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Effetto domino
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E-book636 pagine9 ore

Effetto domino

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Info su questo ebook

Quattro persone nel bel mezzo di una sregolata commedia romantica: Mira, Sandor, Maya e Roberto. Una giornalista a fasi alterne reduce da una relazione tossica, una libraia in fuga dall’altare, un romantico fotografo in collisione col padre miliardario e un avvocato che ogni notte cambia letto con disinvoltura e senza rimpianto alcuno. I quattro si incontrano per vie del tutto casuali in un piccolo bar di paese, il Domino Lounge Bar.
Effetto Domino racconta di immani complicazioni, amori più e meno ricambiati, colpi di scena (e colpi di cuore!), tenerezze e amarezze, ironica insolenza, saggezza spicciola e spirito quanto basta, brioso e buono come un caffè da leggere.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mar 2024
ISBN9791223016664
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    Anteprima del libro

    Effetto domino - Marica Modaffari

    Buon Viaggio. Sandor

    Pioveva giovedì notte. In quel nuovo paese non c’era nessuno.

    Era un po’ squallido anche se tutti su internet parlavano dei suoi tramonti e del mare. Di fatto era buio: quel posto alle tre del mattino era deserto.

    Nel tratto che separava la stazione dal centro cittadino non avevo incontrato nessuno. Ero zuppo e di malumore. La galleria di negozi che avevo oltrepassato per raggiungere il corso del paese era illuminata a stento e fin troppo ventosa. Avevo i capelli irriconoscibili, le mani gelide, le lenti a contatto bruciavano negli occhi ed era solo l’inizio.

    L’irritazione cresceva. Alcuni lampioni diffondevano una strana luce rosata, altri ancora erano biancastri e spettrali e faceva freddo, nonostante fosse marzo inoltrato. La valigia si arenò in una pozzanghera. Mi sfuggì un’imprecazione non troppo velata e mi voltai per estrarla dal pantano, quando la mia scarpa fino ad allora nera e pulita – andò a finire in un altro agguato acquoso. Imprecai ancora. Come benvenuto non era male.

    Controllai sul cellulare il nome della via in cui sapevo si trovasse l’appartamento che il mio nuovo capo aveva scelto per me.

    Via Regina Elena numero 3. Ero arrivato.

    E pensare che quello era considerato il viale principale della cittadina. Lampioni lattiginosi e pallidi, negozi di abbigliamento, un'edicola e poco più distante, a fare da angolo, un bar. Saracinesche abbassate e asfalto deserto. Tutto qua. Il mare, se davvero c’era, era lontano.

    Niente di grave finora comunque. Il palazzo non era nuovissimo ma neppure vecchio, avevo visto di peggio. Di certo non sarebbe stato come in Umbria ma il lavoro era pur sempre il lavoro e tanti saluti ai bei paesaggi.

    L’indomani mi aspettava la solita alzataccia. Non ero mai stato granché pigro però avevo sempre pensato che alzarsi alle sei era sbagliato, non salubre. Alzarsi ogni mattina alle sette per andare al lavoro era più che sufficiente, senza mettersi a fare l’allodola.

    Comunque. Mi era venuta voglia di una sigaretta; sì, stavo cercando di smettere, vero. Tuttavia, andare in un posto nuovo, piccolo, senza conoscere nessuno, mi suscitava un certo disappunto. Altrettanto vero che fumare non era una buona idea e a dirla tutta nemmeno mi piaceva; mi rilassava però e in quel momento ne avevo bisogno.

    «Un buon avvocato si riconosce da due cose soltanto», mi aveva sempre detto Teo, il mio vecchio capo, «Dal sorriso spavaldo di chi sa vincere qualunque causa e da una buona sigaretta in bocca».

    Accesi la sigaretta. Avrei ricominciato a smettere di fumare un’altra volta. Lungo la strada verso il mio nuovo appartamento però, mi era venuto in mente anche quello che aveva sempre detto Gina sin da quando ci eravamo conosciuti, cinque anni prima. «Smettila con questa cretinata, è come uccidersi un po’ ogni giorno».

    Gina. Non aveva idea di quante cose possono uccidere lentamente una persona senza che lo sappia. I legami sbagliati per esempio. Quelli piantati sul nulla, tanto per dire. E le pretese assurde. E la noia.

    Il fumo uscì dalla mia bocca in lente spirali e si aggiunse alla leggera condensa della notte in quel posto strano. Posai le valigie davanti la porta e cercai le chiavi. Un’altra boccata di fumo. Inspirai e mi guardai intorno. No, non ero più a casa mia. Ma in quel posto, che mi piacesse oppure no, avrei dovuto imparare a vivere.

    Bagnato fradicio e stanco morto arrivai al secondo piano. L’ascensore nemmeno a dirlo quella notte era fuori servizio. Chissà poi perché...

    Pensai che quando gira male, gira male e basta e continuerà a farlo fino a che tutto non sarà andato storto fino in fondo.

    Piuttosto rassegnato mi sbarazzai della sigaretta ancora, ahimè, a metà ed aprii la porta del mio nuovo appartamento.

    Mica male. A Perugia non era uguale, ma nemmeno migliore e, da quel che ricordavo dei miei anni a Terni, idem.

    A quel punto non restava che ambientarsi. Per un attimo pensai di prendere il cellulare e telefonare a qualcuno per comunicare il mio arrivo a destinazione, ma ricordai all’istante che non c’era nessuno da chiamare. Oppure no.

    Colto da improvvisa ispirazione accesi le luci del soggiorno e inviai un audio messaggio al mio collega di sempre, nonché quasi amico sin da quando ero solo una matricola alla facoltà di Legge: l’avvocato Giovanni Lazzi.

    Forse quel cretino mi sarebbe mancato.

    «’Sera Lazzo, sono arrivato. Questo buco è carino: mi pare adatta come nuova tana della belva. L’unica cosa strana è che stasera sono solo. Ma ho notato una specie di pub sul viale. Domani sera ti farò sapere con chi andrò a dormire. Spero solo che le donne qui non abbiano i baffi. Passo e chiudo vecchia volpe, saluti a casa».

    Quel vecchio scemo sì, mi mancava in effetti. Con lui avevo sempre condiviso una sorta di amicizia fatta di insulti, pacche sulle spalle, esagerazioni e drink. Forse troppi drink. Era colpa sua se avevo iniziato a fumare e colpa di Gina se avevo iniziato a smettere. Quei due non si potevano soffrire, era stato così sin da quando si erano visti.

    Con la mano ferma sull’interruttore del bagno pensai un attimo a loro. La mia ex ragazza e il mio sottospecie di migliore amico, nonché collega allo studio legale Socci di Perugia. Ambizioso il ragazzo.

    «Voglio diventare una belva di avvocato e finire i miei giorni allo studio Socci!», aveva detto quel buffone la prima volta che ci eravamo incontrati, diversi anni prima in ateneo. «Ah, piacere, Giovanni Lazzi», aveva finito col presentarsi dopotutto. E, da lì, non si era levato più di torno. Sin da subito ci eravamo scambiati appunti e ragazze; ogni tanto rubavo la sua macchina per portare fuori Alessia o Giada, Marina, Lisa o Angela e lui imprecava contro tutti i sette cieli e chiedeva vendetta al Padre Eterno fino a che, al mio ritorno, non finiva a cazzotti. E poi, offrimi una birra e amici come prima.

    A casa del Lazzo c’ero stato una miriade di volte: a studiare, a cazzeggiare, a smaltire sbronze. I genitori di Giovannino erano simpatici, educati e piuttosto permissivi. Mi ci ero quasi affezionato anche se non si capacitavano ancora di come potessi fare a vivere da solo.

    Quando conobbi Giovanni infatti, ero già autonomo. Vivevo per conto mio da quasi due anni. Daniele era già andato a vivere in Canada con Ester e poi chissà che fine aveva fatto, mentre io avevo optato per il metodo studente-cameriere che si paga la vita da sé, anziché piangersi addosso perché è solo come un babbeo in un posto all’improvviso vuoto.

    Gina invece era arrivata in tutt’altro modo. «Pronto. Buongiorno, parlo con lo studio legale Socci?», una voce femminile dall’altro capo del filo quando ero solo un tirocinante. «Sì, sono Livalsi, mi dica».

    «Vorrei fissare un incontro con il titolare dello studio, se non le dispiace. Mercoledì alle nove sarebbe l’ideale, se possibile».

    L’incontro fu fissato, il giorno dell’appuntamento arrivò e lei con esso, entrando in studio come una furia tanto turbolenta quanto minuta.

    Era piccola Gina. Alta all’incirca un metro e cinquantaquattro, stivali neri a mezza gamba e gilet rosso, lunghi capelli di un intenso castano chiarissimo e baschetto alla francese. Borsa quasi più grande di lei.

    «É lei Livalsi?» Avevo annuito e lei sorriso.

    «É bello vederla di persona. É stato tanto gentile, tanto quanto il suo capo è occupato». Aveva riso ancora e io avevo risposto. Poco dopo disse che voleva proporre alcuni articoli di arredamento per lo studio. A quanto avevo capito si occupava di un settore noiosissimo quale l’arredo per uffici.

    La condussi da Teo, ma lei, quella specie di piccolo folletto tondo e nervoso, aveva già puntato una preda ben precisa.

    E io, il quasi avvocato Livalsi, all’epoca più che tirocinante, non mi sarei mai tirato indietro.

    Sorrisi tra me di quei ricordi. Sembravano appartenere alla vita di qualcun altro. Osservati dal punto di vista del presente erano così strani, così lontani adesso che mi trovavo a chilometri e chilometri di distanza in un paese del Sud. La gente sarebbe stata cordiale? Il paese vivibile? I colleghi collaborativi o nullafacenti?

    «Sandor, tu di energia ne hai fin troppa. Non sono gli altri, sei tu. La gente non riesce a starti dietro. Pensi troppo e dici poco, fai abbastanza, ma solo quando pare a te». Ancora le perle di Gina. Pensai anche che quando di queste perle ne avevo avuto abbastanza – grazie alla saggezza di quella vecchia canaglia di Lazzo – avevo fatto rotolare via Gina dal mio letto e dalla mia vita. O quasi. Sì, perché di tanto in tanto, in particolare il giorno del mio compleanno, Gina non mancava mai di rendersi presente. Si auto-recapitava dovunque fossi, per offrirmi un regalo tutto suo.

    Fino ad adesso chissà come non avevo mai rifiutato, nonostante avessi chiuso con lei da circa tre anni e mezzo.

    Scossi il capo e aprii il rubinetto. Prima di gironzolare per casa dopo una giornata del genere era sempre meglio farsi una doccia. Mi sarei schiarito le idee.

    Decisamente più lucido e altrettanto bagnato di prima uscii dal bagno con un asciugamano in testa ed uno in vita. Pensai distrattamente a quali epiteti avrebbe riservato per me il Lazzo se avesse saputo com’ero conciato, ma me ne dimenticai presto, mettendomi a curiosare in giro.

    Prima non ci avevo fatto caso, ma l’entrata era ampia e ariosa, conduceva ad un soggiorno altrettanto aperto, il quale terminava con una vetrata che dava a sua volta su un balcone. Il balcone in muratura era dipinto di grigio e vi si accedeva tramite una porta finestra in legno chiaro. Lo detestai, sapeva di freddo e bagnato. L’entrata e il resto della casa invece erano tinteggiate di bianco, a esclusione del bagno, il quale era tinto di un elegante beige e della camera da letto, i cui muri visibili erano laccati di avorio e qualcosa che assomigliava al grigio tortora. L’appartamento era già arredato; i divani color crema facevano pendant in modo perfetto con le pareti. Avrei dovuto chiamare il proprietario quanto il mio nuovo capo per complimentarmi con loro delle ottime scelte. Dopotutto era stato lo studio Dati a fare carte false per ottenere la mia collaborazione, alzando la cifra del mio compenso di un paio di zeri.

    E mi aveva trovato pure casa.

    Al centro del salotto stava un tavolino dal ripiano in vetro. Il soggiorno dava su una porticina oltre la quale stava una modesta cucina, moderna e un po’ troppo metallica ma innegabilmente nuova, intonsa.

    Oltre l’entrata un arco senza porta conduceva alla zona notte. La prima porta che si incontrava era quella del bagno con una doccia spaziosa, piastrelline fastidiose con righe altrettanto fastidiose. La seconda porta dava sull’unica stanza che, nell’insieme, presentava un arredamento un po’ scarno: solo un divano e una scrivania. L’avrei usata per portarmi il lavoro a casa; decisi dunque che quello sarebbe stato il mio studio.

    Con la testa ancora gocciolante mi infilai in camera da letto. Dalla finestra mi accorsi subito che aveva smesso di piovere.

    Il letto era ampio e alto, come piaceva a me, un King Size : almeno quello non era cambiato rispetto alla mia vecchia tana. Pensai di essere stato viziato fin troppo negli ultimi anni, dopotutto i miei genitori avevano lasciato soltanto qualche debito e nemmeno un soldo, e di certo mio fratello non aveva mai inviato un centesimo né mai lo avrebbe fatto. Tuttavia, dopo la laurea la mia nuova posizione lavorativa mi aveva fino a quel momento concesso giusto qualche vizietto da mantenere, come un trattamento spa mensile con sauna finlandese, o sedute di massaggio balinese settimanali o ancora la mia bella macchina scura, il mio vero ed unico amore. Con un mezzo sorriso svagato di chi decisamente ha dormito troppo poco nelle ultime ventiquattro ore, aprii l’armadio fin troppo grande, con troppi specchi, di legno troppo chiaro per i miei gusti. Era tutto troppo. Sembrava quasi bianco.

    Nel complesso però l’effetto che faceva l’intera camera non mi dispiaceva. Mancava soltanto una Moira, una Mary, una Diana sul mio letto. A questo ultimo particolare avrebbe rimediato il tempo, mi dissi.

    Dalla parete di fronte a me, con un ronzio sommesso l’orologio appeso mi informò che erano quasi le cinque del mattino. Quel rumore mi infastidì parecchio: avrei rimosso quel maledetto coso appena possibile.

    Mi accorsi così che era arrivata l’ora di un’ultima sigaretta.

    Affacciato al largo balcone grigio ora che albeggiava e aveva smesso di piovere, con l’aria pulita che sapeva di terra e salsedine, il posto forse non faceva così schifo.

    Niente monumenti in vista, niente strade larghe, niente chiese immense. Solo il Duomo in lontananza, accanto a un altro edificio illuminato di luce chiara.

    A Est il profilo di qualche lontana montagna impallidiva man mano che il sole si faceva strada nel cielo.

    Rimasi impressionato a dire il vero, guardando da un lato il sole nascente e dall’altro la luna piccola e chiara, tonda, che svaniva nel cielo silenzioso. Non mi era mai capitato prima di osservare l’alba.

    Pensai per l’ennesima volta quella notte, che quel posto era strano. Non per forza in senso negativo, però era me che faceva sentire strano. Ebbi la netta impressione che le case, le strade vuote, gli alberi pullulanti di uccelli d’improvviso divenuti canterini nel bagliore rosato del mattino che avanzava, nascondessero un qualche segreto, in una casa forse, in un letto, sotto un ponte, dietro una porta chiusa...

    In quel posto, le albe e i tramonti, persino l’aria troppo tersa, decisi che avevano qualcosa di singolare.

    Mi accorsi di essere ancora scalzo e con un asciugamano in testa. La voce di Gina mi apostrofò da un irritante passato: «Fa’ qualcosa a quei capelli Sandor, o ti verrà un accidente. E poi si sfibrano se li frizioni così forte!»

    Il mio viso si contrasse in una involontaria smorfia. A me piaceva vivere come vivevo, fare quello che facevo, lavorare come lavoravo. Stare scalzo, mangiare tardi, bere abbastanza, rientrare a notte fonda e cambiare spesso ragazze. E pure frizionarmi i capelli.

    Guardai giù. La sigaretta stava per spegnersi. Il buio della notte era quasi del tutto sparito, sostituito dal grigiore del primo mattino.

    Diedi un leggero scossone a quel che restava della mia sigaretta e la cenere cadde giù, spinta dalla brezza leggera. Non ci feci caso, non ero in vena di fare l’ecologista. In lontananza udii il fischio di un treno in partenza. La stazione non era lontana.

    «Ma che caz…?», due piani più sotto, nel silenzio generale della strada deserta qualcuno aveva ricevuto le ceneri nonostante la quaresima stesse terminando. Mi sporsi leggermente per vedere chi fosse il fortunato.

    «Ma che razza di gente maleducata! E che schifo poi! È per persone come te che questo posto non cambierà mai!», mi urlò quella che si rivelò essere una pazza furiosa e maleducata dal basso. Era munita di una grossa valigia nera a pois bianchi. Mi innervosì.

    «Scusa tanto, ma che te ne frega, tanto stai partendo, no? Mica ci resti in questo posto del cavolo», mi sfuggì. Mi augurai che non stesse ascoltando, intenta com’era a darsi colpi sul capo per levar via quel misero pezzetto della mia ormai defunta sigaretta.

    La matta stizzita riprese il suo cammino dirigendosi a quanto pareva verso la stazione con la sua immensa e bizzarra valigia al seguito.

    Chissà se aveva dormito da qualcuno, magari stufa del suo vecchio fidanzato tornava a casa sua, inviperita e piena di roba in valigia come solo le donne sanno essere.

    Mi ritrovai a pensare con un certo disappunto, che se in quel dannato paese le persone erano tutte come lei, non sarebbe stato affatto facile.

    Chissà come, quella sensazione di fastidio indefinito, quasi un presentimento, mi seguì fin dentro casa, ma me ne dimenticai subito; era ora di prepararsi per il primo giorno nel nuovo studio legale.

    Così, asciugai finalmente i capelli, infischiandomene di quel che avrebbe detto Gina stavolta e, dopo aver indossato il mio miglior completo gessato, la camicia bianca e la mia cravatta preferita, semplice, blu intenso e senza disegni, uscii di casa con la mia ventiquattrore al seguito.

    Scendendo in strada mi scappò una risata, guardando la mia valigetta. Mi venne in mente l’immenso cofano di quella matta della cenere e pensai che la mia vita era di certo più comoda della sua. Mi sorprese una delle mie consuete impennate d’umore. Improvvisamente ottimista dopo una notte insonne, mi incamminai verso il bar all’angolo, dal quale arrivava un invitante profumo di caffè. Un ottimo espresso avrebbe fatto miracoli: mi avrebbe innanzi tutto dato una svegliata, oltre a lasciarmi un ottimo profumo addosso.

    Dalla vetrina intravidi il barista: capelli brizzolati sale e pepe, alto e robusto, certamente oltre la sessantina, sorriso gioviale. Almeno lui era simpatico di prima mattina. Chissà...

    Oltrepassai la vetrina e diedi un’occhiata all’insegna. " Domino Lounge Bar" c’era scritto.

    Entrai nel piccolo locale, luminoso, caldo e accogliente. Chissà per quale motivo, quel nome mi fece tornare in mente la sensazione di disagio indefinito provata in casa qualche ora prima.

    Domino come effetto, domino come reazione incontrollata, domino come crollo a catena.

    Scossi il capo, scrollandomi di dosso quella sensazione così scomoda.

    «Buon giorno giovanotto», disse il barista.

    «Buon giorno, un espresso per favore», ordinai in fretta.

    «Arriva subito, nel frattempo si accomodi», mi rispose faccia-simpatica.

    Davanti a me avevo un’intera giornata di impegno folle. L’ennesima che comunque segnava un nuovo inizio nella mia carriera.

    «Avanti avvocato Livalsi, ce la puoi fare», sussurrai tra me, bevendo il mio caffè che, come un dono del cielo del tutto insperato, era perfetto: dolce quanto basta, forte senza esagerare, intenso al punto giusto.

    Una valigia per due. Mira

    «Come " embè " ? È un casino!» La faceva semplice lei. Era stato così anche quella volta.

    «Dobbiamo aggiustare tutto! Tu devi aggiustare tutto o io ti ammazzo», avevo proseguito, agitata. Quella mattina tutto sembrava girare ostinatamente al contrario.

    «È che...», pausa. «Non c’è più niente da aggiustare. È tutto disfatto. Ecco, l’ho detto». La sua voce prima ferma, si era spenta in un pigolìo sommesso.

    Maya prima o poi mi avrebbe fatto prendere un accidente. Avevo pensato che quella, forse, sarebbe stata la volta buona.

    Avevo portato le mani alle tempie e preso a massaggiare i punti più dolenti. Non potevo sentire né reggere quello che mi aveva appena detto.

    Non si sposava più e io, di conseguenza, sarei stata la damigella d’onore di nessuno. Tra lei e Dennis era sopraggiunto un piccolo problema di nome Dario.

    Era arrivata la crisi, Dario l’aveva capita, Dennis non tanto. E nemmeno poi a torto.

    A farla breve Dennis, il fidanzato storico e inossidabile della mia amica, alias promesso sposo, aveva mangiato la foglia anche se non del tutto e Maya nel dubbio aveva mandato all’aria il matrimonio che sarebbe stato celebrato di lì a tre giorni. Il risultato? L’umore di Dario alle stelle e quello di Dennis... alle stalle.

    Maya era andata in tilt, aveva perso dei pezzi, in principio avevo seriamente creduto si trattasse delle rotelle ma poi mi ero ricreduta. Era il suo cuore a battere in senso contrario.

    Così ero partita per raggiungerla. Ero andata a sistemare tutto o meglio, a salvare il salvabile e recuperare lei per portarla lontano da quel posto in cui era andata a cacciarsi, o meglio, a tirarla fuori dai guai sorti per puro caso nel luogo in cui aveva scelto di vivere insieme a Dennis, prima del disastro.

    «Si può sempre ricominciare da zero e noi lo faremo, ancora una volta insieme, se ci impegniamo», le avevo ricordato allora, commuovendomi davanti alle sue lacrime confuse.

    Mi sembrava di sentirlo a volte il suo disagio. Un abbaglio così grosso faceva male: Dennis a pezzi e il suo senso di colpa, la decisione di mandare al diavolo anche Dario. Non doveva essere stato facile, ma il difficile spettava a me: annunziare il non-lieto evento a tutti quanti.

    «Oh, ti prego fallo tu, per me è un casino!», mi aveva incastrata, tra un singulto e l’altro. Ormai ero lì e dovevo farlo. Maledetto giorno e stramaledetto posto , avevo imprecato tra me, ma oramai dovevo portare a termine la missione. «No, cosa c’entra, per me è una passeggiata», avevo replicato, sarcastica.

    Detto fatto, tutti avevano saputo tutto. Per farla molto, ma molto breve, avevo dato appuntamento a tutti nello stesso giorno, e per poco non avevo causato un infarto di gruppo. Fatto sta che mi ero tolta il pensiero. Via il dente via il dolore ed eccomi di nuovo al capezzale della sposa fuggitiva.

    «Dobbiamo iniziare la ripresa», avevo dichiarato risoluta. La mia migliore amica si trovava nel caos più assoluto.

    Avevo preso il suo cellulare e lo avevo sequestrato. Chiuso, irraggiungibile, morto.

    Secondariamente avevo provveduto a raccattare dall’abitazione tutta la sua roba, spedirla di nuovo in paese e avevo provvidenzialmente eliminato dal bagaglio ricordi, regali e regalini di varia provenienza amorosa.

    Subito dopo avevo portato Maya a bere una birra davanti a una pizza fumante e lì avevo tentato di farla parlare un po’.

    Fatto ciò non restava che vendere l’abito su eBay, ma quello era compito mio. Restava solo un punto dolente. Il viaggio di nozze.

    «L’ho pagato io», aveva detto lei.

    «Bene. Allora sfruttiamolo no?»

    Con quello che restava del mio stipendio di scribacchina a fasi alterne, unito ai soldi ricavati dalla vendita di abito, scarpe, bomboniere e parure da sposa, ecco che eravamo riuscite a saldare i piccoli debiti di lei ed eravamo prontissime per una partenza del tutto inaspettata, almeno per me. Bora Bora e Sharm el Sheikh. Due settimane.

    Una favola. Era stato un viaggio splendido.

    Maya aveva quasi ritrovato se stessa e il suo sorriso. Solo due cose erano andate storte: le varie telefonate dei due uomini bidonati dalla mia migliore amica e le chiamate di quello che si potrebbe definire il mio ex fidanzato.

    «L’hai rifatto», avevo ribattuto furibonda al telefono. «Ti è sfuggita di mano la situazione e a me non va più di sopportare il tuo comportamento da idiota. Senza rancore ma ho scelto di andare avanti da sola».

    Avevo riattaccato.

    Maya, per parte sua, non aveva spiccicato parola.

    Il problema non ero io. Il problema non era l’affetto mancante o l’amore scadente. Il problema era che il mio ex fidanzato aveva qualcosa di profondamente idiota nel sangue.

    Da circa un anno vivevo da sola in un appartamento situato nel centro storico del paese, precisamente in un vicoletto chiamato con l’antico nome del borgo.

    Appena appena un buco con ripostiglio. Entrata con divano incorporato, cucinino claustrofobico, bagnetto per gli gnomi, camera da letto mezza decente, sottospecie di camera-deposito in disuso e niente più. Un piccolo arco all’entrata, una tinteggiata allegra insieme a Maya, tante foto alle pareti, un vecchio massiccio portone ed una finestra troppo piccola per i miei gusti. Niente di che, ma era tutto quel che potevo permettermi col mio misero stipendio a singhiozzo.

    Elia veniva a trovarmi spesso, tuttavia non era sempre lucido. Fumava ogni giorno una sostanza diversa e annaffiava il tutto con qualunque cosa fosse alcoolica. Poi bussava, mi chiamava con i nomi di qualche altra tossica che aveva frequentato in mia assenza, litigavamo, puntualmente gli chiudevo la porta in faccia, fino a che non mi subissava di telefonate, tornava da me, lucido stavolta, mi chiedeva scusa, diceva di amarmi, restava con me a parlare per ore, ed io, stupida come una scolaretta lo perdonavo, dicendo a me stessa che era innamorato e sciocco, proprio come me. E per giunta pensavo non fosse del tutto colpa sua. Il vero problema era mio, questo lo stavo capendo gradualmente.

    Il dilemma stava nel fatto che essendomi innamorata di lui sin da quando ero a malapena una ragazzina, quel vecchio amore stantio e maledetto, così sbagliato, mi era entrato nel sangue e non riuscivo più a sbarazzarmene, nonostante sapessi che una relazione così un vero futuro non l’avrebbe mai avuto.

    Avevo così continuato a vivere di pie illusioni fino a che l’ennesimo litigio non mi aveva fatto talmente male da lasciarmi stordita. Gli avevo detto allora che tra noi quella cosa terrificante che chiamavamo rapporto era giunta al termine e che partivo, sì, all’epoca avevo mentito, ma poi era arrivata per davvero la chiamata di Maya. E c’è chi dice che la provvidenza non esiste!

    Così, da allora le chiamate e gli sms si susseguivano senza sosta, ma oramai sia io che la mia amica eravamo sulla via della redenzione. Stavamo entrambe disintossicandoci da un brutto colpo della vita, ed eravamo convalescenti, entrambe single, entrambe con la stessa sfiga addosso. Ma era una sfiga meravigliosa, una sensazione stupenda quella di sentirsi sfigate a Sharm el Sheikh!

    «Ora basta. Chiudiamo i telefoni», aveva proposto lei, rigirandosi nell’acqua.

    «Sì, così i miei contattano la Farnesina», avevo replicato stancamente.

    Maya per tutta risposta si era lanciata in una stucchevole arringa a favore del mio ex, lasciando trasparire però un feroce rimprovero alla sua stupidità perenne.

    Da parte mia non avevo ascoltato granché. Ero molto più interessata a riflettere su come fosse stato possibile per lei mandare a quel paese non uno ma ben due uomini in contemporanea. Del resto l’avevo sempre saputo che ciò che Maya vuole, Maya osa tentarlo. E il problema era che ci riusciva sempre.

    Mi avrebbe fatto ammattire prima o poi. Dennis e Dario si sfogavano con me molto spesso. Avevo sempre tentato di troncare ogni rapporto, ma le telefonate non erano ancora cessate del tutto.

    Dennis non si capacitava ancora di come era potuto capitare proprio a lui di esser piantato sull’altare dalla sera alla mattina.

    Dario non riusciva a spiegarsi il motivo in virtù del quale era stato sapientemente scaricato, nonostante il matrimonio fosse andato a farsi benedire proprio a causa sua. Pensava di aver vinto ma non era così. Aveva solo dato una mano al destino a mio parere.

    «Sarebbe successo comunque», avevo consolato la mia amica, la quale aveva terminato di tessere le lodi del mio ex ragazzo e adesso mi fissava alla luce del tramonto egiziano dei nostri sogni.

    Alla fine l’avevo convinta a lasciar perdere. Non sarei mai tornata con Elia. Così come lei con Dennis. È che certe cose bisognava lasciarle perdere e basta. Ce ne stavamo convincendo sempre più entrambe.

    «Nel frattempo che ne dici di un cocktail a bordo piscina?», era stata l’unica cosa che mi era venuta in mente in quel momento.

    Il ritorno chiaramente era stato traumatico.

    Erano le cinque del mattino e dopo il sole dell’Egitto mi accolse il cielo plumbeo di un mattino grigio dopo una nottata di pioggia.

    La valigia pesava da morire e il pullman che avevo preso dall’aeroporto fino al paesino in cui vivevo mi aveva lasciata in centro città.

    Dovevo passare per prima cosa da casa dei miei o avrebbero assoldato un cecchino e mi avrebbero fatta fuori.

    La strada che passava dalla stazione era senz’altro la più breve anche se non la migliore.

    Attraversai così il corso principale della cittadina ancora addormentata, senza far caso a quelle poche persone che, mattiniere, si affrettavano ad andare al lavoro.

    Lungo la strada incontrai giusto qualche deficiente di quartiere, ma ciò bastò a far peggiorare il mio umore già di per sé instabile.

    Borbottando contro la malasorte mi fermai per un caffè in un locale mai provato fino ad allora, dal momento che si era rivelato l’unico aperto così presto.

    Il vecchio bar che faceva da angolo nella strada dell’incrocio centrale.

    Entrai e il barista, un tipo simpatico di mezza età, mi accolse con un sorriso fortunatamente più caldo della temperatura esterna.

    «Buon giorno signorina, dove va così presto?», mi chiese gioviale, avvicinandosi per prendere l’ordinazione.

    «Torno dall’Egitto. È difficile da spiegare, ma è comunque traumatico», sospirai e cedetti a un mezzo sorriso, vedendo gli occhi dell’uomo illuminarsi di comprensione e divertimento al tempo stesso. «Mi scusi, buon giorno a lei e... Un cappuccino per favore», terminai.

    «Mi chiami pure Tom e mi dia del tu. Io farò la stessa cosa. Perciò accomodati, il tuo cappuccino arriva subito», mi sorrise quell’ometto gentile, e io, esausta e infelice dopo una vacanza pressoché perfetta, mi ritrovai a raccontare allo sconosciuto dal viso gentile e saggio tutto quell’immenso casino che iniziava col nome di Maya e terminava con quello di Elia, passando per l’Egitto e Bora Bora e tutto il resto.

    «Interessante», commentò lui dopo avere sul serio ascoltato tutto, portando via la tazza di cappuccino oramai vuota. «E dopo questo sei ancora viva?», chiese poi con un mezzo sorriso complice.

    Annuii. «Non so come».

    Tom rise forte. «Hai del coraggio ragazza mia. Fidati di questo vecchio. Quel tipo non fa per te. Trovati un vero uomo, non un idiota incapace di controllarsi. E quanto alla tua amica... pensa pure quello che ti pare, ma sarebbe successo in ogni caso e poi molto meglio capirle prima certe cose. Sarebbe stato molto peggio se lo avesse sposato senza amarlo, non credi?»

    Detto ciò si allontanò e io mi congedai. Quel tipo mi piaceva. Quel posto mi piaceva. Non ci avevo mai fatto caso, ma quel piccolo angolo di mondo era sempre stato lì e quel tizio molto probabilmente ci lavorava da una vita.

    Com’è strano vivere: per novantanove giorni non fai caso a qualcosa che hai sotto il naso e il centesimo giorno quel qualcosa, appena lo noti ti apre un mondo, ti rallegra il cammino e magari ti illumina anche la giornata.

    Testa e cuore in fiamme. Maya

    «Adesso la chiamo», armeggiando col telecomando e borbottando senza sosta spensi il televisore e afferrai il cellulare. «Maledetto posto di merda, maledetti tutti, stramaledetta me! Pronto, sei arrivata?»

    «Innanzi tutto buon giorno anche a te». Mira rispose al primo squillo. Riuscivo a sentire la sua preoccupazione a miglia di distanza. Il fatto che non fossi tornata in paese insieme a lei le avrebbe tolto il sonno per un bel po’. Non avrei voluto farla stare in pensiero, ma non era tutto così semplice.

    Lei aveva una sottospecie di lavoro da portare avanti laggiù e io dovevo sistemare giusto qualcosa stando dove stavo, prima di tornare a quella che in effetti era la mia vera casa: la piccola città in cui avevo vissuto fino a poco tempo prima, la stessa città in cui avevo conosciuto Mira, avevo cominciato i miei studi e tutto il resto.

    Mi restavano ancora due cose da fare: dare le dimissioni dal mio lavoro in libreria e prepararmi psicologicamente a tornare a casa dai miei dopo quanto era accaduto.

    Ci pensai su un momento. Lasciare la libreria sarebbe stato davvero doloroso, ma in quel periodo, dolore più dolore meno... è che quel lavoro lo amavo con tutta me stessa, tanto quanto amavo i libri in generale.

    Quanto ai miei genitori...

    «Non ce la faccio, ti prego dimmi che posso venire a vivere con te», chiesi a bruciapelo, conoscendo già la risposta.

    «Solo se mi aiuti a tinteggiare di giallo il portone», disse la mia migliore amica.

    Non era esattamente quello che mi aspettavo ma fui ugualmente sollevata.

    «Affermativo. Verrei anche a costo di dipingerlo a pois. E a proposito, ieri dal parrucchiere ho tinto una ciocca di verde. Che ne dici?», buttai lì, a caso.

    «Che non si abbinerebbe al portone», fu la lapidaria risposta.

    «È per questo che siamo amiche; amo il tuo senso dell’umorismo anche se lo trovo agghiacciante a volte. Torno presto, ti voglio bene... e prepara il letto per me». Riagganciai.

    Mira era davvero la mia migliore amica. Avere una ciocca verde e non doversene pentire era qualcosa che ti faceva sentire una persona del tutto nuova, diversa. Una ciocca a volte può cambiare la prospettiva della vita.

    Ricominciai perciò la selezione della poca roba rimasta che avrei dovuto portare con me a casa di Mira. Certamente avrei passato qualche giorno anche dai miei, però ero certa che alla fine non avrei retto la pressione.

    Avevo bisogno di stare da sola con la mia amica. Lei in genere faceva poche domande ma ben mirate, molti commenti sanguigni ma a ben vedere pieni di buona volontà. Era un animale molto protettivo e territoriale ed era da sempre stata pronta a difendermi o a cacciarmi da eventuali casini, a seconda dei casi.

    Ultimamente però, era stata costretta a correre da me per levarmi dai pasticci più del solito.

    Da parte mia, avevo riparato portandola con me in quella che lei chiamava la luna di fiele visto come erano andate le cose tra me e Dennis.

    Del resto non potevo farci nulla. Solo lei sapeva tutto fino in fondo, così come solo io sapevo quanta colpa avesse Elia in tutta quella sua storia sventurata. Avevo sempre voluto bene a quel gran zoticone, ma solo perché lei ne era innamorata persa sin da quando eravamo praticamente due poppanti. Si erano conosciuti da piccoli e da allora avevano accumulato una pila interminabile di errori di valutazione che li avevano portati a mettersi insieme sotto la legge sfiancante del tira e molla, giustificato da un amore piuttosto ammalato, il quale si era poi consumato tragicamente da sé.

    Sì, volevo bene al deficiente, ma non perché lo meritasse. Solo perché volevo bene alla sua ragazza, la mia migliore amica sin da quando ricordo di averne avuta una.

    Ne avevamo passate tante, ma gli ultimi mesi erano stati davvero un susseguirsi di disgrazie alle quali avevamo fatto fronte insieme, come al solito. Pensai che uno dei nostri tanti segreti era quello di sapercene fregare al punto giusto delle cose, di mettere al primo posto il nostro rapporto e il nostro benessere, insomma saper escludere arrivati a un certo punto le cose superflue, per lasciare a noi lo spazio di respirare quando tutto diventava semplicemente troppo.

    E il troppo sia per lei che per me era arrivato da almeno un mese.

    Sharm el Sheikh a parte era stata tutta una tragedia. Elia e le sue sciocche telefonate da cretino pentito, il quale, come una perfetta nullità sbronza, tentava in continuazione di far credere a Mira di essere ancora la persona limpida e soprattutto sobria che lei aveva conosciuto, ma per fortuna con scarso successo.

    Il mio matrimonio andato in fumo e, ciliegina sulla torta, per causa mia. Ma non era abbastanza. I miei due filarini per dirla a parole della mia degna compagna di sventura, si erano alleati l’uno all’insaputa dell’altro per rendere la mia vita un inferno di senso di colpa.

    Ma, come Mira spesso mi ricordava, cosa potevo farci se mente e cuore non vanno mai di pari passo? Cosa potevo fare se non amavo più l’uno per poterlo sposare e amavo troppo poco l’altro per poterci costruire qualcosa?

    L’unica cosa che mi consolava era pensare di esser stata onesta fino in fondo. Dennis meritava la verità, dopo tutto il tempo passato insieme a lui non avrei mai mentito.

    Restava il fatto che mi sentivo divisa fin nel profondo.

    Il cuore adesso libero cantava una nuova canzone. La canzone del tutto nuovo e tutto da rifare, la canzone che canta ancora la fiducia in un avvenire bello e pieno di luce e non quell’autunno di rassegnazione che era diventata la mia vita negli ultimi due mesi.

    L’altra parte di me purtroppo non la pensava esattamente così. Si sentiva sciocca, idiota ad aver giocato tutto e tutto perduto. Si sentiva profondamente in colpa per il duro colpo inferto a Dennis, in fondo così buono e allo stesso tempo si chiedeva ancora se aver scaricato Dario fosse stata la scelta giusta o meno, se tutto quel casino era valso la pena, se tutta quella sofferenza taciuta fosse stata un immenso castigo ricevuto per chissà quale peccato.

    A conti fatti però, era pur vero che con Dennis non sempre tutto era andato liscio. Il tempo era stato un fattore letale per il nostro rapporto. Lentamente sembrava che il premuroso ragazzo che da molti anni viveva con me si fosse dimenticato di ogni cosa che ci legava. Il vuoto tra noi era diventato sempre più grande, fino a che un giorno, Dario non era spuntato dal nulla, coprendo tutta quella distanza che il mio cuore aveva scavato per difendersi dal dolore del distacco e mettendo a soqquadro ogni cosa, scaraventando via le mie certezze.

    Dennis, dal canto suo, si era accorto di ciò che stava accadendo e il suo cuore si era svegliato in tutta fretta, ricordandogli il perché mi amava e perché aveva scelto di sposarmi, ma ahimè tutto questo accadde decisamente troppo tardi, quando l’uragano Dario aveva già dato man forte al destino e devastato quel mio povero cuore troppo addormentato per non dover affrontare una sofferenza inaccettabile.

    «Fai pace col passato e fai pace col cervello», mi aveva spesso ripetuto Mira nell’ultimo periodo.

    Come me si preoccupava per la sanità mentale di entrambe, messa a dura prova dagli eventi degli ultimi mesi.

    Respirai a fondo e gettai nella pattumiera persino i vestiti che indossavo al mio primo appuntamento con Dario. Non volevo più neppure vederli. Adesso era ora di riprendersi: cuore aperto, cuore libero. Era il momento di tornare a essere chi ero, fosse pure in un piccolo paesino di provincia quale era il mio paese natale.

    Fosse anche convivendo con la sensazione di aver toccato il fondo. A ogni costo avrei risalito la china, dal momento che avevo qualcuno sempre accanto a me, che era sempre lì, soprattutto quando i miei casini sorpassavano l’umano buonsenso.

    Lasciai che la prima parte della mattinata passasse lentamente, senza scossoni.

    Andai per l’ultima volta alla cara lavanderia dell’angolo. Una volta ci avevo persino mangiato lì dentro...

    Attesi con pazienza che il bucato da portare con me fosse pronto prima di tornare a casa e metterlo in valigia. Restava poca roba oramai.

    Nell’attesa rimasi a leggere un buon libro. Molte volte, nei momenti di crisi un libro può salvare delle vite. Lo dicevo sempre anche ai miei clienti della libreria.

    Mi sarebbe mancato tutto quello, mi sarebbe anche un po’ mancata la me che ero diventata in quel posto. Se sarei mai tornata non lo sapevo proprio. Sapevo solo di dover tornare indietro, di dover rifare la strada, di dover ricominciare, di dover spegnere le fiamme che avevano invaso testa e cuore senza risparmiare niente, lasciandomi esausta e bruciacchiata. Meno male che la mia amica aveva un idrante e l’incendio — specie dopo la nostra vacanza — si stava lentamente spegnendo.

    Tornata a casa la richiamai. Mi raccontò che stava andando alla bottega del Duomo a comprare le scatolette per il nostro gatto, o meglio, per quello che fino ad allora era stato il mio gatto.

    «Sai che ho trovato un posto davvero carino per prendere un caffè?», mi raccontò tra una chiacchiera e l’altra.

    Le dissi che doveva portarmici una volta tornata. Mi parve strano. Sia io che lei conoscevamo il paese come le nostre tasche, dopo i molti vagabondaggi senza meta fatti da adolescenti e anche dopo.

    «È sempre stato lì, all’angolo tra la piazza e il corso. Non mi ero mai accorta di quanto fosse carino. E il barista, sapessi che persona simpatica. Non so, sembra avere una risposta per tutto, magari ha la chiave di tutto questo casino, che dici?», mi disse poi tra lo scherzoso e lo speranzoso.

    Mi scappò da ridere. Oramai eravamo a un punto di non ritorno; la chiaroveggenza saremmo state capaci di scorgerla persino in un bar dall’aria vetusta e deserta come quello dei miei ricordi. Decisi che ci sarei andata dopo tutto. Un buon croissant e un vecchio saggio avrebbero fatto bene anche a me; avrei solo dovuto sopravvivere per un’altra settimana.

    Fotografie dal presente. Roberto

    Il bello di questo paese era il clima splendido. Anzi, a pensar bene il bello era dappertutto.

    Il tramonto ogni giorno uguale e diverso, la luna alta nel cielo alle quattro del mattino, la quiete serale nelle strade poco frequentate, il lungomare con le sue palme e i pini marittimi, i lampioni nei viali che davano un’aria un po’ retrò agli edifici attorno.

    La chiesetta vicino al mare fatta di tante vetrate, che a un certo orario si illuminava di una luce a dir poco meravigliosa proveniente dalla spiaggia. E la battigia... un mare lungo e sabbioso, candido e pieno di minute conchiglie. Quel posticino era l’ideale per un fotografo come me.

    Più passava il tempo e più mi rendevo conto di aver fatto la scelta giusta. La mia vita stava di colpo diventando meravigliosa. Passeggiando per il paesello che alla fin fine non era nemmeno così piccolo, apprezzavo ogni giorno di più tutto quel che c’era da vedere e, per quel che mi riguardava, da fotografare.

    Il centro storico nel quale stavo passeggiando era pieno zeppo di casette e casupole sia antiche che recenti. Ok, magari non era tenuto con perfetta attenzione, ma lo trovavo bello così com’era. Per me era pittoresco, da fotografare in tutti i suoi vicoli, nelle sue stradine e nelle viuzze che davano sul grande porto. Quel paese per me era una cartolina tutta da visitare.

    Mentre ero ancora assorto nei miei pensieri, d’improvviso una finestra al piano terra di una costruzione a due piani si spalancò con una certa violenza, in quella tarda mattinata di marzo in cui il sole splendeva raggiante, dopo una nottataccia di pioggia intensa.

    «Oh, mi scusi, le ho fatto male?», una ragazza dai capelli spaventosamente scarmigliati si affacciò con un certo dispiacere a controllare che i miei denti fossero ancora al loro posto.

    Minimizzai, ma mi ero preso uno spavento degno di nota, dal momento che ero completamente perso nella mia testa di fotografo/poeta innamorato.

    Portai una mano al viso, metà per ripararmi da un raggio di sole e metà per proteggermi dalla sconosciuta turbolenta. Mi bastava un rumore molesto per andare in panico. Ultimamente ero piuttosto eremitico e silenzioso.

    «No, davvero, tutto apposto non si preoccupi. Buona giornata», rassicurai la ragazza e proseguii.

    Nel frattempo un gattino le era balzato sul davanzale e lei lo stava grattando dietro le orecchie con grande soddisfazione del micio che faceva le fusa. «Su su piccino, la mamma torna tra pochi giorni», sussurrò la ragazza al micetto.

    Rimase affacciata a osservare la stradina di terra battuta del centro storico e, proprio mentre mi allontanavo per scattare una foto all’unica chiesa del piccolo borgo, ecco che il mio cellulare prese a squillare fastidiosamente.

    Quella mattina non c’era proprio verso di lavorare in pace. E sì, perché nonostante le pressioni familiari e nonostante la laurea in economia e commercio, di mestiere di fatto facevo il fotografo.

    Avevo da qualche mese aperto uno studio fotografico non lontano da casa, poco distante dalla zona in cui vivevano mio padre e la sua compagna. Mia madre dopo il divorzio costato fior di milioni era tornata in Irlanda dalla sua famiglia.

    Vivevo da solo e viaggiavo spesso in giro per l’Italia e a volte anche all’estero, seguendo fiere itineranti di cerimonie nuziali ed eventi di vario tipo, oltre che convegni per professionisti e la perenne caccia ai contratti di partnership con studi di wedding planning.

    La mia vita era sempre più bella come ho detto e tale bellezza cresceva in proporzione a quanto mi allontanavo dalla mia famiglia d’origine. Soltanto mia madre ahimè aveva da sempre appoggiato le mie aspirazioni artistiche e la mia passione per la fotografia, la quale era cresciuta con me. Mio padre, dal canto suo, riteneva la mia inclinazione per l’arte una stupidità bella e buona, un colpo di testa che lui chiamava tentativo di indipendenza, il quale, secondo lui, si sarebbe esaurito in capo a qualche mese. I fatti però differivano dalle sue previsioni, con mia grande soddisfazione. Avevo iniziato vari corsi e master in fotografia diversi anni prima e adesso avevo uno studio tutto mio, i cui affari andavano discretamente.

    Il denaro in ogni caso non era mai mancato. La famiglia di mia madre infatti era molto ricca da generazioni e mio padre be’, era un imprenditore di quelli che possiedono metà del paese nel quale scelgono di vivere.

    Mio padre non comprava mai casa senza prima aver comprato buona parte della città. Rilevava attività decadute o fallite, rimodernava locali, rilanciava iniziative, assumeva personale, investiva capitali, riorganizzava le strategie di vendita con la sua infallibile squadra di esperti di marketing e immancabilmente viveva di rendita, costruendo ogni giorno quell’impero di famiglia che aveva sempre sognato e del quale i miei fratelli erano entrati volentieri a far parte.

    Ma non io. Ecco dunque spiegata la causa della mia laurea, avvenuta in tempi rapidissimi tra l’altro, in economia e commercio. Da me ci si aspettava partecipazione, collaborazione, fiuto per gli affari e passione per i soldi. Ma ahimè, avevo deluso ogni sua aspettativa.

    «Roberto ama i libri, ama le fotografie, ama la poesia, la musica, ama le lunghe passeggiate, non è come i suoi fratelli e me, forse ha cuore gaelico», mi prendeva spesso in giro mio padre davanti alla sua nuova compagna di almeno quindici anni più giovane di lui.

    Li avevo ignorati per qualche anno e poi ero andato via. E non me ne ero mai pentito. L’unica cosa bella circa la famiglia erano le lettere di mia madre, Deborah. Non era più tornata in Italia. Certe donne tendono a non tornare più quando vengono ferite all’eccesso e per mia madre era stato così. Si era semplicemente arresa al fatto che troppi soldi e amore non sempre riescono a convivere per molto tempo. Prima o poi bisogna scegliere e mio padre aveva scelto i soldi e Beatrice.

    Era una persona dalla perenne vena romantica che mi aveva trasmesso in pieno. Proprio per questo non usava granché email e cellulare ma amava spedirmi lettere fitte di parole e frasi, citazioni di poeti, lettere appassionate, piene d’amore, come era sempre stata lei. E io le rispondevo così, con un metodo considerato all’antica, un metodo che avevamo fatto nostro.

    Inspirai a fondo e mi parve di sentire il suo profumo. A volte anche io mi domandavo il perché non l’avessi seguita in Irlanda e cosa ci facessi ancora qui in Italia quando nella terra di mia madre c’erano paesaggi meravigliosi tutti da fotografare.

    Poi mi ricordai di Clara. Sospirai e lasciai perdere, osservando il display del cellulare, il quale trillava in modo esasperante. La bella mattinata era decisamente andata a farsi benedire.

    Mio padre.

    «Ciao papà, dimmi».

    «Che cosa diavolo aspetti a rispondere quando ti chiamo? Dove sei? Non sarai mica a qualche convegno di fotografi effeminati a scattare foto di donne anziché fartele?»

    Sospirai per non rispondere in modo sgarbato. Con mio padre non c’era nulla da fare. Non eravamo mai riusciti a dialogare io e lui. Sapevo per certo che la sua battuta non era casuale: nonostante sapesse del mio fidanzamento con Clara, continuava di certo a pensare che fossi gay.

    Scossi il capo. Non sapevo proprio il perché, ma mio padre ogni volta che parlava con me, mi dava l’impressione di un riccone pazzo e discriminante, arroccato sulle sue posizioni che riteneva assolute.

    Eravamo così diversi, non c’era da stupirsi se tra di noi c’era solo attrito e niente affetto. Mi domandavo in continuazione come avesse fatto mia madre a sposarlo e come facessero i miei fratelli a sopportarne anche solo la vista.

    «No papà, sono al paese. Sto lavorando per un’esposizione fotografica», mi limitai a dire senza raccogliere la provocazione.

    «È passata Clara, dice perché non ti decidi a tornare a stare da noi. A ogni modo, Beatrice sarebbe contenta se domenica passassi di qui e se ti fermassi per pranzo», buttò lì la sua esca. Sempre la solita poi.

    Beatrice era una puttanella viziata che era ben contenta di far felice mio padre in ogni suo capriccio di vecchio mandrillo pur di mantenere un altissimo tenore di vita fatto di diamanti e perle, di seta ed eventi mondani, viaggi e vacanze continue alle Baleari o a Miami o chissà dove.

    In realtà mio padre voleva solamente avermi sotto tiro per tentare un ennesimo lavaggio del cervello, per farmi rientrare in seno alla famiglia, inserirmi nel governo dell’impero familiare e garantirmi un futuro da imprenditore come i miei fratelli, come lui.

    Da parte mia, mi tenevo ben lontano dalla sua stupida villa.

    «No papà, domenica non posso, ho già un impegno, tanti saluti a Beatrice», risposi il più educatamente possibile.

    «Ma sentiti! Quando parli mi sembri Deborah. Ascoltami bene Roberto. Tu sei un Aramei non un irlandese fallito come tua madre. È chiaro? Cerca di ricordartelo. Pensaci bene, perché potrei non darti ancora altre possibilità. Mi sono stancato di aspettare te e le tue manie da figlio dei fiori, va bene?»

    Riagganciai. Ne avevo abbastanza di lui, delle sue critiche e dei suoi insulti, soprattutto di quelli rivolti a mia madre. Nonostante fossero passati circa due anni, evidentemente non aveva ancora digerito il fatto che lei se ne fosse andata e basta senza una parola, senza volerne più sapere di lui, nonostante le minacce di avvocati divorzisti agguerriti.

    Mi ero sbagliato, non era la mattinata a essere stata rovinata. L’intera giornata ora mi appariva destinata a un andamento fallimentare.

    Inasprito dai continui litigi, vidi crollare la bella

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