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Un Sufi mi svelò il segreto
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Un Sufi mi svelò il segreto
E-book407 pagine7 ore

Un Sufi mi svelò il segreto

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Info su questo ebook

I colloqui avvenuti tra un medico cattolico e un sufi musulmano, sullo sfondo della guerra tra Etiopia ed Eritrea, svelano al ricercatore i misteri della conoscenza metafisica.
LinguaItaliano
Data di uscita7 feb 2018
ISBN9788899450991
Un Sufi mi svelò il segreto

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    Anteprima del libro

    Un Sufi mi svelò il segreto - Giancarlo Rosati

    GIANCARLO ROSATI

    I misteri dell’universo svelati da un sufi musulmano a un medico cattolico.

    Un testo utile per chi cerca la Conoscenza.

    UN SUFI MI SVELÒ IL SEGRETO

    (Il cammello assetato)

    Colloqui con l’ultimo discendente di Maometto

    OM EDIZIONI

    Tutti i diritti letterari ed artistici sono riservati. È vietata qualsiasi riproduzione, anche parz iale, di quest’ opera. Qualsiasi copia o riproduzione effettuata con qualsiasi procedimento (fotografico, microfilm, nastro magnetico, disco o altro) costituisce una contraffazione passibile delle pene previste dalla legge 11 marzo 1957 dei diritti d’ Autore. Tutte le immagini sono di proprietà dell’ Autore.

    © Copyright 2018 - OM EDIZIONI

    www.omedizioni.i t - info@omedizioni.it

    Via Badini , 17 40050 Quarto Inferiore (BO) . Italy Tel. (+39) 051 768165 - (+39) 051 6061167

    Fax. (+39) 051 6058752

    ISBN 9788899450991

    Ai miei nipoti che troveranno in questa cavalcata i segnali utili per attraversare la vita

    RINGRAZIAMENTO

    Ringrazio mia moglie che con somma pazienza ha snellito il saggio all’essenziale, Ennio Marchignoli per i suggerimenti forniti e Ottavio Caggiati per le correzioni e alcune foto scattate quando facevamo insieme il giro del mondo alla ricerca della verità.

    Introduzione

    Questo libro è il frutto di ripetuti incontri con uno degli ultimi discendenti di Maometto, lo Sheikh Salaheddin di una regione musulmana dell’Eritrea. I capi spirituali del mondo islamico sono i numerosi discendenti del Profeta. Si trovano in Arabia come in Africa. Se in Europa la chiesa romana non avesse preso il sopravvento in maniera impropria come ha fatto dal tempo del vescovo Ireneo di Lione, anche i discendenti di Gesù sarebbero ora i capi spirituali delle diverse diocesi sparse nel mondo. Subito dopo la crocifissione, il partito dei Nazareni aveva nominato come capo della chiesa di Gerusalemme Giacomo, fratello di Gesù. Dopo la sua uccisione e la distruzione del Tempio, per sfuggire alla persecuzione, i superstiti si erano rifugiati nei territori nei quali Roma non aveva potere. Quando i cristiani acquistarono la libertà di professare la loro fede e la chiesa cristiana si affermò nella capitale dell’impero, i discendenti di Gesù vennero allo scoperto e nel 320 d.C. si recarono a Roma per chiedere a papa Silvestro l’assegnazione di alcune importanti diocesi. Non solo, ma chiesero anche che fosse la chiesa di Gerusalemme e non quella di Roma ad amministrarne i beni. Nonostante documentassero di essere effettivamente i discendenti di Gesù, il pontefice rifiutò la richiesta, adducendo come scusante che ormai era Roma il centro del cristianesimo e non era conveniente spostarlo a Gerusalemme. I Desposyni, così erano chiamati i discendenti di Gesù da parte di madre, tornarono nella clandestinità e di loro non si seppe più nulla. Non sappiamo se la chiesa di Roma li compensò con laute somme di denaro o li perseguitò. È certo che la chiesa romana fece di tutto per tenerli nell’ombra. Anche nell’Islamismo c’erano state delle guerre intestine per aggiudicarsi il diritto di rappresentare Maometto e, non potendo definire con precisione chi era veramente imparentato con il Profeta, capitò che si giungesse a dei compromessi. Nella visione popolare, i parenti di un saggio sono, a loro volta, dei sapienti; ma non è così, ovviamente.

    L’idea di incontrare il parente di un profeta non mi aveva mai sfiorato, ma il destino mi serbava delle sorprese. Mi laureai in medicina e chirurgia in Italia e tornai in Etiopia, dove viveva la mia famiglia. Fui subito impiegato nell’ospedale governativo, Iteghe Menen di Asmara, che al tempo del governo coloniale italiano si chiamava Regina Elena. L’ospe- dale era famoso in tutto il paese e la fama era meritata, poiché aveva avuto ricercatori citati nei testi di medicina dei nostri atenei. Negli ultimi anni però si era verificato un razzismo alla rovescia: i medici italiani venivano sostituiti da specialisti provenienti dall’Europa dell’Est, che, per quanto si dessero da fare, non riuscivano a sostituirne la fama. Al tempo in cui mi laureai, Asmara era il capoluogo della regione Eritrea confederata all’Etiopia del Negus e qui giungevano persino pazienti provenienti da Addis Abeba, i quali disdegnavano gli ospedali più moderni e attrezzati della capitale pur di farsi curare da medici italiani. I giovani medici che approdavano all’Ospedale Iteghe Menen di Asmara venivano inseriti in un programma detto rotating internship, il metodo americano di apprendimento intensivo nei settori principali della medicina: chirurgia generale, pediatria, ostetricia, neurologia, ortopedia, oculistica, odontoiatria, otorinolaringoiatria, medicina interna e tropicale. Il rotating internship era un procedimento molto utile ai medici che dovevano poi affrontare da soli problemi d’ogni genere quando erano inviati negli ospedali dell’interno, lontano da qualsiasi centro attrezzato.

    Quando la direzione sanitaria ritenne che fossi pronto, mi affidò un ospedale nuovo di zecca, quello di Afabet, costruito nel medio piano eritreo a tutela di una regione molto vasta, quella del Sahel. Si trattava di un piccolo ospedale voluto dall’Imperatore d’Etiopia, Hailè Selassiè I, molto sensibile ai problemi sanitari della popolazione. Fu qui che cominciò l’avventura che mi fece incontrare il misticismo. Quel brano di vita africana ormai non mi appartiene più, ma, come tutte le esperienze, anche questa mi aprì porte che sembravano del tutto sigillate.

    Quando cominciò l’avventura

    PARTE I

    LA REGIONE DEL SAHEL ERITREO

    1.Lo sceicco del Sahel

    È difficile conoscere un uomo, ma un uomo facile a conoscersi forse non vale la spesa.

    Ch’en Chiu

    Il Sahel è una regione situata nella parte settentrionale dell’Eritrea che fino a qualche anno fa era poco conosciuta. Si tratta di un medio piano, oggi elevato al rango di parco nazionale, che da una parte raggiunge le coste infuocate e desertiche del mar Rosso attraverso un’immensa pianura, e dall’altra si porta ai confini con il Sudan, passando da una sontuosa catena montuosa dove sono situati spettacolari pianori ricchi di pascoli chiamati rore. Le rore, coperte di ginepri, oleastri e coltivazioni di orzo, formano una delle più belle zone del paese. Per quanto non piova per anni, la forte umidità notturna rende la vegetazione lussureggiante, dove la fanno da padrone i kudu, le faraone, i francolini e i sessaà.

    L’Eritrea è spettacolare per il continuo alternarsi di altopiani, bassopiani e pianure. Da Asmara, la capitale situata a un’altitudine di 2350 metri, con un perenne clima primaverile, si scende a Oriente verso Massaua, il deserto della Dancalia e l’arcipelago delle Dahlak. Il deserto dancalo è uno dei luoghi più inospitali e affascinanti della Terra. Al mondo c’è soltanto un altro deserto simile a quello dancalo e si trova in California ai confini con il Nevada. Lungo più di cento chilometri e largo quaranta, è anch’esso al di sotto del mare e ha lo svantaggio di essere circondato da montagne alte più di 3000 metri cosicché il caldo raggiunge temperature che non hanno nulla da invidiare alla Dancalia e non a caso è chiamato la valle della morte.

    Se la parte orientale dell’Eritrea offre un arcipelago ancora incontaminato, quello occidentale del Sahel e del Gash-Barka è la vera Africa delle savane, dove vivono animali di ogni genere, tribù primitive, e dove scorrono fiumi che, partendo dall’altopiano, precipitano verso il mar Rosso con tragitti lunghi 400 chilometri.

    Il Sahel conta effettivamente un elevato numero di tribù diverse per lingua, origine e tradizione che sono state fortemente influenzate dal vicino Sudan. Da quel paese giunsero popolazioni curiose come i Rashaida, e s’infiltrarono missionari musulmani per esercitare la loro opera di conversione all’Islam. I territori convertiti venivano poi affidati ai discendenti del Profeta che assumevano il ruolo di capi spirituali con il titolo di Sheikh.

    Il capoluogo della regione è ancor oggi Nacfa, situata a 1780 metri di altitudine, su una catena montuosa che si eleva fino a 2700 metri. Anche quando l’Eritrea non aveva ancora conquistato l’indipendenza dall’Etiopia, Nacfa era il centro commerciale della tribù degli Habab. Con la guerra d’indipendenza che vide l’Eritrea affrancarsi dall’Etiopia, Nacfa fu l’ultimo eroico baluardo della disperata resistenza eritrea. La resistenza che offrì agli etiopi fece di Nacfa il fulcro leggendario degli indipendentisti che, a guerra finita, diedero lustro alla località chiamando la moneta nazionale con lo stesso nome. I dollari etiopici furono così sostituiti dai nacfa. La resistenza di questa piccola cittadina, posta ai piedi delle rore, fece la storia della nuova Eritrea. Qui si concentrarono gli attacchi dell’esercito più potente dell’Africa che aveva individuato nella località una posizione strategica tra l’Eritrea e il Sudan e tentarono di piegarla con attacchi da terra e dal cielo. Per sfuggire agli attacchi dell’aviazione etiopica, i partigiani eritrei costruirono una città sotterranea con centri sanitari, fabbriche d’armi, tipografie e ritrovi come solo un grande anelito di libertà può fare. L’ospedale sotterraneo era lungo cinque chilometri, e cinque medici riuscivano a curare più di 100 pazienti il giorno, molti dei quali feriti di guerra. I feriti giungevano da tutte le parti del Sahel trasportati su asini e cammelli. I rifornimenti all’ospedale, alle tipografie, all’armeria e alle mense sotterranee provenivano però dal vicino Sudan che distava da Nacfa solo sessantacinque chilometri, e non da Afabet che era controllato dall’esercito.

    La distanza da Asmara ad Afabet non era molta. Prima che l’Eritrea conquistasse l’indipendenza, per raggiungere Afabet da Asmara si doveva scendere per novanta chilometri lungo il versante occidentale fino a Keren, la città che gli italiani avevano scelto come località turistica. Keren è la città-bastione che presidia il crocevia tra altopiano e bassopiano ed è storicamente famosa per avere resistito due mesi all’assedio degli inglesi nel 1941. Qui si guadava il fiume Anseba, ci s’inerpicava lungo una pista che costeggiava una vallata ricca di mango e di baobab, e per settanta chilometri si procedeva a velocità molto ridotta. Dopo avere superato cinque passi e alcuni guadi, si entrava in un immenso pianoro, coperto di acacie ombrellifere, fiumi in secca e numerosi villaggi. Al tempo del mio insediamento, il Sahel era abitato da almeno tredici tribù che parlavano il tigrè, lingua ben distinta dal tigrino che si parlava invece nell’altopiano di Asmara. In realtà nel capoluogo eritreo si parlavano diverse lingue: tigrino, amarico, arabo, italiano e inglese, ma non tigrè. Gli italiani che parlavano il tigrino erano molti, mentre pochi conoscevano il tigrè, nonostante fosse la lingua parlata da almeno un quarto della popolazione e quella che più di altre ricordava il ghe’ez, una lingua antica, importata dallo Yemen e riservata oggi solo alla liturgia, come il latino per i cristiani di Roma e il sanscrito per gli indù.

    In Eritrea la lingua etichettava le popolazioni. Quelle dell’altopiano erano chiamate tigrine perché parlavano la lingua tigrina (o tigrignà), mentre le popolazioni che occupavano il medio e il bassopiano fino ai confini con il Sudan, le coste del Mar Rosso e il deserto della Dancalia erano chiamate tigrè per lo stesso motivo.

    La mia storia cominciò un pomeriggio d’estate, quando un elicottero della base americana di Asmara mi prelevò dall’ospedale Iteghe Menen e mi trasportò nella mia nuova sede. L’elicottero non seguì il percorso che facevano di solito gli automezzi. Le auto che lasciavano Asmara per il confine occidentale si dirigevano verso Keren, e di qui s’inoltravano nel Sahel o scendevano verso l’immenso bassopiano, dove scorrevano due grandi fiumi, il Gash e il Barka. Invece di scendere verso il versante occidentale, l’elicottero scelse quello orientale verso Massaua e, cinquanta chilometri prima della costa del mar Rosso, s’inoltrò nella piana di Sabarguma, giungendo ad Afabet in un batter d’occhio. La sera, ero già insediato nel nuovo ospedale. Due giorni dopo arrivò l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè I, il Negus dei negus, per inaugurarlo.

    L’incontro con l’imperatore fu un evento eccezionale. Conoscevo molto bene la sua carriera e la stima che gli italiani avevano di lui. La sua storia, come quella della sua intera famiglia, era affascinante. All’età di sette anni un veggente gli aveva predetto che sarebbe diventato imperatore d’Etiopia contro qualsiasi logica di successione. Quando nacque, nel paese regnava Menelik II, e suo padre, Makonnen, cugino dell’imperatore, era stato nominato Duca della regione di Harrar per l’aiuto che gli aveva dato contro i numerosi ras riottosi e ribelli del territorio. Sua madre era la zia di Menelik e quindi anch’egli apparteneva alla dinastia di re Salomone. Il padre Makonnen era stato inviato a Roma come rappresentante plenipotenziario e, quando era rientrato in patria, aveva cominciato l’opera di rinnovamento del suo paese: aveva fatto costruire il primo ospedale nella storia dell’Etiopia, scuole, moschee per i musulmani, chiese per i cristiani copti e aveva aperto l’Etiopia al mondo occidentale.

    Gli italiani ebbero modo di apprezzare la lealtà e la generosità di Makonnen durante il loro tentativo di conquistare l’Etiopia. Quando l’Italia s’impadronì dell’Eritrea spodestando i dervisci e cacciandoli oltre il confine sudanese, il governo italiano progettò d’invadere anche la confinante Etiopia. Il primo scontro avvenne con gli armati di Ras Mangasha. Diecimila etiopi si scontrarono con i soldati del generale Barattieri che ebbero la meglio. L’avanzata sembrò facile, ma quando sul campo scese il duca di Harrar, ras Makonnen Woldemariam, che ben conosceva le strategie di guerra, le cose cambiarono e gli italiani furono sconfitti all’Amba Alagi. Il destino dei nemici sconfitti dagli abissini doveva essere sancito con la loro evirazione. Era, infatti, costume dei guerrieri etiopi evirare i prigionieri e portare in dono alle mogli la prova dei nemici uccisi. Riconoscendo il valore dei combattenti italiani, però, Makonnen non solo concesse loro l’onore delle armi, ma dispose affinché nessun abissino aggredisse ulteriormente i prigionieri. L’Amba Alagi fu solo la prima delle sconfitte italiane. L’Italia ne subì una ancor più scottante ad Adua, dove novantamila guerrieri di Menelik ebbero facilmente ragione dei ventimila soldati italiani.

    Ancora una volta ras Makonnen gestì i prigionieri italiani sconfitti ad Adua, con molto tatto: permise alla Croce rossa russa di intervenire per curare i feriti e li fece rientrare in Eritrea sotto scorta, ben sapendo che gli sciftà, i briganti di strada, avrebbero approfittato dei prigionieri per depredarli ed evirarli. Nel paese era ancora vivo il ricordo di quel che era accaduto nella guerra tra il Negus e gli ebrei d’Etiopia (i Falashà). Gli ebrei sconfitti erano stati tutti evirati e il Negus aveva fatto sfilare i genitali recisi davanti al nemico sconfitto, donne comprese. Anche la sovrana degli ebrei era stata costretta ad assistere allo spettacolo delle truppe etiopiche vittoriose che portavano sulla punta delle loro lance il risultato di migliaia di evirazioni che deponevano poi ai piedi dell’imperatore. Si racconta che la sovrana ebrea, riconoscendo i genitali del marito, fosse svenuta.

    Ben conoscendo le abitudini dei guerrieri etiopici, ras Maconnen fornì ai prigionieri italiani una buona scorta affinché rientrassero in patria senza subire mutilazioni, ma la protezione non fu sufficiente e molti italiani, catturati dagli sciftà, subirono l’evirazione, e quello non fu l’unico episodio nel quale gli italiani dovettero subire la mutilazione. Durante la guerra d’Abissinia ogni qualvolta i guerrieri etiopi riuscivano a prendere il controllo di un fortino italiano, l’evirazione era inevitabile.

    Con la guerra contro l’Italia, Makonnen divenne l’eroe nazionale e ne beneficiò anche il figlio Tafari, il futuro imperatore Hailè Sellasse, che, per i meriti del padre, fu ricevuto a corte. Entrambi si mostrarono sempre compassionevoli con il nemico, come fece il Saladino quando conquistò Gerusalemme, catturando 60.000 cristiani. Nonostante che in precedenza i crociati cristiani avessero ucciso senza pietà migliaia di musulmani, avessero stuprato le giovani vergini e rapito le mogli ai mariti, il Saladino li aveva fatti accompagnare sotto scorta ai porti dai quali si sarebbero poi imbarcati per tornare in patria.

    Ras Makonnen, padre dell’ultimo Negus d’Etiopia

    Dal padre, Hailè Selassiè ereditò la nobiltà d’animo, mentre alla corte dell’imperatore Menelik imparò a difendersi da intrighi e tradimenti. Gli italiani furono quelli che, più di altri, ebbero l’opportunità di verificare come Hailè Selassiè mettesse davvero a frutto gli insegnamenti ricevuti dal padre: quando, alla fine dell’ultima guerra, l’imperatore Sellasse rientrò ad Addis Abeba per riprendere il trono che l’Italia fascista gli aveva strappato, sapendo che nella capitale vivevano ancora venticinquemila italiani, invitò il suo popolo a non spargere altro sangue. Mi raccontava mio padre che in quell’occasione aveva detto:

    Oggi è il principio di un’era nuova per la storia d’Etiopia. Non rendete male per male, non commettete nessun atto di crudeltà come quelle che il nemico ha commesso contro di voi fino a oggi. Non offrite al nemico l’occasione di infangare il buon nome dell’Etiopia. Noi prenderemo le sue armi e faremo in modo che ritornino per la strada da cui sono venuti. In realtà gli italiani non furono cacciati, poiché l’imperatore si rese conto di quanto avevano costruito nel suo paese: acquedotti, scuole, centrali elettriche, palazzi, strade, ospedali, industrie e tutto quello che serviva a una nazione moderna. A loro volta gli italiani mostrarono gratitudine al Negus lavorando con generosità e rispettando sempre le leggi del paese. In tal modo onorarono il loro impegno nei confronti di un imperatore che, a differenza di altri storici sovrani cattolici dell’Europa civile, aveva dimostrato al mondo intero che cos’è la vera compassione cristiana. Senza rendersene conto, con la sua compassione, il Negus garantiva all’Etiopia la transizione tra il colonialismo e l’indipendenza, un momento che per molti paesi africani fu drammatico.

    Intorno a Hailè Selassiè aleggiavano molte leggende. Una nacque nel 1960, quando il Negus partì per una visita in Brasile. Approfittando della sua assenza, a palazzo si materializzò un colpo di Stato. Gli aeroporti furono chiusi e il Negus non avrebbe avuto più alcuna possibilità di rientrare in patria se non gli fosse rimasto fedele ras Cassa, che l’imperatore aveva nominato governatore dell’Eritrea. Ras Cassa lasciò aperto l’aeroporto di Asmara, permettendo al Negus di rimettere piede sul suolo etiopico. Mentre il Negus rientrava dal Brasile su un DC6 americano, Ras Cassa inviò verso Addis Abeba un esercito guidato da un sosia dell’imperatore. La vista del Negus che marciava sulla capitale destabilizzò la popolazione che fece atto di sottomissione senza sapere che si trattava di un sosia che venne, ovviamente, sostituito prima che il vero imperatore at terrasse ad Addis Abeba. Con l’uso del likamaquas (il sosia), un ufficiale ingannava il nemico impersonando il re. La pratica era antica. Menelik non l’aveva mai voluta usare preferendo comandare di persona le truppe. In questo caso Ras Cassa fu tanto saggio da ricorrervi, mentre il vero imperatore rientrava dal Brasile. La storia ufficiale non accenna al fatto e racconta semplicemente che il Negus rientrò dal Brasile e giunse ad Addis Abeba dall’aeroporto di Asmara, mentre la popolazione di Addis Abeba uccideva i cospiratori. In rispetto a ras Cassa che gli salvò il trono, negli anni Sessanta il Negus evitò di proclamare la legge marziale in Eritrea che già si stava ribellando all’impero. Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto, infatti, sostituire ras Cassa con un militare e si sarebbe dimostrato ingrato nei confronti del suo salvatore. Al Negus si poteva rinfacciare di essere stato crudele, ma mai ingrato. Il destino gioca in modo sottile: un riguardo nei confronti di una persona alla quale il Negus doveva molto, cambiò il corso della storia dell’intero paese.

    Hailè Selassiè, sulle orme del padre Makonnen, fece di tutto per aprire scuole e ospedali e quello di Afabet fu appunto il primo nella storia della regione del Sahel.

    L’inaugurazione dell’ospedale

    L’elicottero del Negus atterrò tra l’accampamento dell’esercito eritreo e l’ospedale, in un’area cintata da militari e dalle sue guardie del corpo inviate in avanscoperta. Non sicuro che gli investigatori inviati anzitempo sul luogo svolgessero il loro compito con scrupolo, come richiedeva la pericolosità della situazione politica, prima di scendere dal velivolo, il Negus fece uscire un barboncino addestrato ad annusare gli esplosivi e solo quando il cane rientrò scodinzolando, l’Imperatore si mostrò alla gente che lo acclamava.

    Il Negus scese dal suo elicottero e si diresse senza esitazione verso l’ospedale, dove lo attendevano le autorità della regione e i ministri eritrei. Io lo attendevo sulla scalinata. Gli ufficiali addetti mi avevano chiesto di rivolgermi al Negus in lingua francese che egli conosceva molto bene, avendo frequentato le scuole missionarie francesi volute dal padre nel suo ducato. Il Negus conosceva anche l’italiano, ma lo parlava raramente e solo con alcuni privilegiati. Mi sarebbe piaciuto conversare con lui in italiano, ma non osai. Cominciai così a rivolgermi a lui in francese, quando a un certo punto, forse per l’abitudine che avevo preso di parlare inglese, mi ritrovai a parlare in quella lingua pur rispettando l’etichetta che mi era stata raccomandata: Con il permesso di Sua Maestà, vorrei mostrare il reparto di…. Il Negus, che aveva cominciato a conversare in francese, non esitò a rispondermi in inglese senza mostrare alcuna sorpresa. Forse avrebbe fatto la stessa cosa se gli avessi parlato in un’altra lingua. Dopo avergli mostrato l’ospedale ed esposto i servizi che intendevo offrire alla popolazione, entrammo in una conversazione del tutto personale. S’informò su di me, sulla mia famiglia, sui miei progetti.

    Hailè Selassiè aveva circa settantaquattro anni e mostrava i segni del tempo. Era basso, minuto, fragile, e mi domandai come avesse potuto superare sessant’anni d’intrighi e di tradimenti, di tranelli e tentativi di avvelenamento, soprattutto come potesse incutere tanto timore reverenziale in una popolazione formata da decine di etnie diverse sempre in lotta tra loro. La risposta la trovai nei suoi occhi capaci di penetrare l’animo umano e di freddarlo, dimostrando la sicurezza dell’uomo che con una sola parola poteva disporre della tua vita e decidere se potevi vivere o morire. Prima di accomiatarsi, mi domandò se avevo una richiesta da fargli. La richiesta l’avevo, ma non mi riguardava. Riguardava invece la popolazione locale e l’ospedale: Maestà, l’acqua dell’ospedale è salmastra. Possiamo usarla in modo molto limitato, ma non possiamo certamente berla.

    E come si può rimediare? domandò l’imperatore, mostrando molta disponibilità.

    Presi la palla al balzo. Poche ore prima avevo valutato la cosa e avevo anche trovato la soluzione.

    Con il permesso di Sua Maestà, potremmo allacciare l’ospedale al fiume che passa a pochi chilometri; quindi decantare e filtrare l’acqua prima del suo arrivo al serbatoio dell’ospedale e della cittadina. In quel modo, sempre con il permesso di Sua Maestà, garantiremmo l’acqua potabile sia all’ospedale sia al resto della cittadina.

    Il Negus fece un cenno e uno scrivano si precipitò al suo fianco. L’imperatore dispose che mi fossero messi a disposizione cinquantamila dollari per realizzare immediatamente il progetto. Si trattava di una somma cospicua per quel tempo, se si pensa che nel 2009 con 1559 euro, nella stessa zona, furono costruiti ben dodici pozzi. Della somma stanziata dal Negus, l’ospedale non vide mai un solo dollaro, tanto che fui costretto a stipulare subito un contratto con il proprietario di un certo numero di asinelli che facevano la spola tra il pozzo di acqua potabile più vicino e il serbatoio dell’ospedale. Non seppi mai che fine fece la somma che l’imperatore mi aveva messo a disposizione, ma non mi fu nemmeno difficile immaginarlo. La disponibilità del Negus mi aveva meravigliato, giacché durante l’occupazione dell’Eritrea aveva sciolto i partiti politici, cancellato la libertà di stampa, imposto la lingua amarica dell’etnia al comando in Etiopia, aveva fatto bruciare i libri di testo eritrei e costretti all’esilio i capi politici. Ora faceva co- struire scuole, università, ospedali, chiese e moschee e si mostrava sensibile ai problemi della popolazione. La nostra conversazione continuò in modo affabile e cordiale finché lo accompagnai all’elicottero che lo ricondusse ad Asmara.

    Il Negus Hailè Selassiè, in divisa da maresciallo, accompagnato dai generali, dai tredici capi tribù del Sahel e dall’Autore, durante l’inaugurazione dell’ospedale di Afabet

    Il giorno dopo l’inaugurazione, l’ospedale divenne operativo. Alle cinque della sera terminavo le visite e, mentre i pazienti cenavano, mi prendevo un’ora di svago. Si poteva chiamare svago? Siccome non c’erano locali pubblici a parte il posto telefonico, non esistevano negozi e ritrovi, librerie, cinema e quant’altro caratterizza il mondo moderno, il mio unico svago era di sedermi in riva al fiume e osservare gli animali selvatici.

    Afabet che, dopo la guerra vinta dagli eritrei contro l’Etiopia, si è modernizzata, allora era solo una cittadina posta nel mezzo di un’estesa savana che confinava con il Mar Rosso e con il Sudan. Il Negus aveva voluto che la popolazione del medio piano avesse un suo ospedale tutto nuovo e non dovesse dipendere da quello di Keren che si trovava a 130 chilometri da Nacfa e 200 da Carora, l’ultima cittadina sulla linea di confine con il Sudan. Le piste e le difficoltà degli spostamenti comportavano alcuni giorni di viaggio per arrivare all’ospedale, e il più delle volte i malati non arrivavano in tempo. La corriera passava ogni quattro giorni e l’unico mezzo di trasporto erano i cammelli. Nel periodo delle piogge, però i fiumi in piena impedivano l’attraversamento dei guadi e i viaggiatori dovevano accamparsi sulle sponde, in attesa che il livello dell’acqua scendesse convenientemente. La popolazione doveva arrangiarsi in un altro modo e fino a quel momento aveva fatto ricorso alle cure empiriche degli sciamani o del capo spirituale della regione, lo Sheikh Salaheddin, famoso per le guarigioni esercitate in parte tramite la moxibustione, e in parte, come raccontavano le leggende locali, attraverso presunti poteri soprannaturali. Se lo Sheikh avesse o non avesse poteri soprannaturali, non lo seppi mai. So con certezza che usava la moxibustione per avere osservato grosse cicatrici rotondeggianti sulla cute di molti pazienti, come so che non disdegnava l’uso di medicamenti naturali che si procurava grazie alle carovane che giungevano dal vicino mondo arabo.

    La strada principale di Afabet

    Lo Sheikh praticava la medicina empirica senza nulla chiedere. E che cosa avrebbe potuto chiedere a gente che non aveva nemmeno gli occhi per piangere? Per lo Sheikh, curare gli ammalati era una missione come quella d’insegnare il corano ai giovani della regione. Si trattava di un uomo che aveva una sapienza che andava di là delle mie previsioni. I suoi antenati erano di origine araba e appartenevano a santoni che avevano raggiunto il territorio eritreo, spalleggiati dalle autorità turche che volevano diffondere l’Islamismo. Nel 1800 i turchi erano padroni di un territorio che partiva da Massaua sul Mar Rosso e si estendeva al Sudan passando per il bassopiano eritreo occidentale e l’immenso pianoro del Sahel. Le tribù locali si erano convertite all’Islam in parte per il sostegno che potevano ottenere dai turchi, in parte per i poteri dimostrati dall’antenato dello Sheikh, lo Scherif Hussein. La parentela degli Sheikh con il Profeta era contestata dai discendenti diretti di Maometto, tanto che, racconta Alberto Pollera, incaricato dal governo fascista di raccogliere notizie sulla gente abissina, essi non poterono conservare il titolo di Sherif che compete solo ai discendenti diretti di Maometto e dovettero accontentarsi del titolo di Sheikh che vuol dire maestri anziani. Il titolo era effettivamente riservato a individui venerabili e pietosi. La famiglia dello Sheikh era dunque onorata per la santità e gli strani poteri attribuiti ai suoi avi, soprattutto a un bisavolo di nome El-Amin che visse nel Sahel intorno al 1800 e il cui mausoleo (se la memoria non mi tradisce) dovrebbe trovarsi in località Emberemi, a pochi chilometri da Massaua. El-Amin aveva avuto diverse mogli e una prole numerosa che gli era servita per attestarsi nel territorio del Sahel e in quello vicino del Barka dove mi sarei trasferito di lì a poco. Tra le sue mogli figurava anche la figlia del capo di un’importante comunità cristiana locale, gli As-Ghedem. Lo Sheikh attuale aveva dunque sangue cristiano da parte della bisavola e sangue musulmano da parte del bisavolo. In un paese come l’Abissinia dove la percentuale di cristiani copti e di musulmani si equivaleva, lo Sheikh si trovava in una posizione di vantaggio: conosceva le tradizioni cristiane e aveva la preparazione mistica dei sufi. Fin dall’infanzia lo Sheikh era stato preparato per adempiere la sua missione di capo spirituale, ma in Eritrea non era l’unica guida spirituale riconosciuta. Altri Sheikh, sicuramente suoi parenti, si erano insediati nella valle del Barka, mentre a Massaua si erano stabiliti addirittura i discendenti diretti di Maometto, i membri della famiglia dei Morgani. I Morgani provenivano direttamente da Abù Taleb, zio del Profeta, e avevano gran prestigio non solo in Eritrea, ma anche nel vicino Sudan, dove risiedevano altri membri della stessa famiglia. La loro importanza non derivava soltanto dalla consanguineità con il Profeta, ma anche dal fatto che un loro ascendente aveva fondato una tariqah a Cassala, una cittadina a ridosso del confine sudanese. Tàriqah significa perfezionamento definitivo delle più antiche vie spirituali, una sorta di sigillo che nel passato impedì alle famiglie degli Sheikh del Sahel e del Barka di affrancarsi dall’autorità dei Morgani. Lo studioso Corbin definisce le tàriqeh confraternite musulmane il cui insegnamento unisce l’ascesi spirituale interiore all’educazione filosofica rigorosa.

    La gente diceva che anche lo Sheikh attuale, come il suo più famoso antenato, El-Amin, fosse dotato di poteri straordinari, ma lui non volle mai dimostrarmeli direttamente, anche se, come vedremo più avanti, fece di tutto per confermarmi che tali poteri facevano parte del patrimonio psichico naturale dell’uomo. Suppongo che non volesse che i ricercatori ai quali spiegava certi principi metafisici s’incancrenissero su poteri che egli stesso non riteneva utili alla ricerca spirituale. A suo parere, i poteri extrasensoriali servivano soltanto per incuriosire la gente. È probabile che anche i suoi antenati usassero quei poteri solo per imbonirsi la popolazione e indurla a

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