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Studium - La famiglia in transizione: sfide e risorse
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E-book276 pagine3 ore

Studium - La famiglia in transizione: sfide e risorse

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Info su questo ebook

Una sezione monografica di grande interesse, con contributi su "L’alleanza genitoriale: una risorsa per il benessere in famiglie con figli in età scolare" (Sonia Ranieri, Rosa Rosnati, Laura Ferrari, Elena Canzi, Francesca Danioni); "L’adolescente e la sua famiglia: fattori di rischio e di protezione" (Marco Cacioppo e Cinzia Correale); "Le relazioni familiari generative come risorsa per la transizione all’età adulta" (Margherita Lanz, Semira Tagliabue, Angela Sorgente); "Di generazione in generazione: le relazioni familiari come fonte generativa di valore" (Daniela Barni).
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2017
ISBN9788838245640
Studium - La famiglia in transizione: sfide e risorse

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    Anteprima del libro

    Studium - La famiglia in transizione - Laura Ferrari

    Barni (a cura di), Ranieri, Rosnati, Ferrari, Canzi, Danioni, Cacioppo, Correale, Lanz, Tagliabue, Sorgente

    STUDIUM - La famiglia in transizione: sfide e risorse

    ISBN: 978-88-3824-564-0

    UUID: cd506f3c-41fc-11e7-8f6a-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    La scuola medico salernitana. Cenni storici

    IL PUNTO: Scuola in crisi

    LA FAMIGLIA IN TRANSIZIONE: SFIDE E RISORSE

    L'alleanza genitoriale: una risorsa per il benessere in famiglie con figli in età scolare

    L'adolescenza e la sua famiglia: fattori di rischio e protezione

    Le relazioni familiari generative come risorsa per la transizione all'età adulta

    Di generazione in generazione: le relazioni familiari come fonte generativa di valore

    NEUROSCIENZE: Dalla corporeità alla mente: il punto di vista della spiritualità

    FILOSOFIA: Reinhard Lauth, un'interpretazione trascendentale di Descartes

    STORIA: Gli intellettuali dell'Azione Cattolica Italiana e del Referendum del 1974

    OSSERVATORIO POLITICO

    Immigrazione: quali scenari alla frontiera italiana dell'Europa?

    LECTURAE DANTIS: VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE

    Un memoriale per Cangrande: l'epistola XIII (1)

    RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-LETTERATURA

    La scuola medico salernitana. Cenni storici

    di Vincenzo Cappelletti

    È di origini oscure, la Scuola salernitana, e ancor più rifulge il suo fascino intellettuale o, a dirla con termini odierni, la suggestione scientifica. I Concili, da quello di Reims del 1131, avevano proibito ai religiosi l’esercizio medico al di fuori dei Chiostri. La Scuola raggiunse il suo massimo splendore nel XII secolo, dopo che Costantino l’Africano ebbe introdotto e diffuso le sue traduzioni latine di opere mediche arabe. Aprì la strada il grande Trattato De aegritudinum curatione di Maestro Ferrario, in due parti, di cui una teorizza la dottrina delle febbri, mentre l’altra si sofferma sulla cura delle malattie. Altre importanti opere del XII e XIII sono l’ Antidotarium di Nicola Salernitano, i trattati di oculistica di Benvenuto Graffeo, le opere di Marino e Urso ( De pulso , De urinis , De affectionus qualitatum e la Practica attribuita al chirurgo Ruggero Frugardo). Al XV e XVI secolo risale la redazione definitiva del Regimen Sanitatis Salernitanum , la cui prima origine è peraltro più antica.

    La decadenza della Scuola salernitana si delinea con il sorgere delle Università; in particolare, si afferma in tutto il suo prestigio lo Studio medico di Napoli. Dopo secoli di un’attività che era venuta riducendosi a dimensioni irrilevanti per qualità e quantità, nel 1811 Gioacchino Murat decretò la chiusura della Scuola. Ma le sarebbe sopravvissuto mezzo secolo di esercizio della medicina, dopo aver posto le fondamenta di un corpo dottrinale e di una pratica professionale di prestigio, fino ad allora insuperato.

    Alla scuola medica di Salerno ha legato il suo nome Salvatore De Renzi (1808-1872), cattedratico di patologia generale e poi di storia della medicina nell’Università di Napoli. La sua Storia documentata della Scuola medica di Salerno, edita nel 1857, è un contributo storiografico di primaria importanza per approfondire un capitolo della storiografia italiana della scienza, che ha acquistato profonda suggestione e rilevanza culturale priva di ogni confronto.

    Vincenzo Cappelletti

    IL PUNTO: Scuola in crisi

    di Giuseppe della Torre

    Le ragioni profonde della grave crisi che ha colpito, da tempo ormai, la scuola in Italia, sarebbero da ricercare nel suo abbandono da parte della politica, che ha lasciato sempre più agli esperti i poteri dei ministri della Pubblica istruzione, cancellando così dai programmi ogni valenza formativa.

    Questa la tesi di fondo di un lungo e meditato articolo di Ernesto Galli della Loggia, apparso con grande evidenza sul Corriere della Sera del 16 gennaio 2017. Secondo lo studioso, dagli anni Sessanta del secolo scorso è iniziato un processo che ha condotto ad una svolta: «La politica decise che era meglio sgomberare il campo. Nella grande crisi della politica che a partire dagli anni Ottanta ha annunciato e poi accompagnato massicciamente la globalizzazione – con la conseguente ritirata della politica stessa e dello Stato dalla società – l’istruzione è stata la prima trincea ad essere abbandonata. La prima non a caso. L’abbandono segnalava che stavano ormai venendo meno partiti e culture politiche nutrite di idee e di valori forti. In grado di esprimere in qualche modo un progetto complessivo di società, di credere realmente in un tale progetto, e su tale base addirittura assumersi il compito di trasfonderne il senso nella formazione delle nuove generazioni, dirigendo contenuti e modi di questa attraverso la scuola. Tutto ciò doveva ormai essere considerato impossibile». Un eloquente indice di tale deriva sarebbe dato dalla cancellazione dell’aggettivo pubblica apposto al sostantivo istruzione, che fino a qualche tempo fa segnalava la denominazione ufficiale del Ministero competente.

    Secondo Galli della Loggia gli spazi lasciati dalla politica sarebbero stati consegnati alla tecnica ed alla autonomia, col risultato – tra gli altri – di non avere più una direzione politica unitaria, sicché la scuola italiana si presenta oggi «come una mirabile accozzaglia di progetti, iniziative, corsi, attività, offerte formative che con i più vari obbiettivi spaziano sui più vari ambiti».

    Si tratta di analisi ed affermazioni, non tutte né sempre condivisibili, che tuttavia provocano alla riflessione dinnanzi ad una obbiettiva situazione di crisi del sistema di istruzione nazionale. Anche se, occorre riconoscerlo, si tratta di una situazione non esclusivamente italiana; la crisi della nostra scuola, infatti, ha delle sue peculiarità, ma è pure espressione di una più ampia crisi che tocca i sistemi scolastici dei Paesi con storia e cultura simili alle nostre: si pensi alla ancor più grave crisi della scuola statale in Francia, che non riesce più ad essere veicolo di integrazione sociale e culturale.

    Per giungere alle sue conclusioni Galli della Loggia parte dalla storia, ricordando le origini e gli sviluppi della scuola pubblica. E sostiene al riguardo che questa non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo, ma da una decisione politica: formare i cittadini dei tempi nuovi.

    Riprendiamo la suggestione di partire dalla storia, per sviluppare qualche considerazione sul tema.

    In effetti nell’età liberale la scuola, insieme al servizio militare obbligatorio, fu lo strumento che attese alla formazione degli italiani; al forgiare un’identità comune e condivisa, al di là delle fortissime diversità nascenti dalle radicate tradizioni locali; a far crescere uno spirito nazionale e, dunque, quel collante necessario a tenere unita la nuova comunità politica, nascente da una pluralità di comunità politiche segnate da diverse storie e culture differenti. Le pagine di un Edmondo De Amicis, da Cuore per la scuola a La vita militare per la leva, furono scritte onde sostenere il grande sforzo del giovane Stato unitario per fare della gente italiana un popolo, e per evitare al contempo i rinascenti pericoli di localismi veicolati da nostalgie legittimistiche e da tentativi di restaurazione.

    Fu dunque una impresa importante, anche se comportò un alto prezzo: quello dello sradicamento della scuola dalla società civile, nella quale invece era stata – in maniera preminente come scuola cattolica – fino ad allora e della quale era espressione ed interprete. Per la verità si cercò di mantenere un collegamento con la società, ed in particolare con la sua tradizionale cultura religiosa: il crocifisso, checché se ne dica, era appeso alle spalle della cattedra della maestrina dalla penna rossa, insieme al ritratto del re; si tenne ancora per qualche tempo l’insegnamento religioso, che peraltro mai scomparve del tutto. Ma si erano poste le premesse, e forti, dell’idea di Stato educatore.

    Il fascismo anche in questo ambito raccolse l’eredità liberale. La rafforzò, la rese coerentemente lucida, ne moltiplicò le potenzialità. La grande riforma della scuola di Giovanni Gentile, che nonostante tutto continua ad essere in qualche modo la spina dorsale profonda del nostro sistema, segnò il passaggio. Se prima la scuola pubblica era diretta ad educare agli ideali ed ai valori dell’ideologia liberale, ora doveva presiedere alla formazione del giovane italiano all’ideologia del fascismo.

    Anche questa volta si cercò il mantenimento di un certo rapporto con la società civile e la sua identità; anche questa volta ciò si manifestò in particolare sul terreno delle tradizioni cattoliche del popolo italiano. Così ci furono limitati riconoscimenti legali per la scuola cattolica – ma in generale per le scuole private – , però sterilizzati sulla pretesa uniformazione di questa alla scuola di Stato; si reintrodusse l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole pubbliche, ma con quel paradosso di ipocrisia dato dall’art. 36 del Concordato del 1929, laddove se da un lato si affermava che «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica», dall’altro diceva che «perciò consente [corsivo redazionale] che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie». Ed in quel consente, notava Jemolo, dopo la roboante giustificazione posta in premessa, era in nuce tutta la marginalizzazione che, di fatto, detto insegnamento avrebbe avuto nella scuola italiana.

    Le cose avrebbero potuto e dovuto cambiare con l’avvento della Repubblica, con i principi di libertà di insegnamento e scolastica, con il riconoscimento del ruolo delle formazioni sociali, con l’affermazione del principio di sussidiarietà – ben presente nel testo costituzionale originario, dunque prima della infelice riforma Bassanini! –, ma non andò così. Nonostante la dominante presenza dei cattolici in politica e nel Governo durante la cosiddetta Prima Repubblica, ed il loro prolungato presidio del Ministero della Pubblica Istruzione, non si riuscì a tornare indietro rispetto allo spossessamento della scuola da parte dello Stato, avvenuto sotto i liberali; la scuola privata rimase – ed in buona parte rimane, nonostante la buona legge Berlinguer – la cenerentola del sistema. Residui potenti di statalismo e di anticlericalismo, radicati sia a destra che a sinistra, hanno impedito in Italia di raggiungere i modelli di pluralismo scolastico presenti in Belgio, in Olanda, nel Regno Unito, in Spagna, persino nella laicissima Francia. Ma si tratta di diversa questione, sulla quale non è il caso ora di insistere.

    Vero è che la riforma dell’autonomia scolastica, conferendo personalità giuridica ai singoli istituti, sembrerebbe aver imboccato la strada di una graduale de-statalizzazione della scuola pubblica, ed un indicatore in tal senso è dato anche dal fatto che il valore legale del titolo di studio tende sempre più ad affievolirsi (basti pensare all’abolizione dell’esame di quinta elementare e al progressivo svuotamento dell’esame di maturità). Ma questo processo sembra arrestatosi, lasciando la scuola pubblica-statale sola e, per il momento, più fragile.

    Per tornare alle provocazioni di Galli della Loggia, si sarebbe dovuto pensare che con l’avvento della Repubblica le ideologie – quella liberale prima, quella fascista poi – avrebbero lasciato il posto alla ideologia racchiusa nella prima parte della Costituzione; ai valori fondanti la casa comune di cui parlava Giorgio La Pira; ai principi di quella fede secolare, orizzontale e trasversale, cara al Maritain de L’uomo e lo Stato.

    Non è stato così.

    La Costituzione, che davvero avrebbe dovuto essere il fondamento e coronamento della istruzione pubblica (non solo statale) in una società che diventava sempre più pluralista e sempre meno omogenea, è stata per lo più negletta nella scuola. Prova ne sia la marginalizzazione che hanno sempre subìto gli insegnamenti tesi a farla conoscere alle più giovani generazioni, a farne assimilare lo spirito prima ancora delle singole disposizioni: si pensi alla infelice sorte di quella educazione civica, che un giustamente preoccupato Aldo Moro volle introdotta nelle scuole nel 1958, ma con sole due ore al mese e senza valutazione alcuna. Una disciplina, quella dell’educazione civica, che ha continuato ad avere sotto denominazioni diverse vita marginale e stentata, con contenuti eterogenei, fino a comprendere l’educazione stradale, l’educazione alimentare, l’educazione sanitaria.

    Una Costituzione disertata, dunque. Oppure utilizzata in maniera strumentale per posizioni ideologiche di parte. Basti pensare all’invocazione del principio della libertà di insegnamento, di cui all’art. 33 Cost., piegato agli orientamenti del docente, mentre nella scuola pubblica dovrebbe essere finalizzato all’interesse del discente; o si pensi al richiamo del principio supremo di laicità dello Stato, nelle tornanti querelles sull’ora di religione, sull’esposizione del crocifisso nelle aule, sulle celebrazioni religiose negli istituti, anche se fuori orario scolastico, su richiesta dei genitori e con assoluta libertà di partecipazione.

    Dunque è venuto meno ogni riferimento ideale, è stata cancellata ogni potenziale valenza etica in una scuola, quella pubblica-statale, nata invece – come s’è detto – per orientare, forgiare, educare i giovani, prima ancora che per istruirli e diffondere il sapere. Il risultato finale sembra avere una certa paradossalità: abbandonata dallo Stato, secondo la denuncia di Galli della Loggia, non è stata restituita alla società civile, la quale pure nel frattempo si è venuta indebolendo di riferimenti valoriali col progredire di quella secolarizzazione che, per ripetere il noto pensiero di Pietro Scoppola, era frattanto giunta di soppiatto, alle spalle, senza che ce se ne accorgesse. Rimane, la scuola, uno spazio occupato da una cultura delle tecniche di insegnamento, della valutazione, della gestione quasi aziendalistica; cultura spesso raffinata, ma in definitiva sterile.

    Paradossalmente anche la scuola privata-paritaria (ma anch’essa pubblica!) finisce per soffrire degli stessi mali, nella misura in cui è stata costretta a paradigmarsi compiutamente sulla pubblica-statale. Solo con grandi sacrifici e non senza compromissioni essa cerca di salvare l’anima, cioè la propria tendenza.

    È molto probabile che questo quadro sia più nero della realtà; che isole felici esistano in un arcipelago grande e complesso. Ed è sperabile che sia così. Ma non c’è chi non veda come i tratti essenziali di una situazione siano quelli sopra accennati.

    Come uscirne? Difficile dirlo, anche perché, come s’è detto, la crisi della scuola italiana in qualche misura partecipa della crisi dei sistemi scolastici di altri tra i Paesi più sviluppati, posto che fenomeni epocali quali la globalizzazione o l’avvento prepotente dell’informatica hanno stravolto le tradizioni culturali nazionali.

    Certo qualche punto fermo sembra doversi porre. Ad esempio richiamando la scuola al ruolo primario di agenzia educativa, insieme alle altre agenzie educative.

    Non pare più possibile pensare alle istituzioni scolastiche come meri strumenti di trasmissione di saperi, di conoscenze tecniche, di abilità teoriche e pratiche; non pare più possibile concepire la formazione scolastica come chiave per un più o meno immediato ingresso nel mondo del lavoro, pur senza sottovalutare la rilevanza di questo aspetto. Anche di fronte allo stupefacente e preoccupante dilagare di fenomeni di antisocialità minorile, addirittura di grave criminalità, è necessario recuperare una sana concezione dell’istruzione come parte dell’educazione della persona. Una educazione a rapporti corretti con gli altri, ad una pacifica convivenza, ad una robusta solidarietà, al senso del concorrere in una comune impresa, all’orgoglio – e sia detto senza rimpianti ideologici del passato – della appartenenza nazionale, all’apertura agli altri, ai diversi, a chi viene da altrove, a chi la pensa differentemente o professa un credo religioso diverso.

    Di qui deriva anche la (finalmente) piena acquisizione della Costituzione, nei suoi valori e nei suoi principi, come ideologia capace di fare da collante in una società, così diversa da quella del passato, qual è l’italiana odierna: pluralista, diversificata, ma anche meno eguale rispetto a stagioni che abbiamo ormai alle spalle. È, a ben vedere, il riemergere dell’antica idea mariteniana sul ruolo delle Carte fondamentali nelle moderne società pluralistiche e secolarizzate, alla ricerca di un credo umano comune capace di tenere insieme le diversità.

    È pensabile che il modo migliore per far vivere nella scuola valori e principi costituzionali non sia tanto quello di farli (solo) oggetto di una specifica materia di insegnamento, con il rischio di banalizzarli, quanto piuttosto di farli vivere nella scuola mediante una maggiore attenzione alle esigenze concrete degli studenti, grazie anche ad una migliore preparazione dei docenti e un più largo spazio al ruolo di altre agenzie educative, a cominciare dalla famiglia (ma anche la Chiesa).

    Cioè, in definitiva, occorre riportare la scuola alla società.

    La recente vicenda del referendum sulle riforme costituzionali, che ha conosciuto gli esiti che sappiamo, ha avuto quantomeno l’effetto positivo di risvegliare nel corpo sociale l’interesse per la Costituzione del 1948 e la sua conoscenza.

    È sperabile che non si perda questa opportunità, non si lasci infrangere sulla battigia questa onda di interesse, ma si colga la sollecitazione per riprendere un’opera formativa sui valori chiamati a reggere la casa comune.

    Nella scuola, e non solo.

    Giuseppe Dalla Torre

    LA FAMIGLIA IN TRANSIZIONE: SFIDE E RISORSE

    a cura di Daniela Barni

    La famiglia, oggi come un tempo, si trova ad affrontare transizioni chiave lungo il suo ciclo di vita, ossia passaggi cruciali innescati da eventi critici prevedibili (ad esempio, l’inserimento scolastico dei figli) o imprevedibili (ad esempio, il divorzio tra i coniugi). Tali transizioni, con il loro potere destabilizzante, agitano l’intero sistema familiare e ne mettono alla prova gli equilibri, facendo emergere con chiarezza la qualità (in termini di tenuta e flessibilità) delle relazioni. Tuttavia, a differenza di un recente passato, attualmente molte transizioni della vita familiare si presentano come denormativizzate, vale a dire caratterizzate da passaggi vieppiù sfumati e scarsamente ritualizzati. Nella società premoderna questi passaggi erano infatti inseriti all’interno di una struttura sociale e culturale che ne definiva chiaramente tempi e modi; esisteva un tempo propizio entro il quale il passaggio doveva compiersi e vi era un sistema di norme che regolava in modo ordinato la sequenza degli eventi che scandivano tale passaggio. Nella società italiana contemporanea i percorsi di transizione sono spesso determinati in maniera autonoma dai soggetti coinvolti e il passaggio, da momento normativo e corale, è divenuto un processo incerto e ritrattabile. Basti pensare alla transizione verso la condizione adulta che, oltre a essere oggi caratterizzata da tempi molto lunghi, è vissuta dai nostri giovani all’insegna dello sperimentalismo e di una reversibilità delle scelte sia sul piano lavorativo sia su quello affettivo. Ecco così che la famiglia si trova ad affrontare sfide sempre più impegnative, privata di forti riferimenti sociali condivisi. Ed è proprio la dimensione della privatizzazione che se da un lato pone in evidenza il ruolo centrale e insostituibile della famiglia nello sviluppo dei suoi membri, dall’altro ne costituisce una delle principali debolezze. Il sociale ha perso parte della sua capacità di attrarre fiducia, sfavorendo movimenti tra un dentro e un fuori dalla famiglia, tra un qui e ora e un là e allora, il che limita l’investimento su progetti a lungo termine. Ciò che paga pegno in questo scollamento tra famiglia e sociale (e che va dunque riscoperta) è la generatività, ossia il desiderio e l’impegno di prendersi cura della nuova generazione, che oggi finisce per assumere spesso forme perverse di puerocentrismo e iperprotezione nel rapporto genitore-figlio e latita nei confronti della comunità. Essa, come evidenzia Erikson nel suo celebre volume Identity: Youth and Crisis (1968), dovrebbe invece avere a che fare con attività prosociali, produttive e creative mosse dalla tensione di accrescere il potenziale della generazione seguente, di far sì che quest’ultima sia migliore della precedente. La tensione (letteralmente, tendere verso qualcosa ) è del resto ciò che consente di transitare da una qualsiasi condizione a una successiva e di farlo non in maniera casuale o caotica, ma orientati verso un obiettivo. Tale obiettivo nel caso della famiglia è il benessere, inteso come bene relazionale, prodotto e fruito (consumato se degenerativo, scambiato se generativo) attraverso e nelle relazioni.

    I contributi di questa sezione monografica ( L’alleanza genitoriale: una risorsa per il benessere in famiglie con figli in età scolare di Ranieri, Rosnati, Ferrari, Canzi e Danioni; L’adolescente e la sua famiglia: fattori di rischio e di protezione di Cacioppo e Correale; Le relazioni familiari generative come risorsa per la transizione all’età adulta di

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