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L'uliveto e altri racconti
L'uliveto e altri racconti
L'uliveto e altri racconti
E-book109 pagine1 ora

L'uliveto e altri racconti

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Info su questo ebook

La novella di Guy de Moupassant L’uliveto (Le champ d’oliviers) venne pubblicata nel 1890 ed è annoverata fra i suoi cosiddetti “racconti del crimine”. Seguono i tre racconti: Chi lo sa? (1890), I venticinque franchi della Madre Superiora (1888) e La piccola Roque (1885), considerato, quest’ultimo, uno dei suoi capolavori. La traduzione, la Prefazione e le Note sono di Luciano Montanari.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2018
ISBN9788827570876
L'uliveto e altri racconti
Autore

Guy de Maupassant

Guy de Maupassant was a French writer and poet considered to be one of the pioneers of the modern short story whose best-known works include "Boule de Suif," "Mother Sauvage," and "The Necklace." De Maupassant was heavily influenced by his mother, a divorcée who raised her sons on her own, and whose own love of the written word inspired his passion for writing. While studying poetry in Rouen, de Maupassant made the acquaintance of Gustave Flaubert, who became a supporter and life-long influence for the author. De Maupassant died in 1893 after being committed to an asylum in Paris.

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    Anteprima del libro

    L'uliveto e altri racconti - Guy de Maupassant

    DIGITALI

    Intro

    La novella di Guy de Moupassant L’uliveto ( Le champ d’oliviers) venne pubblicata nel 1890 ed è annoverata fra i suoi cosiddetti racconti del crimine. Seguono i tre racconti: Chi lo sa? (1890), I venticinque franchi della Madre Superiora (1888) e La piccola Roque (1885), considerato, quest’ultimo, uno dei suoi capolavori. La traduzione, la Prefazione e le Note sono di Luciano Montanari.

    Prefazione

    Durante i miei frequenti viaggi in Francia, ho avuto modo di parlare sia con editori, sia con di­scendenti o conoscenti di parenti di Guy de Maupassant. E giusto in Normandia – la sua terra – ho avuto più colloqui dai quali ho potuto trarre utili ragguagli. Un libraio di Deauville – una lumino­sa e piccola città nel dipartimento del Calvados, regione della Bassa Normandia – mi raccontava di ciò che aveva appreso dai racconti di un suo nonno, il quale aveva conosciuto personalmente il grande scrittore: «Maupassant è stato spesso paragonato a un toro triste, per via della sua possen­te mole, del suo vigoroso collo, della sua fronte ampia e dalla rassegnazione un po’ selvaggia del suo sguardo. Non amava farsi fotografare e perciò sono poche le testimonianze, le quali tuttavia ci ricordano una figura simile a quella di un marinaio, dall’andatura franca e dalle maniere semplici. Diceva spesso: «Mi chiamo cattivo-passante (Maupassant) con una bonomia che smentiva la mi­naccia». Negli Annali politici e letterari, Georges de Porto-Riche scrisse di lui: «Guy non ha l’a­ria di un uomo di lettere: è un gagliardo tipo sui trentacinque anni, assai snello, ben vestito. Sem­brerebbe quasi di aspetto insolente, ma appena si parla con lui tutto si modifica. La sfrontatezza di poco prima fa posto a una buona educazione che sembra naturale. La voce è particolarmente dol­ce. Nell’insieme, è prudente e modesto. Si esprime come scrive. Dice soltanto cose necessarie e par­la infrequentemente di se stesso. Non discute in nessun caso e non insiste mai. Le sue maniere non tradiscono mai la minima curiosità e non ci si sente in nessun caso osservati da lui».

    Credo sia sufficiente leggere poche righe di Maupassant per comprendere come lui avesse una oscura opinione della vita. Del resto, sapeva magistralmente scaricare dalla sua penna la noia, la farsa e la miseria dell’esistenza stessa. Riteneva Gustave Flaubert il suo vero maestro, dal quale assorbì l’arte dello scrivere storie del cuore e dell’anima, svelando quindi l’uomo contemporaneo, e donandoci una visione più completa, più convincente quasi della stessa realtà.

    Sappiamo infatti (Pirandello docet), che ognuno di noi possiede una tendenza di spirito che lo por­ta a vedere le stesse cose in maniera diversa da un altro. Maupassant ci ha dato una sua visione del mondo, facendo però attenzione a non lasciar riconoscere il suo Io al lettore.

    È stato un autore per così dire impersonale, al di sopra delle passioni che egli stesso ha trattato. Ha saputo osservare la realtà ed esprimerla col suo eccellente talento.

    Si può perciò affermare che nessun altro ha avuto la sua stessa capacità di scrivere racconti, un maestro nel saper rappresentare in sintesi storie anche complesse e arricchite sempre da periodi descrittivi sublimi, di rara bellezza. In breve, ho cercato, come traduttore, di non alterare il suo sti­le, e lo si può facilmente notare quando egli ripete più volte la stessa parola (e io con lui), o se non addirittura la stessa frase, per dare ancora più forza all’espressione. Mi sono altresì attenuto all’uso degli stessi suoi vocaboli – parecchi dei quali oggi certamente desueti, come vegliardo, vieppiù, e numerosi altri – per una sincera forma di rispetto nei suoi confronti.

    Infine, a tal proposito, mi piace rimarcare la sua accuratezza nella scelta dei termini, tanto è vero che egli stesso ebbe a dire: «Non c’è che una parola per esprimere la cosa che si vuol dire, non c’è che un verbo per animarla e un aggettivo per qualificarla».

    Luciano Montanari

    L’ULIVETO

    I

    Quando gli uomini del porto, del piccolo porto provenzale di Garandou, nella baia di Cassis – tra Marsiglia e Tolone – intravidero la barca dell’abate ¹ Vilbois che rientrava dalla pesca, scesero sulla spiaggia per aiutarlo a tirare la imbarcazione a riva. L’abate era solo e remava, come un vero uomo di mare, con una energia rara malgrado i suoi cinquantotto anni. Le ma­niche arrotolate su braccia muscolose, la veste talare rialzata e serrata sulle ginocchia, un po’ sbottonata sul petto, il tricorno ² appoggiato sulla panca a lato; e in testa un berretto di su­ghero ricoperto di tela bianca, egli aveva l’aria di un solido e bizzarro ecclesiastico dei paesi caldi, fatto per le avventure più che per dire messa. Di tanto in tanto, guardava dietro di sé per riconoscere il punto d’approdo, poi ricominciava a tirare, ritmicamente, metodico e forte, per dimostrare una volta di più a quei marinai del Mezzogiorno, come navigano gli uomini del nord.

    La barca lanciata toccò la sabbia e le scivolò sopra come se andasse a percorrere tutta la spiaggia conficcandovi dentro la sua chiglia; poi si arrestò decisamente, e i cinque uomini che guardavano venire il curato si avvicinarono, affabili, contenti, amichevoli verso l’abate.

    «Ebbene?... Buona pescata, signor curato?» domandò uno con il suo forte accento provenza­le. L’abate Vilbois ritirò i suoi remi, si tolse il suo berretto di sughero per rimettersi quello a tricorno, riabbassò le maniche sulle braccia, riabbottonò la sua veste, poi, avendo ripreso la tenuta idonea per presentarsi come sempre in qualità di assistente ecclesiastico presso il vil­laggio, rispose fieramente: «Sì, sì, molto buona: tre branzini, due anguille e un po’ di pesce azzurro».

    I cinque pescatori si erano avvicinati alla barca, e, piegati sul bordo della stessa, esaminaro­no, con aria da intenditori, le bestiole morte: i tre grossi branzini, le due anguille e i pescioli­ni azzurri striati in bande dorate a zig-zag. Uno di loro disse: «Vado a portare la barca nella vostra bastide ³, signor curato».

    «Grazie, amico».

    Dopo aver stretto loro le mani, l’abate si mise in strada, lasciando gli altri a prendersi cura della sua imbarcazione.

    Camminava a grandi passi, con aria di forza e dignità. Siccome aveva ancora caldo per aver remato con tanto vigore, si scoprì il capo per un attimo passando sotto l’ombra lieve degli ulivi, per sentirsi più libero sotto quell’aria tiepida del tardo pomeriggio, e tuttavia ora cal­matasi e trasformatasi in una ampia brezza che accarezzava la sua fronte quadrata, coperta da capelli bianchi, radi, una fronte da ufficiale più che da abate.

    Il villaggio appariva su di un poggio, nel mezzo di una larga vallata discendente al piano verso il mare.

    Era una sera di luglio. Il sole, ancora abbagliante, in attesa di giungere sulla cresta dentellata delle colline lontane, allungava di sbieco, sulla strada bianca sepolta sotto un sudario di pol­vere l’ombra dell’ecclesiastico il cui tricorno smisurato proiettava nel campo vicino una lar­ga macchia scura che sembrava giocare ad arrampicarsi vivacemente su tutti i tronchi degli ulivi che incontrava, per ricadere subito dopo per terra, strisciando tra gli alberi. Sotto i pie­di dell’abate Vilbois, un sottile strato di polvere fine, come farina impalpabile, quella che in estate, copre certi sentieri provenzali, si alzava fumante attorno alla sua veste e volava co­prendola, in basso, di una tinta grigia e salendo via via più chiara.

    Adesso, un po’ rinfrescato e, le mani nelle tasche, andava con andatura lenta e potente come di un montanaro in ascensione. I suoi occhi calmi guardavano il villaggio, il suo villaggio di cui da una ventina d’anni ne era il curato. Un paese scelto da lui e ottenuto grazie a un gran­de favore; era lì che contava di finire i suoi giorni. La chiesa, la sua chiesa coronava il largo cono delle case ammassate tutt’attorno a essa e alle sue due torri di pietra bruna, ineguali, quadrate.

    Quelle torri drizzavano in quella bella vallata meridionale le loro silhouettes ⁴ antiche più rassomiglianti a difese di un forte che a campanili, monumenti sacri. L’abate era contento, poiché aveva preso tre bei branzini, due anguille e un po’ di pesce azzurro. Era una sorta di piccolo vanto nei confronti dei suoi parrocchiani, i quali lo rispettavano molto, forse anche perché era il più muscoloso del paese, malgrado

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