Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento
La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento
La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento
E-book483 pagine6 ore

La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

  Fondazione Tovini di Brescia   Il volume solleva la pietra tombale che da oltre un secolo ha sigillato la cultura pedagogica tardo ottocentesca dei cattolici e si propone di verificare, senza pregiudiziali intenti agiografici o riabilitativi, se davvero l’apporto degli eredi della tradizione spiritualistica risorgimentale sia stato poco rilevante come è stato fin qui ritenuto. A tal fine sono state esaminate le opere di alcuni dei maggiori esponenti, i legami con la tradizione precedente e successiva, le connessioni con la riflessione straniera e il più vasto scenario del dibattito italiano. In particolare è stata esplorata la produzione e la proposta pedagogica degli studiosi attivi durante l’età del Positivismo: Giuseppe Allievo, Francesco Paoli, Carlo Uttini, Augusto Conti e Augusto Alfani, nonché l’influenza esercitata in Italia da autori francesi come Félix Dupanloup, Jean Guibert e Martin Stanislao Gillet. Il saggio è concluso da un sondaggio sul filone della pubblicistica cosiddetta “minore”, ovvero su alcuni “plutarchi” tradotti dal francese per le giovani italiane.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2017
ISBN9788838246227
La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento

Leggi altro di Andrea Marrone

Correlato a La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento

Ebook correlati

Cristianesimo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento - Andrea Marrone

    ANDREA MARRONE

    LA PEDAGOGIA CATTOLICA NEL SECONDO OTTOCENTO

    L’opera è pubblicata grazie ad una

    delle Borse editoriali messe a disposizione

    per il 2016 dalla Fondazione Tovini di Brescia

    per valorizzare studi e ricerche scientifiche

    sulla presenza dei cattolici in Italia.

    www.fondazionetovini.it

    La collana è peer reviewed

    Copyright © 2016 by Edizioni Studium - Roma

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838246227

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    PREFAZIONE

    INTRODUZIONE

    Parte prima

    I. TRA HEGELIANI E POSITIVISTI: GIUSEPPE ALLIEVO

    II. UN DISCEPOLO DEL ROSMINI: FRANCESCO PAOLI

    III. INFANZIA, SCUOLA E FORMAZIONE DEI MAESTRI NELL’OPERA DI CARLO UTTINI

    IV. AUGUSTO CONTI: DALL’ANTISCETTICISMO AL «PERFEZIONAMENTO»

    V. IL SELF-HELPISMO DI AUGUSTO ALFANI

    OSSERVAZIONI CONCLUSIVE PRIMA PARTE

    Parte seconda

    I. FÉLIX DUPANLOUP EDUCATORE E PEDAGOGISTA

    II. TRADIZIONE SULPIZIANA ED EDUCAZIONE CRISTIANA IN JEAN GUIBERT

    III. LA PEDAGOGIA NEOSCOLASTICA DI MARTIN GILLET

    OSSERVAZIONI CONCLUSIVE SECONDA PARTE

    Parte terza

    CULTURA

    Studium

    75.

    Nuova serie

    Religione e società / 18.

    PREFAZIONE

    La grande tradizione pedagogica dello spiritualismo liberal cattolico degli anni del Risorgimento entra in una stagione declinante subito dopo l’Unità per spegnersi – così almeno appare – negli anni successivi. La stessa scansione cronologica sembra dare una conferma in tal senso. Nel 1870 i maggiori protagonisti di quella stagione o sono già scomparsi da tempo (Rosmini nel 1855, Aporti nel 1858) o sono ormai molto anziani e, a loro volta, assai prossimi a lasciare il mondo terreno (Lambruschini muore nel 1873, Tommaseo l’anno successivo e Capponi nel 1876).

    Il positivismo ambisce ad aprire un’epoca del tutto nuova e la proclamazione di Roma capitale dell’Italia, con la grave frattura tra mondo cattolico e cultura liberale, coincide con un’evidente restrizione degli spazi di proposta e d’azione degli studiosi cattolici. I contributi storiografici che negli ultimi decenni hanno indagato l’ultimo segmento del XIX secolo documentano anche una certa varietà di atteggiamenti del mondo cattolico di fronte alla modernità, accompagnati da una pluralità di modelli educativi e da una elaborazione pedagogica poco incisiva e alquanto disomogenea.

    Nonostante il prestigioso ruolo di portavoce del Papato invano la «Civiltà Cattolica» riuscì a rappresentare un punto di vista globalmente condiviso. La sua puntuale e puntuta posizione raccolse, certo, molti consensi, soprattutto in relazione al dibattito politico-scolastico e agli orientamenti in materia di insegnamento religioso.

    Inflessibilmente impegnata a difendere le ragioni educative della Chiesa e delle famiglie, a contrastare le iniziative dello Stato usurpatore, disposta – al massimo – a considerare l’eventualità della libertà di insegnamento nella prospettiva di una ipotesi in attesa del ristabilimento della tesi principale e cioè la sovranità educativa della Chiesa, la rivista dei gesuiti fu mossa dalla preoccupazione di non porre sullo stesso piano verità ed errore. Non si poteva accettare che l’errore (liberalismo, materialismo, socialismo, ecc.) avesse lo stesso diritto della verità (quella cristiana) a entrare nelle scuole.

    Posizione totalmente condivisa dalla prima e importante organizzazione dei cattolici, l’Opera dei Congressi, secondo cui l’educazione laica prospettata dai fautori dell’istruzione obbligatoria altro non era che il mascheramento del proposito di scristianeggiare il mondo e ricacciarlo alla paganica barbarie. Quanto più ci si distanziava dall’insegnamento e dalla funzione moralizzatrice della Chiesa tanto maggiore era il rischio della dissoluzione di quella società che pretendeva di poter fare a meno di Dio, lasciando così ogni spazio al trionfo dell’incredulità materialista.

    Comune fu anche la convinzione che i cattolici non avessero bisogno di dotarsi di particolari pedagogie perché già disponevano di una tradizione educativa consolidata nei secoli, foggiata sul messaggio evangelico sostenuto dal principio della carità e nutrita di severa sollecitudine verso i minori. L’insegnamento di Silvio Antoniano, Giuseppe Calasanzio, Filippo Neri era giudicato più che sufficiente per tracciare una linea d’azione alternativa alle pedagogie moderne che spesso – come nel caso di Rousseau, Pestalozzi e del mutuo insegnamento – erano basate su fondamenti deisti o messe a punto da studiosi protestanti.

    Questa visione un poco apocalittica fu temperata alla prova dei fatti dalla moltiplicazione di iniziative cattoliche promosse da nuove congregazioni religiose, aggregazioni sociali di varia natura, iniziative di singoli benefattori che fin dagli anni della Restaurazione si erano diffuse per contrastare l’irreligiosità e conservare nella fede le masse popolari.

    Con l’attenzione prestata all’educazione non solo religiosa, ma anche e soprattutto scolastica, l’impegno a favore dei fanciulli poveri e abbandonati e la premura rivolta verso il mondo femminile, mediante la creazione di sodalizi di lavoratori alternativi a quelli socialisti e con altre iniziative ancora, i cattolici italiani non restarono fermi a una battaglia di retroguardia e puramente oppositiva, ma rivendicarono il diritto a un’Italia cattolica.

    Un’Italia le cui radici non affondavano nella cultura illuministica, ma nella tradizione religiosa. Il paese reale era opposto al progetto coltivato dalle élites liberali fuorviate dalle ideologie moderne e che si era materializzato contro il Papa e la Chiesa, un paese legale che il popolo non sentiva suo.

    Nonostante l’indubbia popolarità e fortuna di iniziative educative in grado di intercettare i bisogni dei ceti più poveri e di concorrere alla alfabetizzazione degli italiani, le nuove congregazioni impegnate in campo educativo non riuscirono tuttavia a elaborare una vera e propria sistemazione pedagogica del loro impegno militante in grado di competere con le pedagogie laiche e positiviste. Soltanto don Bosco tentò con il piccolo opuscolo sul sistema preventivo di partecipare al dibattito pedagogico del tempo.

    L’efficacia misurata sul terreno della realtà quotidiana non fu, in altre parole, accompagnata da una lettura sostenuta da ragioni non solo religiose, ma altresì pedagogiche, restando confinata nei recinti di una benemerita attività esperienziale ricca di sentimenti e di sollecitudine verso i più poveri, ma non di rado alquanto povera di contenuti culturali.

    Ragioni diverse, dunque – l’opposizione di principio dei circuiti dell’intransigentismo all’Italia liberale (e ormai in larga misura anche impregnata di una visione della scienza dogmatica e concepita in alternativa alla fede religiosa) e una certa debolezza culturale della militanza educativa nelle diverse realtà del Paese – hanno per molto tempo sostenuto la convinzione che, tra il 1870 e l’inizio del nuovo secolo, della pedagogia cattolica che aveva fecondato la stagione risorgimentale restassero ormai pallide tracce, eccezion fatta – forse – per la figura di Giuseppe Allievo.

    È precisamente a questo punto della ricostruzione dell’educazione cattolica del XIX secolo che si inserisce il saggio di Andrea Marrone. Il giovane e bravo studioso, con un paziente lavoro di scavo, riporta alla luce alcune pagine quasi del tutto rimosse della storia pedagogica dei cattolici italiani. L’interrogativo da cui ha preso le mosse è stato questo: possibile che la cospicua eredità dello spiritualismo risorgimentale sia andata dispersa così rapidamente, dissolvendosi quasi come neve al sole?

    Gli scavi intorno alle minoranze – e non c’è dubbio che questi autori furono espressione addirittura di una doppia minoranza: in minoranza verso la prevalente temperie positivista e osservati con diffidenza anche dagli intransigenti per le loro non nascoste simpatie liberali – risentono sempre del rischio di una tardiva lettura apologetica. In questi casi bisogna chiedersi se lo sforzo della rivisitazione non si riduce a pietas antiquaria nutrita di seduzione erudita.

    E in forma ancora più ultimativa occorre chiedersi cosa c’è di davvero di interessante in pagine (non sempre particolarmente attraenti su cui pesa, ancora oggi, il severo giudizio di Giovanni Gentile) di autori da tempo avvolti da un velo di silenzio. Insomma essi rappresentano davvero una pagina significativa da meritare la reintegrazione nella nostra complicata storia educativa? Per rispondere al quesito la ricerca dell’autore si è orientata in una duplice direzione.

    In primo luogo c’è l’attenzione posta verso i continuatori dell’esperienza primottocentesca, in specie eredi e allievi di Rosmini, Lambruschini, Capponi. Oltre ad Allievo, Marrone fa riemergere dal limbo della storia figure dimenticate che pure riscossero in vita un buon credito. Basta pensare al prestigio goduto da Augusto Conti, filosofo e attivo animatore della vita scolastica fiorentina, o alla fortuna editoriale di Augusto Alfani (il suo saggio Il carattere degli Italiani fu meritatamente famoso) o alla dedizione con cui Carlo Uttini si diede alla formazione dei maestri italiani. Per non parlare di padre Francesco Paoli che non solo coltivò la memoria pedagogica di Antonio Rosmini, ma lasciò scritti di forte caratura.

    Autori che, volendo trovarne una collocazione politico-culturale unitaria, si riconoscono nel progetto intorno a cui si svolge la pubblicazione della «Rassegna Nazionale», la rivista che apparve nel 1879 con l’orgogliosa volontà di essere cattolici e italiani.

    Marrone considera inoltre un secondo filone di indagine con l’esame della circolazione di autori e opere straniere, specialmente francesi come Dupanloup, Guibert, Gillet, ampiamente tradotti. Come è noto questi intellettuali si fanno portavoci di una sensibilità modernizzatrice, particolarmente attenta ai cambiamenti che percorrono la società europea del tempo. Su questa base essi introducono a nuovi orizzonti, in specie in materia di libertà scolastica e di educazione femminile.

    Chi si prenderà cura di leggere il volume potrà verificare come gli autori studiati da Marrone non esitino a confrontarsi con la cultura coeva, riconoscendone la portata innovativa e il carattere di sfida rispetto alla tradizione cristiana. Non c’è traccia del rifiuto quasi pregiudiziale con cui la «Civiltà Cattolica» prende posizione contro le varie manifestazioni della società moderna. Ma la disponibilità al confronto non impedisce di avere ben chiara la strada da percorrere.

    Emerge infatti dalle pagine di Conti e degli altri protagonisti di questa stagione il proposito di salvaguardare senza reticenze e con una coerenza esemplare la visione di un uomo che, come scriveva l’Allievo, «ha la coscienza di essere persona, ma persona finita, cioè intelligenza e volontà limitata; epperò sa di essere sorretto da un altro Essere che è personalità infinita, centro e ragion suprema di sé e di tutto l’universo».

    Nessun cedimento, dunque, all’evoluzionismo di Moleschott e di Lombroso e neppure nessun cedimento, su un altro piano, alla riduzione degli hegeliani all’uomo come sola forza del pensiero e alla visione dello Stato come entità assoluta nella quale si invererebbe l’esperienza umana. Lo scontro che si consuma tra una visione trascendente dell’uomo e un’assoluta immanenza è tuttavia segnato dalla consapevolezza che le sfide della modernità non possono essere liquidate senza la loro discussione e che, anzi, da queste sfide possono emergere nuove soluzioni e visioni del mondo più ampie e consone alla sua stessa comprensione.

    Per portare un solo esempio basta pensare a come questi autori si pongono di fronte allo Stato e alla libertà di insegnamento. Non c’è una preconcetta visione negativa dello Stato liberale; emerge piuttosto l’avvertenza accompagnata dalla preoccupazione che, senza un fondamento religioso, la stessa idea di patria fosse una entità troppo debole. La pur apprezzabile religione del dovere non era in grado da sola di essere la fede di tutti.

    Quanto alla pretesa dello Stato eticamente concepito di farsi educatore, era opposto il principio dello Stato regolatore. La società civile non poteva essere asservita allo Stato: era piuttosto lo Stato a doversi porre al servizio della società. Il maestro di scuola, come osservava ancora l’Allievo, non era il mandatario del Governo i cui voleri abbiano ad essere norma suprema per lui, bensì un inviato della famiglia e di cui doveva prima che dello Stato rispettare gli intendimenti.

    La libertà di insegnamento era inquadrata nel rispetto dello Stato regolatore e cioè nel contesto delle libertà fondamentali riconosciute al cittadino. Dunque una libertà di cui la Chiesa poteva e doveva godere, ma non di sua esclusiva pertinenza. Una libertà insomma rispettosa della libera circolazione delle proposte educative.

    L’elaborazione pedagogica degli studiosi cattolici, in specie quelli francesi spesso tradotti in italiano, non restò circoscritta alle sedi accademiche o a livello di circolazione culturale alta, ma fornì argomenti per una rinnovata divulgazione popolare a sostegno della visione cristiana dell’educazione. Marrone ci propone – tra i tanti ambiti possibili entro cui si sviluppò l’interscambio tra testi pedagogici e pubblicistica popolare – il caso dei plutarchi destinati al mondo femminile.

    Anche in queste piccole pubblicazioni diffuse spesso in migliaia di copie è possibile cogliere sensibilità più attente, pur nel solco della tradizione, a modelli educativi cautamente modernizzati. La tradizionale letteratura apologetica basata sulle vite dei Santi e sui libri devozionali viene infatti integrata con argomenti legati ai mutamenti della società del tempo e, nel caso specifico, a una condizione femminile alla quale si riconoscono spazi d’azione più ampi del passato, in specie nel campo dell’istruzione.

    Bastano questi pochi cenni per cogliere la rilevanza delle battaglie culturali generosamente ingaggiate dagli autori che Marrone propone alla nostra lettura. E dunque autori che meritava riproporre e recuperare nel quadro di una conoscenza più ampia della cultura italiana (non solo cattolica) di fine Ottocento. Senza la mediazione di questi studiosi di minoranza sarebbe stata molto più difficile e complessa l’elaborazione della nuova stagione del cattolicesimo italiano d’inizio Novecento.

    Giorgio Chiosso

    INTRODUZIONE

    Il periodo compreso tra l’unificazione nazionale e l’età giolittiana continua a rappresentare un settore privilegiato dagli studiosi di storia dell’educazione e della pedagogia.

    Nel corso degli ultimi decenni, sulla scia delle suggestioni portate in Italia dal «cultural turn»[1], le ricerche dedicate a questa stagione hanno rivolto un interesse sempre maggiore verso i «vissuti educativi». Nello stesso tempo, l’attenzione per i dibattiti pedagogici svolti sul piano teorico è andata gradualmente scemando, come se la ricostruzione delle idee e i costrutti filosofici e politico-ideologici che le sorreggono non avessero più l’attrazione di un tempo.

    La corrente spiritualista attiva nel secondo Ottocento, perlopiù animata da autori cattolici, sconta un disinteresse ancora precedente. I lavori, non numerosi, sui suoi principali esponenti risalgono – infatti – prevalentemente alla prima metà del secolo scorso. Spesso imprecisi e incompleti, non pochi appaiono compromessi da finalità agiografiche o da filosofie della storia ormai residuali. La mancanza di studi adeguati si è riverberata nelle più ampie storie della pedagogia, dove l’apporto della corrente cristiana è tratteggiato, almeno per la sezione di cui ci occupiamo, sovente in modo sbrigativo e insoddisfacente.

    Lo scarso interesse dimostrato va probabilmente ricondotto ad una diffusa interpretazione storiografica che ha giudicato poco significativa e forse ripetitiva l’elaborazione pedagogica di matrice cristiana nei decenni conosciuti come «età del positivismo». Si tratta di una sintesi emersa già all’inizio del Novecento quando, tra gli altri, Giovanni Vidari definì la corrente cattolica del secondo Ottocento come un’esperienza «che si riattacca a tutto il moto spiritualistico precedente, e ne rappresenta quasi l’ultima eco affievolita»[2]. Tale valutazione si è consolidata in autori successivi, per lo più concordi nel ritenere la posizione di questa scuola «marginale e sostanzialmente attenta all’apostolato più che alle teorizzazioni di ampio respiro»[3].

    In altre parole, dopo i fasti della produzione primo ottocentesca, la pedagogia spiritualista avrebbe conosciuto una lunga «eclissi»[4], senza riuscire «a prolungare il successo dei decenni precedenti»[5]. Con la morte degli ultimi studiosi risorgimentali, infatti, si sarebbe chiuso un ciclo senza un valido ricambio[6].

    Salvo poche eccezioni, la pedagogia cattolica avrebbe conseguentemente avuto «molta difficoltà nel settore della ricerca teorica, specie quando doveva affrontare problemi di natura ontologica, metafisica che implicavano anche scelte di natura dottrinale e teologica»[7]. La mancanza di veri e propri «pensatori di vaglia»[8], sarebbe la causa di una «relativamente modesta consistenza, sul piano scientifico, della pedagogia cattolica nell’ultimo trentennio dell’Ottocento»[9]. Una mediocrità che si sarebbe riflessa in un controproducente «atteggiamento polemicamente ‘difensivo’ sul piano della discussione dei principi»[10]. Simili fragilità avrebbero facilitato i detrattori dello spiritualismo a relegare questa corrente «fuori dalla logica della scienza»[11].

    La pedagogia cattolica si sarebbe invece «mossa con maggiore facilità nel settore della didattica, delle tecnologie, dei dibattiti sulle riforme scolastiche, dell’educazione familiare e popolare, dell’integrazione degli handicappati, degli emarginati»[12]. Il suo vero apporto andrebbe ricercato soprattutto nell’imponente numero di congregazioni religiose e istituti silenziosamente impegnati nell’educazione dei ceti popolari[13].

    Sulle ragioni di questa crisi, merita di essere segnalata l’opinione di Mario Casotti. Nel quadro complessivo del suo progetto di rivalutazione della presenza cattolica nella storia italiana, il pedagogista romano espresse la convinzione che i positivisti riuscirono a «passare la spugna» sullo spiritualismo poiché in quei decenni «i grandi sistemi della nostra pedagogia sembravano obliati dagli stessi cattolici»[14]: smarrendo la via maestra della philosophia perennis, essi avrebbero compromesso le basi della loro riflessione.

    Nei vari lavori che, sovente di sfuggita, si sono accostati a questo settore della storia della pedagogia, è raro trovare valutazioni di segno diverso. Tuttavia, colpisce come alla risolutezza delle sintesi precedentemente riportate non corrisponda una tradizione di studi che possa suffragare valutazioni così nette.

    Le pagine che seguono intendono sollevare la pietra tombale che da oltre un secolo ha sigillato la cultura pedagogica tardo ottocentesca dei cattolici e verificare, senza pregiudiziali intenti agiografici o riabilitativi, se davvero l’apporto degli eredi della tradizione spiritualistica risorgimentale sia stato così irrilevante come è stato fin qui ritenuto.

    A tal fine esamineremo le opere di alcuni dei maggiori esponenti, i legami con la tradizione precedente e successiva, le connessioni con la riflessione straniera e il più vasto scenario del dibattito italiano. Si tratta, più che altro, di una «incursione» preliminare in un campo che, data l’ampiezza, meriterà ulteriori approfondimenti.

    Il lavoro è articolato in tre parti principali che rappresentano piste di ricerca distinte, ma con numerose connessioni reciproche.

    Nella prima viene esplorata la produzione e la proposta pedagogica dei maggiori studiosi attivi nel periodo considerato: Giuseppe Allievo, Francesco Paoli, Carlo Uttini, Augusto Conti e Augusto Alfani. Si tratta di autori eredi del circuito cattolico liberale primo ottocentesco: i primi tre possono essere collocati nell’alveo del gruppo rosminiano, di cui raccolsero con diverse sensibilità e interessi l’eredità, mentre gli altri due cercarono di prolungare le fortune del moderatismo toscano, la cui duratura influenza percorse in pratica tutto l’Ottocento.

    Nella seconda parte si è presa in esame la circolazione in Italia di autori e opere francesi. In particolare, vengono presentati i contributi di Félix Dupanloup, Jean Guibert e Martin Stanislao Gillet. Questi studiosi meritano attenzione perché elaborarono forme di teorizzazione pedagogica in chiave cattolica che incarnarono passaggi nodali per lo sviluppo dell’intera riflessione educativa spiritualista francese ed europea, con esiti non secondari anche per l’Italia.

    Il saggio è concluso da un sondaggio sul filone della pubblicistica cosiddetta minore, ovvero su alcuni plutarchi tradotti dal francese per le giovani italiane. Questi scritti avevano una grande presa sul pubblico e, pur senza grandi pretese teoriche, erano portatori di una implicita valenza pedagogica, rappresentando una significativa semplificazione di contenuti e valori educativi ritenuti esemplari.

    Nel presentare il lavoro, desidero infine sottolineare che l’interesse per questo scorcio della storia della pedagogia non è dipeso esclusivamente dalla lampante mancanza di opportuni studi, ma anche dal valore teorico di questo singolare tornante del dibattito educativo italiano.

    L’inedito contesto culturale nel quale i cattolici si trovarono ad operare nell’ultimo scorcio del XIX secolo, costrinse i suoi protagonisti a sostare su questioni radicali che ancora oggi rappresentano i «bivi» improcrastinabili della «pedagogia fondamentale». Per questa ragione, nel vasto «laboratorio» della storia delle idee, i dibattiti che animarono i decenni successivi all’Unità si presentano particolarmente ricchi di stimoli, lezioni e sfide per la discussione attuale. Limitandoci a presentare un esempio, basti pensare al confronto nato attorno alla gnoseologia positivista e a tutti i corollari educativi dell’«ideologia della scienza», tematica su cui ancora oggi deve prendere posizione una pedagogia che voglia affrontare con radicalità le più profonde sfide speculative legate al senso dell’educazione, come gli interrogativi circa la natura e il destino della persona[15].

    Nota: il volume ripropone, pur in una versione rivista e aggiornata, temi già affrontati in articoli precedenti:

    - Giuseppe Allievo e la libertà d’insegnamento, in «History of Education & Children’s Literature», VII, n. 2, 2012, pp. 173-191.

    - La pedagogia di Félix Dupanloup in Italia, in «History of Education & Children’s Literature», IX, n. 2, 2014, pp. 337-355.

    L’elaborazione di questa ricerca è stata possibile grazie all’amichevole collaborazione di vari studiosi che intendo ringraziare.

    Anzitutto, la mia più sincera gratitudine va al professor Giorgio Chiosso dell’Università degli Studi di Torino, a cui devo non solo l’invito ad approfondire il tema della ricerca, ma anche la costante guida ed il sostegno nel corso delle mie indagini, dalla stesura della tesi di dottorato sino a questa monografia. Senza la sua solerzia e dedizione, il saggio non avrebbe certamente visto la luce.

    Allo stesso modo desidero ringraziare il professor Felice Nuvoli, maestro e amico, il cui lavoro seguo da anni alla cattedra di Pedagogia generale dell’Università degli Studi di Cagliari con impagabile beneficio accademico ed umano.

    Sono inoltre particolarmente riconoscente al professor Roberto Sani e alla professoressa Anna Ascenzi, che hanno accompagnato e incoraggiato la mia ricerca durante gli anni di dottorato presso l’Università degli Studi di Macerata, fornendomi preziose indicazioni e suggerimenti intorno ai vari capitoli della tesi.

    Esprimo, infine, la mia riconoscenza a don Umberto Muratore e al gruppo dei padri rosminiani di Stresa, che mi hanno accolto e offerto numerosi e validi consigli nelle mie ricerche presso il Centro Internazionale di Studi Rosminiani.


    [1] Si veda: L. Pazzaglia-F. De Giorgi, Le dimensioni culturali e politiche della ricerca storica nel campo dell’educazione, in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», n. 12, 2005, pp. 133-154.

    [2] G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, Paravia, Torino 1924, p. 85.

    [3] H. Cavallera, La pedagogia cristiana tra le due guerre: il confronto con l’idealismo, in AA.VV., La pedagogia cristiana nel Novecento tra critica e progetto, XXXVIII Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia 2000, p. 87.

    [4] F. Cambi, Storia della pedagogia, Laterza, Bari 1995, p. 470.

    [5] L. Caimi, Aspetti e problemi della pedagogia cattolica italiana nel secondo Ottocento, in AA.VV., Giovanni Piamarta e il suo tempo (1841-1913), Queriniana, Brescia 1987, p. 78.

    [6] M. Sancipriano, Il pensiero educativo italiano nella prima metà del secolo XIX, in AA.VV., Momenti di storia della pedagogia, Marzorati, Milano 1969, vol. IV, p. 1286.

    [7] R. Fornaca, Storia della pedagogia, La Nuova Italia, Firenze 1991, p. 271.

    [8] L. Caimi, Aspetti e problemi della pedagogia cattolica italiana nel secondo Ottocento, cit., p. 78.

    [9] Ibid., p. 101.

    [10] C. Scurati, Profili nell’educazione. Ideali e modelli pedagogici nel pensiero contemporaneo, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 75.

    [11] H. Cavallera, La pedagogia cristiana tra le due guerre: il confronto con l’idealismo, cit., pp. 81-82.

    [12] R. Fornaca, Storia della pedagogia, cit., p. 271.

    [13] «Il vero contributo pedagogico del mondo cattolico in quell’epoca va ricercato più che in qualche riflessione teorica, magari di pregio ancorchè isolata (si pensi a un Allievo e a un Bonatelli), nel considerevole fervore d’iniziative e di opere avviate, non di rado in polemica opposizione con le istituzioni statali, a vantaggio della promozione umana e cristiana principalmente dei figli del popolo. All’interno di questo ampio dispiegamento di forze, credo si possa scorgere una tendenziale linea di convergenza sul piano della metodologia educativa. Intendo riferirmi a quel sistema preventivo che, precisato da don Bosco, fu assunto da pressoché tutti i maggiori educatori cattolici del tempo. Non penso di essere lontano dal vero se osservo che proprio quest’impostazione metodologica sia risultata, in un periodo marcato anche in molti ambienti educativi ecclesiali da indirizzi repressivi, la parola più valida e convincente della pedagogia d’ispirazione cristiana» L. Caimi, Aspetti e problemi della pedagogia cattolica italiana nel secondo Ottocento, cit., pp. 101-102.

    [14] M. Casotti, La neoscolastica e la storia della pedagogia, in «Pedagogia e Vita», n. 4, 1960-1961, p. 298.

    [15] Sull’importanza del tema nel dibattito contemporaneo, si veda il capitolo «Chiusure dell’ideologia e aperture della metafisica», in F. Nuvoli, Affermazione e ricerca di senso, presupposti antropologici dell’educare, Edizioni CUSL, Cagliari 2008. 

    Parte prima

    I PEDAGOGISTI ITALIANI

    I. TRA HEGELIANI E POSITIVISTI: GIUSEPPE ALLIEVO

    «Chi dovrà un giorno fare giustizia e scrivere veramente la storia del pensiero filosofico italiano nell’ultimo secolo, non potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del quale certo uno dei più illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è Giuseppe Allievo» [1]. 

    Le parole di Calò attestano un dato evidente a chi si accosta alla storia della pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità.

    Nato a San Germano Vercellese il 14 settembre 1830, Giuseppe Allievo [2] compì gli studi secondari al seminario Arcivescovile di Vercelli. Vinta una borsa al Collegio Carlo Alberto di Torino, proseguì la sua preparazione nella Facoltà di filosofia della sua città, dove si distinse per l’applicazione negli studi[3].

    Conseguita la laurea nel 1853, fu chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso Novara. Insegnò poi in diversi centri piemontesi (Domodossola, Ivrea, Ceva, Casale Monferrato), fino a quando nel 1861 divenne docente di filosofia al Liceo di Porta Nuova a Milano, l’attuale Liceo Parini, dove rimase per i successivi sei anni. Nel centro lombardo collaborò all’Accademia Scientifica – Letteraria in cui dava lezioni di Filosofia teoretica, logica e metafisica. Continuò a mantenere i rapporti con l’università torinese, dove nel 1857 aveva superato l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi molto positivi del Mamiani e del Rayneri [4]. Quello milanese fu un periodo di intenso studio, segnato purtroppo dalla sofferenza per la morte di uno dei suoi figli.

    Nel 1867 tornò a Torino poiché fu chiamato all’insegnamento nel Liceo Cavour ed incaricato, dopo la scomparsa del Rayneri, del corso di pedagogia all’Università. Lasciò la scuola nel 1869, per dedicarsi interamente alla cattedra di Pedagogia di cui nel frattempo era stato nominato titolare. Ordinario solo nel 1878, insegnò ininterrottamente nell’ateneo subalpino sino al 1912, quando lasciò l’Università al termine di una dolorosa polemica con la Facoltà ed il preside Vidari [5].

    La sua produzione fu particolarmente florida. Aiutato dalla rara longevità accademica, pubblicò più di cento opere tra monografie e saggi. Alcuni dei titoli più significativi appaiono: Saggi filosofici (1866), Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), L’hegelianismo e la scienza, la vita (1868), L’educazione e la nazionalità (1875), L’educazione e la Scienza (1882), Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), Delle idee pedagogiche dei Greci (1887), Studi pedagogici (1889), Riforma dell’educazione mediante la riforma dello Stato (1897), Esame dell’hegelianismo (1897), La pedagogia antica e contemporanea (1901), Opuscoli pedagogici (1909), G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910).

    Diede alle stampe anche alcuni manuali per le scuole secondarie come il Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei (1862), Elementi di pedagogia ad uso delle Scuole normali del Regno (1885) e il Compendio di Etica ad uso dei Licei (1899). I suoi testi incontrarono una certa fortuna con l’adozione in vari licei italiani.

    Allievo collaborò attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo [6]. Nel 1867 fu con Carlo Passaglia il principale animatore del «Gerdil», organo dei giobertiani e spiritualisti torinesi, che ebbe però breve durata non riuscendo a superare l’anno. Dal 1868 al 1873, diresse «Il campo dei filosofi», periodico fondato a Napoli nel 1863 da Gaetano Milone e poi trasferito a Torino nel 1867. Si trattò di un’esperienza pubblicistica che ebbe una certa rilevanza nel dibattito filosofico e pedagogico italiano[7]. Nel 1883 assunse la direzione de «Il Baretti», un foglio dedicato a dibattere questioni scolastiche e pedagogiche, che guidò sino al 1885[8].

    Il ruolo ricoperto per quasi mezzo secolo in ambito accademico, concorse a fare dell’Allievo uno dei più importanti protagonisti nel dibattito italiano. Va considerato, infatti, che allora i docenti di pedagogia incardinati nelle Università italiane erano relativamente pochi: solo cinque i professori nelle tredici facoltà italiane di Lettere e Filosofia [9]. Di questi Allievo non solo era uno dei tre ordinari, ma insegnava nell’Ateneo di una città come Torino che oltre ad avere con quella napoletana il primato per il numero di iscritti, rappresentava in quei decenni uno dei principali poli del dibattito pedagogico italiano, sia in campo accademico, sia in quello pubblicistico e scolastico.

    Tenuto conto che le altre cattedre vennero presto occupate perlopiù da positivisti, quasi naturalmente egli divenne un punto di riferimento per quanti si ispiravano alla tradizione pedagogica spiritualistica cattolica [10]. Secondo Dina Bertoni Jovine non fu solo il maggiore esponente del «neospiritualismo»[11], ma pure l’animatore di una corrente di studi e proposte anche politico scolastiche adiacenti alle tesi dei moderati toscani[12].

    Stretta fu la sintonia con i salesiani di don Bosco, di cui Allievo nutriva profonda stima. Non solo iscrisse uno dei suoi figli presso uno dei loro collegi, ma partecipava alle numerose manifestazioni culturali della congregazione in città [13], faceva spesso visita in qualità di «esperto» alle loro scuole e aiutò lo stesso don Bosco, al quale lo legò una solida amicizia[14], quando l’oratorio di Valdocco rischiò di chiudere a causa di un provvedimento voluto dal ministro Correnti[15].

    Il pensiero dello studioso vercellese ispirò alcune opere dei primi pedagogisti salesiani, come la Storia della pedagogia (1883) di Cerruti, gli Appunti di pedagogia (1897) di Barberis e le Lezioni di pedagogia di don Vincenzo Cimatti[16].

    Se l’opera di Allievo fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò altrettanto favorevole. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà Cattolica» lo menzionò prima per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento [17], e poi per i suoi lavori di critica al positivismo[18].

    Dopo una lunga esistenza spesa interamente per la riflessione educativa si spense a Torino il 24 giugno 1913.

    1. Influenze rosminiane e dimensione europea

    Alla formazione del sistema pedagogico e filosofico dell’Allievo contribuirono molteplici apporti. Gran parte degli studiosi hanno concordato nel riconoscere una preponderante traccia lasciata dal pensiero rosminiano, impronta confermata da aspetti come il principio della personalità [19], il «sintetismo»[20], l’impostazione psicologica, la critica alla filosofia moderna ed in specie allo «scetticismo» di Kant, l’unità di filosofia e pedagogia contro gli eccessi di «metodologismo».

    Per comprenderne le ragioni, occorre tenere conto della forte influenza esercitata dal pensatore roveretano sulla cultura subalpina [21], e più in particolare sull’Ateneo torinese che, con i seminari lombardi, costituì uno dei maggiori centri di propagazione della sua opera[22]. Diversi docenti dell’Allievo erano di fede rosminiana. Grazie ad uno di loro, Pier Antonio Corte, il giovane Allievo ebbe un primo contatto con il filosofo roveretano. Nel 1852, il Corte inviò al Rosmini un breve scritto del promettente studente vercellese, allora solo ventiduenne[23], per averne un’opinione. Nel 1854 Allievo poté anche avere il privilegio di un colloquio. Ricordando quella circostanza, il giovane vercellese parlò del Rosmini come di un uomo dotato di una «modestia pari alla sua grandezza»[24].

    Va poi considerata la profonda stima nutrita da Allievo per il suo maestro Giovanni Antonio Rayneri [25], il quale, è noto, attinse ampiamente dalla piattaforma filosofica del roveretano. L’elaborazione del sacerdote di Carmagnola ne rappresentò, anzi, una delle più organiche ed elaborate riproposizioni in ambito pedagogico, contribuendo, non poco, alla circolazione del pensiero rosminiano[26]. Un’opera a cui lo stesso Allievo contribuì con la pubblicazione di alcuni inediti del maestro. Tra gli altri, curò la versione postuma del saggio Della pedagogica, «supplendo il libro e mezzo, che mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»[27].

    Nonostante una indubbia adiacenza al pensiero rosminiano, proseguita con la collaborazione ad alcune di iniziative dei suoi discepoli [28], la pedagogia di Allievo non può essere ascritta in toto alla corrente del filosofo roveretano. Nelle sue opere, infatti, non è difficile rilevare la volontà di smarcarsi da una discendenza acritica. Già in uno dei primi scritti, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo Ottocento, Allievo attenuò l’apporto del pensatore roveretano in favore del Rayneri[29].

    Nei lavori successivi appaiono ricorrenti critiche ad elementi non secondari della filosofia rosminiana: ne Il problema della metafisica (1877) espresse le sue riserve in merito alla dottrina dell’essere e circa «l’oggetto primo» della metafisica[30], ne L’uomo e il cosmo (1891) criticò alcuni aspetti della gnoseologia, e nello specifico la controversa questione dell’intuizione[31], mentre particolarmente netta appare la posizione espressa nei tardi Studi psicofisiologici (1911), dove sostenne che sarebbe una «malagevole impresa» cogliere nell’opera del filosofo roveretano «l’essenza dell’anima umana», tanto il suo pensiero appariva «intricato, inconsistente, incerto!»[32].

    Considerazioni simili non poterono che suscitare le reazioni dei più fedeli studiosi rosminiani. Pietro De Nardi stampò due severi pamphlet contro il pedagogista vercellese[33], il quale in una controreplica lamentò la poca disponibilità al dialogo di alcuni epigoni del roveretano, i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto, bisogna dire che cammina nella via dell’errore»[34].

    Volendo ulteriormente approfondire il tema, occorre esaminare due testi significativi ad impatto diretto: Il concetto pedagogico di A. Rosmini[35] e Antonio Rosmini[36]. Il primo scritto riporta un discorso tenuto al congresso organizzato nel Maggio del 1897 dall’Accademia degli Agiati di Rovereto per celebrare il centenario della nascita di Rosmini. Nonostante l’iniziativa avesse finalità commemorative, anche in quella sede Allievo volle sottolineare, non solo gli indubbi meriti della pedagogia del roveretano per la scuola spiritualista e per gli studi sull’educazione, ma anche l’esistenza di differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini[37].

    Nel secondo saggio, più consistente, dettagliò le sue perplessità intorno a più temi: il legame tra la psicologia e l’antropologia, la definizione dell’uomo come «soggetto animale», la percezione dell’essere ideale, l’idea del «sentimento corporeo» [38]. In campo più specificatamente pedagogico contestò la spiegazione del rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore, lamentò l’assenza di un adeguato approfondimento del concetto di «varietà», e poi sostenne che la parte relativa all’«Unità degli oggetti» esposta nel Saggio sull’unità dell’educazione fosse «alquanto sconnessa»[39].

    Naturalmente, anche in questo caso, osservazioni simili erano disposte entro un quadro di apprezzamento generale tra cui spiccavano il merito ascritto di aver riportato la pedagogia ad un metodo realista [40] e gli sforzi per mostrare la conciliabilità tra lo spiritualismo e la realtà naturale dell’uomo[41].

    Oltre al Rosmini anche altri autori nutrirono la biografia intellettuale di Allievo. Fra gli italiani esercitò un considerevole ascendente il Bertini [42], almeno quello precedente alla conversione razionalista. Il pedagogista vercellese fu inoltre attratto dalla filosofia di Augusto Conti, a cui dedicò tre

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1