Un bar in piazza
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Anteprima del libro
Un bar in piazza - Michele Gaeta
INDICE
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Michele Gaeta
Un bar in piazza
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Se non fosse per la poesia le sere d’inverno in un paese di pescatori sarebbero quanto di più deprimente si possa immaginare.
Ma per fortuna c’è la poesia, la poesia della vita.
Poesia non è:
i cipressi che a Bolgheri alti e schietti
van da San Guido in duplice filar …
La poesia sta negli occhi di chi riesce a coglierla in quegli stessi cipressi che tutti gli altri vedono come semplici alberi.
Ci può essere poesia anche in un paese di pescatori, basta saper leggere la vita della gente semplice che riesce a cogliere il piacere di vivere là dove altri vedono solo noia e depressione.
Poesia è la vita di chi non potrebbe vivere altrove perché altrove non avrebbero una riva dove sedersi per rimirare un tramonto invernale.
Quella stessa riva che tutti i giorni li vede calare una barca in un mare sempre più povero.
Altrove non avresti il tempo di fermarti al bar in piazza con l’amico di sempre, dopo una giornata in mare, per bere un bicchiere di birra prima di rientrare a casa.
Una lunga bevuta per ricordare una vita insieme. Vite, identiche, consumate fra il mare e la famiglia. Due vite sovrapponibili.
Non c’è nulla che l’uno possa dire che l’altro non sappia già ma è bello dirselo.
Quel bar in piazza è il mio bar, ed è proprio lì che col tempo ho imparato a leggere queste poesie.
Il mio è il bar della villa di un piccolo paese della provincia di Bari, il cui nome si perde nella miriade di nomi di una qualsiasi cartina stradale perché non c’è nessun motivo per metterlo in risalto.
L’economia del paese si descrive con tre parole: pesca, industria e commercio.
Gli uomini lavorano presso un’industria farmaceutica o sono pescatori, le donne sono casalinghe o commesse.
I ragazzi che girano per le strade hanno al massimo vent’anni perché le scuole, dalla materna al liceo, ci sono tutte. Poi chi vuole continuare a studiare deve andare via e quindi non gira più in piazza.
Chi invece comincia a lavorare non è più un ragazzo.
Nei paesini del sud Italia le ville sono il centro della movida.
La sera si va in villa per incontrare qualcuno, ed in villa c’è sempre qualcuno da incontrare.
Fino ai primi anni sessanta nella nostra villa c’era solo la statua con i nomi dei caduti della Seconda Guerra Mondiale.
Ora c’è anche il mio bar: un’alternativa alla panchina.
Io sono passato dalle panchine della villa al bancone del bar perché le alternative sarebbero state la fatica del mare o l’alienazione dell’industria. Avrei potuto emigrare ma così avrei rinunciando a tutto.
Dal bancone del mio bar ho potuto rendermi conto che per quanto il paese sia cambiato rispetto agli anni sessanta, non si è mai scrollato del tutto abitudini e mentalità ataviche.
All’inizio gli unici ad entrare nel bar erano gli uomini adulti. Poi vennero anche i ragazzi, ma sempre maschi. Le donne non sono mai entrate, se non nei discorsi dei maschi, alternandosi al calcio. Comunque erano sempre o mogli e figlie o troie.
Le donne reali non entrano nel bar perché non hanno mai tempo da perdere. Le donne meridionali, se non lavorano, devono gestire la casa e accudire mariti e figli e, se lavorano, dopo il turno devono correre per gestire la casa ed accudire mariti e figli.
Questa è la mia vita e questo è il mio paese. Qualcuno potrebbe dire che è una vita vuota e anonima in un paese anonimo ma questi sono la vita ed il paese che ho imparato ad amare e non mi interessa di ciò che potrebbe dire questo qualcuno.
Ora, alla fine della mia attività, mi capita spesso di sedere al tavolino all’angolo e ripensare ai volti che ho servito rivivendo le loro storie.
Anche oggi, al tavolino all’angolo della sala, sorseggio il mio Cointreau e intravedo la villa attraverso vetri bagnati dalla pioggia.
Mio cognato dice che quel liquore ha un gusto anni ottanta. Sarà vero ma a me piace assaporare quel gusto e rincorrere i ricordi.
La luce soffusa dei lampioni crea un’atmosfera fiabesca, tipica delle piovose serate autunnali.
È la stessa atmosfera della sera in cui conobbi Diana.
- 2 -
Ero rimasto solo tutto il pomeriggio ed ogni cinque minuti mi chiedevo perché mi ostinassi a restare in attesa del primo cliente, mi sembrava di essere il tipico giapponese a difesa di una trincea dimenticata.
Quando ormai mi ero convinto che la guerra fosse persa si aprì la porta e comparve una ragazza.
Alzai lo sguardo dal bancone e la guardai muto passando dallo stupore alla curiosità.
Ripose l’ombrello di fianco alla porta.
Prima si guardò attorno, come se fosse capitata lì per caso, poi mi fissò quasi fossi un particolare di un quadro esposto.
Ero certo di averla già incontrata in paese anche se quegli occhiali da sole, tanto grandi quanto inutili, lasciavano immaginare ben poco.
Sotto il giaccone nero si intravvedeva un maglioncino ancora nero e un foulard rosa le cingeva il collo dandole un tocco di colore. Le gambe, belle, partivano da una gonna sobriamente corta per