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Un dolce malinteso
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E-book347 pagine4 ore

Un dolce malinteso

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Info su questo ebook

«I libri di Lidia Ottelli sono una garanzia di stile, divertimento e talento.»

Dall’autrice del bestseller Odio l’amore, ma forse no

La notte di Capodanno è da sempre considerata magica e sono molte le persone che aspettano il nuovo anno per rivoluzionare la propria vita. Scoprire di essere incinta non era esattamente nei piani di Clarissa, ma quando nove mesi dopo nasce una bambina la sua vita ordinaria viene completamente messa sottosopra. E così, per mantenersi, comincia a lavorare nella pasticceria della madre, che sembra avere l’unico desiderio di vederla sposata con qualcuno dei suoi clienti. Ma Clarissa è di tutt’altra idea. Per lei, ora, la priorità è prendersi cura di sua figlia, e di sicuro non ha tempo per gli uomini! Si è rassegnata all’idea di una vita senza amore e vuole proteggersi dalle delusioni. Il destino, però, sembra pensarla diversamente. È solo questione di tempo, infatti, prima che dalla porta della pasticceria si faccia avanti la persona giusta. E se invece fossero due? Proprio quando Clarissa aveva deciso di arrendersi a una vita di solitudine, Luca e Federico si contenderanno il suo cuore…

Un pizzico di ironia, tanta passione e colpi di scena a non finire

Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Finalmente una storia d’amore che mi ha fatto divertire come non mai!»

«Un romanzo che si deve gustare attimo per attimo fino all’ultima pagina, fino all'ultima riga, lasciandosi inondare dalle emozioni contrastanti che solo Lidia Ottelli è in grado di suscitare.»

«Una lettura pungente, frizzante e romantica.»
Lidia Ottelli
è nata nel 1976 in provincia di Brescia. Ha pubblicato alcuni racconti in antologie di piccole case editrici, è ideatrice del blog e della pagina Facebook Il Rumore Dei Libri e organizzatrice del Festival Romance Italiano. La Newton Compton ha pubblicato Odio l’amore, ma forse no, Fino all’ultimo battito e Emma in love.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2019
ISBN9788822734372
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    Un dolce malinteso - Lidia Ottelli

    1

    Perché chi lo fa l’ultimo dell’anno…

    Spiare qualcuno non è sempre un reato.

    Okay, magari sì, però io non spiavo come lo farebbe una molestatrice psicopatica o una stalker professionista, io spiavo perché non ne potevo fare a meno.

    Forse avrei potuto farne a meno, ma non ci riuscivo, era più forte di me. È dai tempi delle medie che lo guardavo da lontano. Finite le medie, non era cambiato nulla. Superiori, università. Ho sempre pensato di avere una strana forma di spiaggine acuta, so che non esiste ma è quello che io ho sempre pensato. Mi sono inventata questa malattia per non sentirmi troppo patetica. Sì, perché un po’ credevo di esserlo. Anni della mia vita ad amare qualcuno che non sapeva nemmeno che io esistessi.

    Certo, abitare nella stessa città, frequentare gli stessi posti e le stesse scuole non mi avevano di certo aiutato a dimenticare quei bellissimi occhi verdi, quei setosi capelli scuri (almeno, io credevo fossero così, non li avevo mai toccati), quello stupendo sorriso che faceva cadere ai suoi piedi tutte le ragazze e… quel culo che sembrava sempre gridare: toccami, guardami e toccami ancora.

    Peccato che il mio sogno erotico, Francesco Belli, non sapesse nemmeno il mio nome. C’eravamo incrociati una volta, no sto mentendo, da quando vivo a Milano ci siamo incontrati esattamente 1232 volte. Sì, le ho contate e mi ricordo anche cosa avesse indosso ogni volta.

    Sapevo tutto di lui. Il suo cibo preferito, le sue abitudini.

    Mio Dio, detto così è naturale che io sembri una malata mentale, me ne rendo conto, ma come si dice: quando ami qualcuno vuoi sapere tutto di lui.

    Be’, io sapevo tutto e anche di più.

    «Clarissa, stasera vieni alla festa di Viola?».

    Le feste. Ci andavo, a volte mi divertivo, a volte mi annoiavo. Non sono mai stata una di quelle ragazze tutto trucco, tacchi alti e poco cervello. Non ero mai stata una suora di clausura, sia chiaro, avevo avuto anche un ragazzo. Cioè, io l’avevo sempre chiamato il mio esperimento scientifico, lo so che è brutto da dire, ma Luciano era la mia valvola di sfogo. Non era un brutto ragazzo, ma non era in nessun modo paragonabile a Francesco. Luciano era più un ragazzo passabile. Lo avevo conosciuto a un corso di musica per caso. Abbiamo iniziato a parlare e dal nulla gli ho detto qualcosa tipo: «Voglio che mi scopi, perché sono stanca di essere vergine». Lo abbiamo fatto.

    Ai tempi, ero audace e stupida. Non così stupida da uscire o andare a letto con tutti. Luciano era simpatico, ma non era Francesco.

    «Ely, non mi va di andare a una stupida festa di Capodanno».

    «Nemmeno se ti dicessi che ci sarà anche un certo ragazzo?».

    Ely era la mia migliore amica (barra confidente, barra sorella, barra fan) e supportava la coppia Clacesco: Clarissa-Francesco.

    «Ne sei sicura?»

    «Oh, ci puoi giocare tutto quel che vuoi, mia cara! Francy stasera sarà alla festa di Viola e tu verrai. Ora usciamo a fare shopping».

    «Non chiamarlo così, sai che non mi piace».

    «Allora? Andiamo?».

    Ai tempi, non era difficile convincermi, soprattutto quando di mezzo c’era lui. Andai a fare shopping, mi conciai come un albero di Natale rosso a paillette e andai a quella stupida festa.

    La festa che cambiò totalmente la mia vita.

    La festa che scavalcò ogni mia immaginazione e che mi fece toccare con un dito la felicità e dopo poco cadere a picco in disgrazia.

    «Sei pronta?», mi domandò Ely.

    «Sono nata pronta».

    Prese due bicchieri e disse: «Così ti voglio. A noi. E che l’anno nuovo sia pieno di felicità e di grosse sorprese».

    Sorrisi e brindai… e brindai ancora e ancora, e ancora e ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e divenni ubriaca, allegra, ubriaca… L’ho già detto?

    Be’, credo di aver sfiorato il coma etilico un paio di volte, ma per fortuna riuscì, per mia grande sorpresa, a reggere un saccooo di alcol. Un’enormità di alcol. Un’impressionante vagonata di alcol.

    «Ely», ondeggiai vicino a lei, «devo andare a fare la pipì, la mia vescica sta per scoppiare».

    «Okay, ti accompagno», fece per alzarsi ma si rimise seduta, «credo di non riuscire ad accompagnarti», rise e io risi con lei.

    «Aspettami qui».

    «Va bene, capo».

    Ammetto che camminare su dei trampoli in quella situazione non fu facile, come non fu facile trovare il bagno, figurarsi trovare la tazza. Sapete, me lo chiedo ancora oggi se l’abbia mai trovata quella tazza. Mi sorge spesso un dubbio: che abbia fatto pipì nel bidet? L’origine di questo dubbio risiede nel fatto che lo sciacquone era un rubinetto.

    A ogni modo, riuscì a fare i miei bisogni e credetemi, con tutto l’alcol che avevo ingurgitato, quella sera il bagno sarebbe potuto diventare la mia casa. Tornai di sotto. Altra cosa che mi sono chiesta varie volte, con il tempo, è come abbia fatto ad arrivare di sopra. Ho solo dei vaghi ricordi di me che mi trascino su per le scale e che ogni tanto lecco i bicchieri degli invitati che erano più ubriachi di me. Ma credo sia una fantasia, o almeno lo spero.

    «Ehi», Ely mi si buttò tra le braccia, «dove sei stata? Ti credevo dispersa tra i meandri del WC».

    «C’era fila».

    Sì, come no.

    «Guarda chi c’è lì», si spostò e davanti ai miei occhi vidi lui. Splendido come sempre. Con una camicia bianca e pantaloni neri. Mio Dio, sembrava uno di quei modelli che stalkeravo sempre su Instagram.

    «Vai a parlarci».

    «Cosa?»

    «Che te frega! È solo, è ubriaco, tu sei ubriaca. Ricordi il detto? Anno nuovo, vita nuova».

    «Non posso…».

    «Oddio, Cla, hai vent’anni ed è almeno da dieci che lo insegui. Devi darti una mossa!».

    «Non riesco».

    «Vieni», mi prese per mano e barcollando mi piazzò davanti a Francesco.

    Cazzo, fu la prima cosa che pensai.

    Cazzo, cazzo, cosa faccio?, la seconda.

    «Ciao».

    «C-Ciao».

    «Avevi bisogno?»

    «Sapessi…», mormorò Ely.

    «No», dissi velocemente. Lui si spostò appena e io urlai: «Veramente sì!».

    Francesco si girò e gli dissi: «Volevo chiederti se ti andava di bere qualcosa…». Certo, come se non avessi bevuto abbastanza...

    Mi guardò per un secondo e rispose: «Sì, vieni…». Mi prese per mano e insieme andammo a un tavolo, dove i bicchieri vuoti erano di più di quelli pieni.

    «Tieni», mi diede un bicchiere di carta, che iniziò a tremare non appena lo afferrai. «Tu sei?»

    «I-io sono Clarissa, ma tutti mi chiamano Cla».

    «Piacere Clarissa, io sono…».

    «Francesco», sospirai quel nome. «S-scusa, sei famoso a scuola».

    «Veramente? Non lo sapevo». bevve un sorso. «Frequenti la mia stessa università?».

    In quel momento avrei dovuto umiliarmi, incazzarmi ma, alla fine dei conti, avevo sempre saputo che lui non mi aveva mai notato.

    «Sì».

    «Cla, ti va di ballare?».

    Mi girai d’istinto come se non lo stesse chiedendo a me.

    «Io?», chiesi scioccata.

    «Sì, tu».

    Apro una parentesi.

    Respirare.

    Perché respirare? Non serve respirare. Io in quel momento non respiravo eppure ero viva, o almeno lo speravo, perché se non fossi stata viva non avrei sentito le gambe tremare, la bocca seccarsi e gli occhi dilatarsi.

    «Okay».

    Okay, risposta di merda, ma non mi uscì nulla perché nulla avrebbe potuto avere un senso.

    «Se sto dormendo non svegliatemi», dissi a bassa voce prima di avvinghiarmi a lui in un lento che mi si tatuò sulla pelle.

    Stavo ballando con lui, mi stavo stringendo a lui, stavo annusando il suo profumo, stavo per morire, per morire felice. Se è un sogno, cazzo, non svegliatemi!, pensavo. Non ci volevo credere. L’amore di una vita stava ballando con me, cioè con me. Ero seduta su una nuvola rosa e lui accanto a me. Stavo volando. Avrei voluto che non finisse mai.

    Era tutto perfetto.

    Lui era perfetto.

    Io ero perfetta... più o meno...

    Il suo odore era perfetto.

    Ammetto, un giorno lo avevo seguito al supermercato e avevo acquistato il suo stesso bagnoschiuma, shampoo, gel, balsamo, crema per le mani, dopobarba… Oddio, ero messa male, ma male seriamente.

    «Sai che sei carina Cla?».

    Oddio, oddio. Stavo per svenire, o vomitare, o forse tutte e due le cose insieme.

    «Anche tu».

    Non respiravo.

    In quel preciso istante, capii che l’alcol era mio amico, la mia vocina interiore mi spinse e...

    «Francesco», feci un lungo respiro e buttai fuori tutto insieme, «tumipiaci».

    Lui non si mosse di un millimetro e con tutta la calma che può avere una persona ubriaca, mi rispose: «Anche tu mi piaci e ho voglia di stare un po’ da solo con te».

    Il mio cuore iniziò a battere così velocemente che non sentii altro. La sua mano sulla mia e il suo corpo barcollante che si spostava trascinandomi con sé erano le cose più romantiche che mi fossero mai capitate.

    Errori di gioventù, poi crescendo capii che ci sono cose molto più romantiche.

    «Vieni, entra».

    Mi ritrovai in una selva oscura… No, mi trovai in uno sgabuzzino buio e puzzolente, ma non me ne fregava nulla. Io ero con lui, con lui! Dieci anni della mia vita e finalmente il mio dolce sogno si stava realizzando.

    Quando le sue mani si posarono sui miei fianchi, il mio viso cambiò venticinque tonalità di colore. Poi mi baciò e sono pronta a scommettere che tutto il mio corpo cambiò colore.

    «Ti va di farlo?».

    Di farlo?, pensai.

    «Sesso dici?», chiesi non sicura della domanda di prima.

    «Sì», mi ansimò addosso.

    Sesso? Io e lui? Io sesso con Francesco? Io, io, cioè io? Pensai a una quantità impressionante di cose tra cui: Dio ha accolto le mie preghiere, il mondo sta finendo, sono l’unica donna rimasta sulla terra, sto ancora sognando, sono in coma etilico... mio Dio, mio Dio, mio dio!.

    Mi stava spogliando. Non ero terrorizzata, di più.

    Tutto quello era assurdo. Com’era possibile che il ragazzo di cui ero segretamente innamorata stesse per fare sesso con me? Come ero arrivata a quel momento? Ero in preda a un attacco di panico, misto alla voglia, misto al malore per l’alcol, misto a un sacco di cose che nemmeno sapevo cosa fossero. Ero completamente avvolta da lui.

    «Prendi qualcosa?», mi chiese.

    Prendo qualcosa? Certo che prendevo qualcosa. Ho preso qualcosa per tutta la serata… No, non era quello che lui intendeva. Ero così sciocca e ingenua.

    «Sì», dissi leggermente e mi ritrovai nuda davanti al suo corpo nudo, barcollante, e dal sapore di birra; tutto ciò mi stava ubriacando ulteriormente.

    «Vieni qui».

    E sesso fu.

    Non ricordo bene, ma so che non fu memorabile. Sapevo solo di amare quel ragazzo e tutto quello che aveva fatto per me era stato straordinario, anche se non lo era stato.

    Diedi la colpa all’alcol.

    Diedi la colpa a mille cose.

    Solo di una cosa ero certa: quella notte non l’avrei mai dimenticata. Perché chi lo fa l’ultimo dell’anno con la persona che ama non lo dimenticherà mai, per tutto l’anno e per molto di più.

    2

    La vita cambia

    Cinque anni dopo

    Ho sempre odiato tutti i modi di dire. Ma il peggiore che mi è rimasto in mente è senza dubbio Chi lo fa l’ultimo dell’anno lo fa per tutto l’anno.

    Be’, il mio motto da cinque anni a questa parte è Chi lo fa l’ultimo dell’anno, ed è ubriaco, si ritrova la vita complicata per il resto dell’anno e non solo.

    «Mamma, la zia Lilly ha detto che posso mangiare le caramelle per colazione».

    «La zia Lilly da domani non sarà più tua zia».

    «Perché, mamma?»

    «Perché, se continua a dirti cose assurde, morirà sotto le mie stesse mani».

    «Lo dici sempre, ma la zia è ancora qui».

    «Tranquilla amore, per poco».

    Avete capito, no? Chi lo fa l’ultimo dell’anno si ritrova la pagnotta pronta per tutto l’anno, e un figlio per tutta la vita.

    «Sei troppo rigida con Maia».

    «E tu sei una pessima zia».

    «Ma lei mi ama alla follia».

    Sospiro e aggiungo: «Lei ama i dolci e tu sei la sua fornitrice ufficiale».

    Mia sorella viene a sedersi vicino a me in cucina. «Ti ricordi da bambine? Non potevamo mangiare nulla perché papà non voleva. Come ti sentivi?»

    «Non potevamo mangiare tanti dolci. Papà è un dentista, lo sai che ci tiene a queste cose».

    «Sei noiosa come lui».

    «E tu sei in ritardo per il lavoro».

    Si alza di scatto esclamando: «Cazzo sono le otto!».

    «Lilly! Non davanti a mia figlia».

    «Va bene, va bene… Noiosa», e va verso la porta.

    «La zia ha ragione, mamma. Sei noiosa», e se ne va sul divano a guardare i cartoni animati.

    «Voi due mi farete impazzire», aggiungo, poi mi metto le mani tra i capelli.

    Questo bellissimo uragano è mia figlia Maia, concepita l’ultimo dell’anno e nata dopo nove mesi. Madre io, padre per lei sconosciuto, per me no. Nessuno lo sa, a parte mia sorella.

    La nottata più bella della mia vita si è trasformata nella nottata che mi ha complicato la vita. Amo profondamente mia figlia, sia chiaro, ma una ragazza di venticinque anni con un futuro diploma di architettura e poi di lavoro presso una nota azienda, si è trasformata in una ragazza madre con un lavoro nel bar pasticceria della madre. Ah, dimenticavo, abito con mia sorella. Single incallita con decine di uomini che le stanno attorno.

    Avete notato la cosa strana, vero?

    Mio padre dentista e mia madre pasticciera.

    Ma la cosa più strana è la mia vita.

    Tutto ciò che faccio, adesso lo faccio per Maia. Non vedo un uomo da mesi, forse da anni. Non esco senza di lei da quando è nata. Lei è tutto il mio mondo.

    Francesco? Be’, lui non sa nemmeno che esistiamo, come è sempre stato e come è giusto che sia. Io me la sono cavata da sola e lo farò fino a quando Maia avrà quarant’anni e forse allora le darò il permesso di innamorarsi di qualcuno.

    Quaranta mi sembra una giusta età per uscire con un uomo. Sarà difficile che rimanga vergine fino a quel giorno, ma ce la farò.

    Lo so, sono esagerata, ma in casa mia non voglio ragazzini ubriachi con gli ormoni a spasso tutto il giorno.

    «Maia, vieni andiamo in negozio», le urlo dalla cucina.

    «Sì!».

    «Non essere così entusiasta, la nonna dopo ti porta all’asilo».

    «Noiosa».

    «Ti ho sentito sai?»

    «È stata zia», ribatte dalla sala.

    «Zia è uscita dieci minuti fa».

    «Sarà l’eco».

    Ci rinuncio.

    Ci prepariamo per uscire e andare da mia madre in negozio.

    Mia madre… non è stata entusiasta quando la misi al corrente della gravidanza. Be’, credo che nessuna madre sarebbe entusiasta se la figlia venisse a casa un giorno e dicesse: Mamma, aspetto un bambino da un ragazzo che non conosci e non conoscerai mai.

    È stato uno shock per tutti, figuratevi per me.

    La più sconvolta fu mia nonna. Ebbene sì. Noi non abbiamo sempre vissuto qui, a Milano, in Italia. Prima dei miei dieci anni, vivevamo in Russia. Mio padre è mezzo italiano e mezzo russo, mia nonna è tutta russa. E non è un complimento.

    Rigida, spietata, con un obbiettivo nella vita: far sposare mia sorella e me con due gemelli russi di una nota società russa, non che suoi vicini di casa.

    Quando ha saputo che la nipote più piccola aspettava un figlio da uno sconosciuto, ha dato di matto. Mi ha insultato, almeno da quel poco che ricordo della lingua russa, credo mi abbia dato una trentina di volte della svergognata e della poco di buono.

    Non ce l’ho con lei, anzi, posso capirla in un certo senso.

    «Amore, siediti bene che ti devo allacciare la cintura al seggiolino».

    Si accomoda meglio.

    «Lilly ha detto che stasera mangiamo la pizza».

    «Solo se farai la brava all’asilo».

    «Io sono sempre brava».

    «Come no».

    Lilly sarebbe mia sorella Liliana, ma si fa chiamare Lilly perché odia il suo nome. Lei è l’unica persona della mia famiglia che ha accolto bene la mia gravidanza. Solo perché così, lei non è obbligata, essendo la più vecchia, a trovarsi un marito e a fare figli per accontentare i miei genitori.

    La sua mente è davvero contorta.

    Lilly ha tre anni più di me, vive con me e Maia e vuole diventare un esempio per mia figlia… sia chiaro: non glielo permetterò mai.

    «Maia, hai fatto il disegno che ti ha assegnato la maestra?»

    «Sì, mamy».

    Mia figlia è sveglia, anche troppo.

    Furba, anche troppo.

    Esuberante, anche troppo.

    Un tornado, anche troppo.

    Non so esattamente da chi abbia preso. Io non ero così alla sua età, almeno così mi ha detto mia madre. Maia è espansiva, forse come Lilly, allegra, come Lilly, rumorosa… come Lilly. A volte credo che sia figlia di Lilly.

    Francesco non era di certo intelligentissimo. Be’, io ero informata sui suoi voti e non era un genio. Mentre mia figlia sa già le tabelline e riesce a scrivere i nomi delle persone che conosce; ha solo quattro anni. Qui forse assomiglia un po’ a me… Per il resto, siamo diversissime: ha gli occhi del padre, i capelli del padre e persino il naso del padre. Questa cosa è parecchio frustrante.

    «Siamo arrivate».

    Il bar pasticceria di mia madre. DolceIncanto.

    Un nome al confine tra la delizia e la fantasia, tra i pasticcini e gli incantesimi, tra il dolce (io) e l’incanto (mia madre). Sì, perché mia madre è una di quelle donne che non esce di casa se non ha trucco e parrucco sistemato. Non va nemmeno a buttare l’immondizia se non ha le unghie perfette e le scarpe con un minimo di tacco.

    Insomma, il contrario di me.

    Non ho mai avuto la passione per la moda, ma da quando ho smesso di frequentare gli uomini, quindi da quando c’è Maia, il mio outfit è palesemente peggiorato.

    Sarà che non ho bisogno di essere bella per nessuno e non voglio essere bella per nessuno, dal momento che l’ultima volta che l’ho fatto sono rimasta incinta.

    C’era una volta… Dovrei iniziare così a raccontare la mia vita.

    Troppo scontato.

    Era un giorno di pioggia… No, pessimo.

    Forse dovrei iniziare con il dirvi che non ho una vita monotona, ho sempre un sacco di impegni e sono una donna in carriera. A dire il vero, ho un lavoro che non mi piace, una vita semi di merda, la mia carriera ferma alla notte in cui rimasi incinta del ragazzo della mia vita. Solo della mia vita, visto che per lui ero completamente invisibile.

    Ormai sapete che lavoro in un bar che è anche una pasticceria. Tutti con la cellulite, yuppy! Ma la cosa peggiore, sapete qual è? Non è una scelta, sono obbligata a lavorare per mantenere me e la mia piccola, anche se non è di certo la carriera che avevo sempre sognato.

    Mia madre, la mia adorata madre, ha pensato che assumermi nella nostra attività, potesse giovare al mio carattere chiuso e mi aiutasse a trovare un marito. Tutte cazzate. Purtroppo mia madre è una donna potente e, soprattutto, ricca, ricca da fare schifo. Non so perché lavori. Lei dice che la distrae, perché preparare torte la aiuta.

    Mio padre è un dentista! Tutti sanno che i dentisti non hanno di certo problemi economici. Le uniche due disgraziate siamo io e mia sorella.

    A me sta bene, non fraintendetemi, però io non voglio servire caffè e cappuccini per tutta la vita. La mentalità dei miei genitori è Ricchi sì, ma devi guadagnarti i soldi. Questo vale solo per me e Lilly, perché invece mia figlia è stata riempita d’oro. Mia madre le ha già comprato casa e le ha aperto un conto in banca.

    Entriamo nel bar dove mia madre, come sempre, ha preparato una miriade di dolci per Maia.

    «Buongiorno Clarissa, ciao Maia».

    «Buongiorno signora Nuovo, signor Nuovo».

    Saluto i clienti abituali sorvolando sui cognomi, che è meglio.

    «Ciao piccola mia», mia madre si fionda su Maia e la sbaciucchia, «ma quanto sei bella stamattina? Ti meriti un cannolo alla crema… grande così!», mima una misura sproporzionata.

    Maia abbraccia la nonna e le dice: «Sono bella come te!».

    Quanto è ruffiana… Questo lato l’ha sicuramente ereditato dal padre…

    «La mia dolce nipotina».

    Dolce e perfida.

    «Oh! Ciao anche a te, Clarissa», dice dopo dieci minuti.

    Meglio tardi che mai.

    «Ciao mamma».

    «Allora», si volta di nuovo verso Maia che ha già il viso pieno di schifezze, «sei pronta ad andare all’asilo? Stamattina

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