era d’abitudine nelle campagne, le donne si riunivano a raccontarsi le loro cose. Anche noi, allo stesso modo, ci dedichiamo ad un’epica casalinga: dopo cena mia madre racconta. Storie di noi da piccoli, storie della sua infanzia, storie, insomma.
Non mi sono mai chiesta se sono vere o false, si riferiscono a un mondo così diverso e lontano che, prima di questa ultima, non mi aveva mai nemmeno sfiorata l’idea di collocarle nel reale. Per me erano nate e vivevano nell’immaginario.
Il paese in cui si sono svolte a dire il vero esiste ancora, ed è a non più di un centinaio di chilometri da dove viviamo, un agglomerato di case grazioso ma anonimo, ancora circondato da campi e da boschi. Io tuttavia a questo borgo, alla sua vita e ai suoi abitanti non mi ero mai sforzata di dare un giudizio o una vera fisionomia. Ascoltavo come si ascolta una favola o un film, lasciavo che le vicende e le immagini si dipanassero attorno a me nella loro nebbia, e che, come la nebbia, si dissolvessero quando decidevamo che era ora di andare a dormire.
Fino a quella sera almeno. Fino a quando è comparso Franco che come una specie di cosmonauta transeunte, ha varcato una qualche porta e si è materializzato nel presente e nel reale.
Per quel poco che riesco a ricordare è andata così.
Seduta in cucina, sto sorseggiando con cautela la mia tisana alla menta, ancora bollente. Rita sta lavando i piatti. Ha deciso che la lavastoviglie è più d’impiccio che d’aiuto: secondo la sua teoria ci vuole più tempo per caricarla e scaricarla, mettere il sale, pulire il filtro, che per lavare i piatti a mano; così l’ha relegata in cantina. Io ho espresso tutto il mio dissenso, ma non sono stata minimamente considerata. Da allora continuo a manifestare la mia opposizione in forma democratica e non violenta, ben guardandomi dall’aiutarla e anzi ostentando il mio stare lì seduta a guardarla lavorare. Sono quasi sicura che se ne sia pentita, ma non lo ammetterà mai, anzi, sta raggiungendo tempi da guinness dei primati pur di non darmela vinta!
Cosa ci ho messo? Sei minuti …
mi dice, dopo un’ occhiata rapida all’orologio si, sei minuti, erano le nove zero due ora sono le nove zero otto. Giusto?
Si toglie i guanti, si scosta un ciuffo dalla fronte e mi guarda con una cert’aria di superiorità. Io ostento indifferenza. Rita prende il silenzio come una ritirata e abbozza un sorrisino.
A questo punto voglio solo il mio racconto. La separazione dei miei è storia recente e questo clima serale disteso è una novità deliziosa. Non abbiamo mai cenato tutti insieme perché mio padre è sempre rientrato tardi, giusto in tempo per regalarci, due giorni su tre, un’accorata scenata serale come ninnananna. L’aria, che io ricordi, dalle nove in poi è sempre stata irrespirabile. Per noi era un fatto naturale e ineluttabile, come l’ansia degli erbivori al tramonto, quando la tranquillità finisce e bisogna stare all’erta perché i predatori si mettono in caccia. La piena coscienza del peso di quella situazione è arrivata solo ora, con la consapevolezza del cambiamento. Dopo aver passato pressoché tutte le sere mia vita a quel modo, questa atmosfera mi sembra un regalo e non riesco a sopprimere un’ombra di inquietudine, come se all’improvviso gli eventi potessero fare marcia indietro.
Dai, raccontami qualcosa!
le chiedo con entusiasmo.
Rita accantona la nostra scaramuccia ideologica e si mostra condiscendente:
Ma si. Voglio farti vedere una foto! Aspetta che vado a prenderla.
Si toglie il grembiule e sparisce nel buio del corridoio, camminando svelta sulle ciabattine con il tacco, la gonna lunga di tessuto scozzese che ondeggia di qua e di là.
In camera sua ha due grandi album e una scatola piena di fotografie della Campagna. Spesso fa rapidi guizzi per recuperarne una o un’altra, poi torna con l’aria più sicura: ha le prove che quello di cui narra è esistito. Si comporta come se le portasse a me, ma in realtà le porta a se stessa. Per me sono solo storie a cui non appartengo, per lei sono l’Eden perduto, rappresentano l’infanzia, gli affetti, la libertà, il tempo delle promesse. La sua vita da adulta, dopo la campagna, dopo il matrimonio, non è stata facile.
Pochi istanti e torna, si siede di fronte a me e mi mostra una di quelle vecchie foto in bianco e nero, grandi come francobolli, con le persone rigidamente in posa che annegano nel paesaggio.
Non ho una grande capacità di osservazione, è un mio problema, non registro i dettagli neanche nelle immagini a colori, figuriamoci in quelle in bianco e nero. E così gli Enrico e i Giuseppe, le Caterina e le Pina di queste immagini assumono tutti nella mia mente le stesse forme indistinte da ectoplasmi.
Osservo l’immagine e fingo un esame approfondito, in realtà vedo ben poco: un ectoplasma femmina e un ectoplasma maschio, lei più giovane di lui. Alzo gli occhi ma Rita non comincia a raccontare, continua invece a sorridere in modo strano e increspato e mi chiede:
Cosa vedi?
Io ho poca pazienza e non voglio vedere proprio niente, voglio la mia storia. Ho sempre addosso quell’impalpabile senso di oppressione serale, mi sembra sempre di non avere tempo. Ma guardo l’orologio e sono solo le nove e un quarto: mi costringo a rilassarmi, a realizzare che mio padre stasera non arriverà qui, né domani né le prossime sere. Osservo quindi l’immagine con tutta l’attenzione possibile.
Vedo….una bambina bruna …ricciuta…. e vicino un ragazzo alto … biondo…
dico, e continuo con foga ansiosa e fredda, come se dovessi fornire elementi per un identikit:
… la ragazzina indossa una camicetta bianca e una gonna scura… lunga sino al ginocchio, scarpe basse e calze corte…. di cotone
Il ‘di cotone’ mi viene così, dallo slancio del momento: come si fa a capire dalla foto che sono di cotone?
Rita tace. Io mi sforzo di continuare.
… .il ragazzo ha una camicia e dei pantaloni chiari.
A questo punto ho esaurito le risorse e spero che basti per farle cominciare la storia. Alzo gli occhi in senso interrogativo.
Non te ne ho mai parlato, è il grande amore della mia vita
.
Poche parole, pronunciate lentamente, buttate lì così. Rimango sorpresa, non tanto per il fatto in sé, ma proprio per la circostanza – del tutto estemporanea – che ha scelto per dirmelo. La rivelazione non mi coglie del tutto impreparata: tra lei e mio padre ci sono state tante cose, incomprensione, insofferenza, astio, distanza, talvolta persino sfuggenti barlumi di affetto, ma amore no di certo, io almeno non ne ho mai vista traccia. Quindi mi è sempre sembrato probabile che in qualche punto della loro vita sia lui che lei avessero amato qualcun’altra e qualcun altro. Almeno una volta ci innamoriamo tutti, credo. Ma perché mia madre me ne parla proprio adesso?
Inizio a farle domande che la stranezza della situazione fa suonare simili a un interrogatorio.
Sei tu con lui nella foto?
le chiedo.
Si
Cos’avevi, dodici anni?
No, quattordici, allora non si cresceva in fretta come oggi
.
Eravate già innamorati?
Innamorati, oddio …
indugia, è perplessa, forse le sembra ancora una parola forte, o forse non riesce ancora a sentirsela addosso. Ma l’esitazione dura solo un attimo:
Si, si. Eravamo già innamorati
.
Continuo a guardare