Baci di laguna
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Anteprima del libro
Baci di laguna - Roberto Brughitta
BACI DI LAGUNA
di Roberto Brughitta
Edizione Digitale
Logus mondi interattivi
www.logus.it
© 2014
ISBN: 978 8898 06 247 8
eBook design
Pier Luigi Lai
pllai@logus.it
Foto di copertina:
ANTONIO SABA
Baci di laguna
è edito in formato cartaceo da:
Editrice Taphros © 2013
redazione@taphros.com
www.taphros.com
Riservati tutti i diritti dell’autore e dell’editore. È vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, di testi e disegni, se non attraverso l’autorizzazione scritta da parte degli autori e/o dell’editore.
Roberto Brughitta
Baci di laguna
romanzo
* * *
Edizioni
Logus mondi interattivi
A Sabrina,
la mia prima lettrice
e a mio padre,
con la speranza che sia riuscito a leggerlo
Presentazione
di Marcello Polastri
Kalari o Cagliari sono la medesima città: antica e moderna al tempo stesso. Sul suo passato è stato scritto tanto ma tanto
non è mai abbastanza. Ne è la prova questo romanzo di Roberto Brughitta, già autore de Il giocattolaio
stavolta ci trasporterà nel lontano 1300. Era il tempo in cui Cagliari bagnava le sue storiche radici nelle acque della Laguna di Santa Gilla. Ma oggi, sotto i fanghi lagunari, riposano i resti delle città perdute: fenicio-punica, romana e poi c'era anche lei, la seconda capitale del Giudicato di Cagliari. Esisteva, ancora nella Laguna, un castello, una chiesa cattedrale e una grande biblioteca; sono scomparse misteriosamente.
Lo sanno bene i pescatori che per lunghi secoli, attratti anche dalle gustosissime arselle de Su Stani
, hanno disseppellito i tesori delle civiltà perdute. Lo racconta Roberto Brughitta che fa rivivere anche le mura di pietra di quelle città scomparse, che si è immerso con una stimolante narrazione, nelle placide acque della Laguna, scovando amori, intrighi, tradimenti e aspetti più modesti, ad esempio la buona cucina del passato, l'aspetto austero delle sue antiche dimore. Per far ciò, la passione di Roberto Brughitta ha spaziato in lungo e in largo, scandagliando Cagliari a tutto tondo. Nel leggere le pagine seguenti, vi ritroverete come per magia in una altalena di sentimenti, in un unico amalgama di fantasia e realtà, nei villaggi scomparsi di Simbilia e di Mahuare. Incontrerete anche Juanni Croxiu e potrete addentrarvi nella vita monastica di Padre Gaston e di Eliseo. Forse vi immedesimerete nella pigrizia naturale di Berano, il gatto girovago che - al pari di altri animali domestici e non - potrebbe trasformare questo libro in una piacevole lettura scolastica. Perché alle formule classiche del romanzo, Brughitta, ha alternato le strutture portanti della narrazione storica, ricostruendo fatti verosimili in un quadro attinente con la Sardegna del 1300.
Le vicende esposte con la dote del narratore-commentatore, subiscono, tra le righe, una piacevole metamorfosi offrendo di un angolo della Sardegna del passato, un curiosissimo affresco sociologico ricco di sfumature ambientali, naturalistiche, enogastronomiche ma anche ideologiche e morali, con le gesta dei personaggi che rendono il testo evasivo e al tempo stesso realistico.
Ed è questa una delle magie sprigionate dalla Laguna… è l'incantesimo d'amore che Roberto ha vissuto e ha descritto per noi. Lui che un giorno salì su una barca, si specchiò al centro della laguna e divenne il suo figlio prediletto. Ma che dico, il suo compagno di avventure. Ed è venuta alla luce questa nuova creatura, una lunga storia fatta di tante storie. Hanno il sapore di un bacio, la bontà di un dolce. Nell'insieme, offrono la sensazione di un ambiente familiare, di un gesto d'amore, dei baci stessi. Di quei baci sprigionati dalla laguna.
Una dolce storia d'amore in una situazione drammatica durante il Medioevo. È la metà del 1300. La scena delle avventure è la realtà storica del territorio di Elmas. Anche oggi possiamo trovare documenti che confermano l'esistenza dei villaggi e sul territorio le testimonianze archeologiche di quei tempi.
Un villaggio organizzato per una vita normale con le sue attività lavorative agricole, commerciali, artigianali e religiose. Abbiamo la presenza del fornaio, del pescatore, del falegname, dello scultore, dell'ortolano e al centro di queste attività il monastero benedettino di Santa Caterina, dipendente dal monastero di San Vittore di Marsiglia. È l'unico edificio visibile che resiste nel tempo.
Come documento archeologico, i ruderi dei villaggi di Simbilia, di Fur- cilla, di Sa Mura, di Moguru, con le loro tombe nascoste, le colonne che danno il nome alla regione de Is Punteddus
, le statue votive di terracotta sul fondo dello stagno, l'acquedotto romano ancora oggi visitabile e percorribile, il pozzo romano. Come memoria storica, la zona Fangariu
(Lutocisterna) sede della battaglia tra gli eserciti di Pisa e Aragona. Il per- corso storico del passaggio dei monasteri benedettini alla curia Kalaritana.
L'autore ci sa dare l'emozione di un romanzo d'amore assieme alla conoscenza archeologica e storica del territorio.
Antonio Asunis
Storico e ex primo cittadino di Elmas.
Personaggi di fantasia, inseriti in luoghi reali e ben conosciuti che appartengono alla storia di questa nostra comunità di Elmas. La memoria storica di ciascuno di noi, tramandata di generazione in generazione, si alimenta con questo libro di nuovi elementi, varcando talvolta il confine tra realtà e immaginazione. Le immagini scorrono fluide, i sentimenti si fanno spesso dolci e il contesto e davvero molto accogliente.
L'autore imprime sulla carta un modo di vivere e un modo di essere che solo i nostri vecchi possono comprendere appieno e così facendo realizza un'opera che non è solo da leggere, ma è da vivere, entrando a pieno titolo tra coloro che ringrazieremo per sempre.
Valter Piscedda
Attuale sindaco di Elmas
PROLOGO
Nella località di Lutocisterna, si affrontarono corpo a corpo, le truppe Aragonesi contro quelle Pisane. Fu una delle più sanguinose battaglie della storia Sarda, che si concluse, con la sconfitta dei Toscani. Quasi nello stesso istante, la potente e numerosa flotta Catalana sconfiggeva quella Pisana, nel Golfo degli Angeli, di fronte all’odierna Cagliari.
In questo modo, gli Aragonesi alleati con i Catalani, che insieme formavano la Corona d’Aragona, entravano nel Castro di Kalari, occupato dai Pisani da 66 anni. Era il 19 giugno del 1324. Le vicende si svolgono alcuni anni dopo.
VILLAGGIO DI SIMBILIA
Padre Bernard Abate di S. Caterina
Padre Eliseo Monaco di S. Caterina
Padre Gaston Monaco di S. Caterina
Massimo Pescatore
Anthine Fornaio
Leonora Moglie di Anthine
Bartholo Fabbro
Juanni Croxiu Povero
Antioca Figlia di Juanni
Tottoi Ortolano
Marca Vento Padre di Tottoi
VILLAGGIO DI MAHUARE
Don Bonanno Signore di Mahuare
Elena Figlia di Don Bonanno
Gonnare Capo delle guardie
Carlo Chioppa Giovane guardia
Comita Serva di Don Bonanno
Tziu Ginu Anziano servo
KALARI
Kalim il nero Egiziano
Veronika Compagna di Kalim
Abdul Egiziano
CASTRO DI KALARI
Ramon Canyelles Conte Aragonese
Ruperez Canyelles Cugino di Ramon
ISOLETTA DI SAN SIMONE
Mauretto Cugino di Massimo
Marta Sorellina di Mauretto
E CON
Carota Asino furbo
Zuccone Asino meno furbo
Berano Gatto pigro
Carlino Passero lagunare
Zeus Cane lagunare
I
Massimo ringraziò per l’ennesima volta il Signore di non essere nato in una famiglia di pastori. Non sarebbe mai riuscito ad ammazzare un agnellino come erano soliti fare gli allevatori della zona in occasione delle festività. Con questo pensiero legò un pezzo di fune a un grosso ramo di lentischio che sbordava sopra un fosso creatosi per lo smottamento del terreno durante abbondanti piogge recenti. Sul fondo, profondo poco più di tre braccia, vi era un piccolo porcospino che cercava disperatamente di arrampicarsi. Purtroppo per lui, causava ripetutamente dei piccoli crolli che riuscivano solo a farlo ribaltare. Sicuramente qualsiasi altro ragazzo dell’età di Massimo sarebbe passato dritto, oppure si sarebbe divertito con le pietre. Lui no, lui lo avrebbe tratto in salvo. Si appese alla fune, calcolò circa due palmi dal fondo, quindi fece un piccolo balzo. Nel frattempo il porcospino si era messo in un angolo appallottolato per lo spavento. Il ragazzo si tolse la camicia e con cautela vi depose l’animaletto, quindi usando le maniche consunte, ne fece un fagottino che lanciò delicatamente oltre il bordo della buca. Una volta risalito assicurò il fardello a uno dei denti del lungo rastrello che aveva con se. Stava infatti rientrando da una raccolta di arselle, e l’attrezzo serviva appunto per setacciare il fondale della laguna. Lo appese di fianco a una piccola rete da pesca piena di questi squisiti frutti del mare. Cosi facendo, scalzo e a torso nudo s’incamminò verso casa.
II
L’abate Bernard respirava a fatica, non era abituato all’aria calda e umida che regnava intorno al convento. In quanto servo di Dio non poteva maledire neppure le zanzare, essendo una sua invenzione, si limitava a schiacciarle sul muro dicendo loro: «Ego te absolvo». Nel paesino arrampicato sulle Alpi francesi, dove era nato, faceva fresco anche d’estate, soprattutto la notte. Potevi camminare per ore senza stancarti e soprattutto senza versare una goccia di sudore. Al convento invece, faticavi se solo facevi una rampa di scale e la notte sudavi stando fermo. Nonostante tutte le imposte fossero spalancate, il calore sembrava aumentare. A camminare sul pavimento di pietra levigata si provava un leggero sollievo, ma se si faceva due volte lo stesso percorso risultava tutto inutile. In compenso la vista sulla laguna era veramente fantastica. Proprio davanti a lui una barca di giunchi con a bordo due pescatori che posizionavano le nasse. Sullo sfondo, una moltitudine di quegli uccelli alti e rosa con il becco ricurvo che la popolazione della zona chiama Genti arrubia
, e in alto, nel cielo limpidissimo, un volo di gabbiani. Il sole era già alto e prima che potesse raggiungere il culmine di mezzogiorno, padre Bernard decise che a pranzo avrebbe mangiato arselle. Incurante della regola che voleva che fosse il monaco dispensiere a decidere sul menù del giorno, si incamminò verso la casa del più giovane pescatore del borgo.
III
L’umile dimora di Massimo era composta da due stanze di circa venti passi ciascuna. Nella prima si trovava un tavolo le cui gambe erano, due di legno e le rimanenti erano state ricavate da una piccola colonna romana spezzata in due. Massimo, che tra le altre cose era anche un abile scalpellino, aveva lavorato entrambe le parti in marmo, in modo che combaciassero con il tavolato di legno. In questo modo, aveva ottenuto un rettangolo abbastanza grande da poter ospitare sei commensali. Due panche erano posizionate nei lati lunghi, mentre due sgabelli a capotavola finivano il giro. Il giovane aveva preso l’abitudine di usarli un giorno per uno, tant’è che lo stesso vizio era stato costretto a prendere Berano, il gatto di casa, che ci si appisolava puntualmente sopra. Nel muro che divideva le due stanze, era stato ricavato un camino in modo che potesse riscaldare frontalmente la cucina e contemporaneamente la camera sul retro adibita a stanza da letto. La porta d’ingresso era al centro della parete frontale della cucina e fungeva per metà anche da finestra, tramite un passante che bloccava entrambe le parti in legno.
Questo sistema era utilissimo per far passare aria nelle afose notti d’estate. Nella prima stanza, subito a sinistra, era stato collocato un acquaio ricavato da un blocco di calcare, dove Massimo poteva pulire le ciotole di legno e i vari oggetti usati per il desinare. L’acqua per fare tale operazione, veniva prelevata dal pozzo, situato nella piazzetta del borgo, tramite un vecchio tino. Di fianco all’acquaio, nell’altra parete, era stata ricavata una finestra piccola ma indispensabile, perché tramite essa si poteva vedere il viale principale fino all’ingresso del paese. Al lato della finestra, due mensole completavano lo spoglio arredamento. Quella che si definiva la stanza da letto, conteneva una stuoia di canne per riposare, un chiodo dove appendere la vecchia giacca e una finestra quasi sempre chiusa. Oggetti sparsi un po’ ovunque facevano capire che ci si trovava nella tana di un ragazzo. A differenza della prima stanza, era stato fatto con del fango il riempimento degli spazi tra una pietra e l’altra. Tale operazione permetteva di non far passare gli spifferi e quindi faceva in modo che la camera risultasse fresca d’estate e soprattutto, calda d’inverno. Il tetto era un insieme di foglie di palma, tavole e quant’altro potesse servire a frenare la furia delle intemperie. Temuta era specialmente la pioggia. All’esterno, un piccolo riparo per due galline, garantiva almeno un uovo giornaliero, un secondo ricovero serviva per la poca attrezzatura da pesca, spezzoni di fune, una decina di nasse e qualche palmo di rete rattoppata. Per finire, sotto una quercia, alcuni blocchi di marmo e calcare, da cui Massimo faceva scaturire piccole sculture di animali e oggetti vari. Questa da un po’ di tempo era la sua passione. A dire il vero, era parecchio tempo che campava solo grazie alla pesca e quindi si limitava a rifinire sculture già terminate, in attesa di poterle barattare, magari con una buona forma di formaggio, o un po’ d’olio.
IV
Giunto a casa, il pescatore prese il fagottino, sciolse il nodo fatto con le maniche della camicia e fece scivolare il porcospino davanti a una catasta di legna posta di fianco alla porta di ingresso. La piccola bestiola rimase appallottolata con il muso premuto sull’addome e incerta sul da farsi. Nello stesso istante si sentì una voce: «Ciao ragazzo». Massimo riconobbe subito quell’accento francese misto all’idioma locale e si voltò subito con un sorriso: «Salve monaco, qual buon vento?». A dire il vero, il giovane immaginava quale potesse essere il motivo della visita, visto che mancava poco all’ora di pranzo. «Voglia di arselle caro mio», disse mentre si guardava intorno. «Ne ho procurato proprio un catino pieno, ma dubito che potrai assaporarle oggi». Massimo accompagnò la frase con un lieve movimento delle sopracciglia. L’abate Bernard, si ricordò in quel preciso istante, che le arselle devono spurgare in acqua pulita, almeno un paio di giorni, per poterle gustare senza sgranocchiare sabbia. Era proprio un montanaro. Il giovane gli mise allora, in un sacco un paio di grosse anguille che aveva trovato nelle nasse la sera prima. «Queste dovrebbero soddisfare la tua voglia di pesce, almeno per oggi!» e gli porse il sacco, accuratamente chiuso con un pezzo di spago. «Se passi fra un paio di giorni, le arselle le mangeremmo insieme, magari con qualche scaglia di uova di muggine essiccata». Massimo, dava del tu al monaco quando erano soli, perché proprio lui gli aveva detto che un vero rapporto di amicizia, a meno che non ci fossero tanti anni di differenza, non sarebbe tale se ci si dava del voi. E loro, amici ormai lo erano diventati davvero. «Benedetto ragazzo tu mi farai diventare grasso come una mucca gravida». Cosi dicendo prese il sacco lo mise dentro la sporta e prima di incamminarsi aggiunse: «Passa domani al convento che saldiamo il conto, così posso mostrarti un lavoretto che vorrei mi facessi in chiesa». Strinse la mano al giovane e allontanandosi esclamò: «Comunque per il pranzo che vuoi organizzare a base di arselle, il vino lo porto io» e si diresse con passo lesto verso il non lontano convento. Massimo lo salutò con un cenno e appena si fu allontanato, si apprestò a entrare in casa. Prima di aprire l’uscio, notò con gioia che il porcospino si era messo al riparo tra due tronchi nella parte sinistra della legnaia. Sarebbe stato al sicuro dalle buche per un po’.
V
Quella di Massimo era una delle venti abitazioni che formavano il villaggio di Simbilia
. La popolazione era formata perlopiù da pescatori e addetti alla lavorazione del sale, un fabbro, un fornaio e qualche agricoltore. Una strada dritta piena di pozzanghere divideva in due il piccolo borgo. Da sud a nord dopo qualche abitazione, si trovava sulla destra il forno di Antine e di sua moglie Leonora. I due si erano trasferiti nel borgo circa due anni prima, quando si era sparsa la voce che i monaci del convento cercavano un bravo fornaio.
Antine, era arrivato dalla vicina Arsemini con moglie a carico e un carretto pieno di mattoni speciali. Ottenuto l’incarico, i monaci gli avevano concesso l’uso di una piccola abitazione di proprietà del convento, situata all’ingresso del borgo. In due giorni aveva tirato su un piccolo forno e da quel momento sfornava pane per il convento, gli operai delle saline e gli abitanti del villaggio.
Quasi di fronte vi era la bottega del fabbro Bartholo, che al contrario di Antine e Leonora, era nato nel borgo. Fin da piccolo, il padre gli aveva insegnato l’antica arte di forgiare le lame di spade, pugnali e coltelli vari, tanto che si servivano da lui, oltre alla gente del luogo, molti soldati del nuovo regno d’Aragona. Il fabbro, comunque non disdegnava fare anche qualche lavoretto di piccolo conto, come realizzare attrezzi agricoli, cardini per le porte e zoccoli per cavalli. Nonostante avesse superato i ventitré anni, non era sposato, ma gli piaceva la figlia maggiore della famiglia più povera del paese. La famiglia di Juanni Croxiu. La casa di Juanni era situata subito dopo quella del fabbro, lungo la stradina che portava al mulino e che poi costeggiando il ruscello, tornava al viale principale. Per questo motivo Bartholo, poteva vedere e scambiare quattro chiacchiere quasi tutti i giorni con Antioca, mentre andava al pozzo a riempire la brocca dell’acqua e talvolta, capitava che la accompagnava con la scusa di doversi dissetare. Juanni, veniva soprannominato croxiu
, perché avendo molti figli e facendo solo qualche lavoretto è saltuario perché non aveva una professione vera e propria, spesso e volentieri accettava qualche buccia di formaggio dai monaci del convento di Santa Caterina. Queste facevano la gioia dei suoi nove figli, di cui tre sotto i dieci anni. Spesso anche Massimo, anziché passare dalla strada principale per andare al pozzo, usava quella stradina e con la scusa di avere una andatura frettolosa e distratta, faceva scivolare dalla bisaccia qualche pezzo di pane oppure un pesciolino, come se cadessero per caso. A quel punto i figli di Juanni raccoglievano il bottino alla svelta per consegnarlo alla madre. Il padre, che era povero ma non stupido, notava il gesto del ragazzo e faceva finta di nulla. Un giorno, però, durante una serata ventosa in cui il tetto della casa di Massimo stava letteralmente volando via, l’uomo poté ricambiare il favore. Il giovane pescatore, che si era arrampicato in alto cercando di assicurare le tavole alle travi principali della copertura, si trovò di fronte Juanni, che con una destrezza sbalorditiva risolse il problema. Una volta scesi dal tetto, Massimo ringraziò l’uomo e naturalmente avrebbe voluto pagarlo, ma Juanni lo sorprese con poche semplici parole: «Può capitare a tutti di avere bisogno di aiuto». Così dicendo, gli fece un sorriso e andò via.
Amico del ragazzo era anche Tottoi, questi aveva suppergiù l’età di Massimo. Gli altri ragazzi, passavano tutto il giorno a lavorare con i loro familiari nelle più svariate attività, per cui ci si incontrava quasi sempre solo la domenica. Tottoi invece, coltivava la terra da solo, in quanto il padre era molto anziano. Proprio per questo motivo riusciva in modo organizzato a conciliare lavoro e svago.
Questo faceva anche il giovane pescatore, essendo rimasto orfano di entrambi i genitori, in una delle frequenti alluvioni della zona, aveva organizzato il lavoro in due fasi. Di notte posizionava gli sbarramenti per convogliare il pesce nelle nasse, all’alba recuperava il pescato e puliva reti e nasse dalle alghe. A mezza mattina solitamente stava già rincasando, e quando sulla via del ritorno attraversava lo stradone principale chiedeva all’uno o all’altro se necessitava qualcosa per il pranzo. Capitava delle volte di fare pesche abbondanti, in quei casi chiedeva un passaggio a Tottoi, perché tre volte alla settimana l’amico andava al mercato fuori le mura di Castro di Kalari, col carretto per vendere le verdure che coltivava nell’orto. Il pesce rimasto se lo dividevano tra loro. Massimo solitamente, per timore che andasse a male, lo cuoceva tutto alla brace e così facendo, con quel profumo attirava sempre qualche altro cliente. Conservava il tutto in un recipiente di terracotta pieno per metà di acqua, sale e uno spicchio d’aglio schiacciato. Con questo metodo il pesce, rimaneva commestibile per almeno un altro paio di giorni. Alla fine del percorso, quando cominciava a diventare maleodorante, spettava di diritto al gatto Berano.
VI
Il mattino del giorno seguente, Massimo rincasò prima del solito, mise in un catino pieno d’acqua il pescato non venduto e si mise a tracolla la bisaccia contenente la preziosa scatola di legno per gli attrezzi da scalpellino che custodiva tanto gelosamente: due scalpelli a punta, uno grande e uno piccolo, due scalpelli a taglio anch’essi di due misure; un grosso martello con il manico corto e un martellino per le piccole rifiniture. Completavano l’attrezzatura una decina di disegni raffiguranti capitelli, animali e rosoni scolpiti nella Roma antica e nel castro di Kalari. Tali disegni li aveva copiati l’abate Bernard, da un volume della biblioteca dell’archidiocesi di Marsiglia e avendo notato e apprezzato l’abilità del ragazzo, gliene aveva fatto dono. Per Massimo quei fogli erano il suo più grande tesoro. Fu proprio grazie a quei disegni che scoprì la sua passione. Scolpire animali. Inizialmente si limitava a correggere o a modificare sculture antiche provenienti dai resti delle antiche ville romane della zona. Da un po’ di tempo usava le lastre e i blocchi di marmo delle rovine per far nascere leoni, aquile, elefanti, serpenti e quant’altro fosse raffigurato nei disegni.
Appena arrivò davanti alla recinzione del convento, notò alla base dell’angolo destro del muro di cinta, l’inserimento di una colonna romana al posto delle pietre squadrate corrose dal tempo. I monaci avevano così provveduto a risolvere il problema con un impatto visivo veramente brutto.
Il ragazzo sperò che il piccolo lavoro di cui gli aveva accennato l’Abate, fosse perlomeno più interessante dal punto di vista artistico. Distolse gli occhi da quella colonna, cercando di non pensare a quale meravigliosa scultura sarebbe potuta scaturire da un così bel blocco di calcare. Continuò il cammino e senza fermarsi staccò un fico da una pianta a cinque passi dall’angolo e, assaporando il frutto, entrò a passo svelto nel cortile.
Subito a destra si trovava la fontana che serviva anche da abbeveratoio per i cavalli. Si notava subito che era stata appena ripulita, segno del grande impegno di padre Bernard.
Il minuscolo convento non era mai stato così in ordine, almeno da quando Massimo ne aveva memoria e entrando in chiesa ne ebbe conferma.
L’abate, insieme a uno dei tre frati che componevano la famiglia del convento, stava spazzolando i travi di ginepro della copertura dell’abside, togliendo i residui di calce che il mastro di muro nel rinforzare la parete, aveva maldestramente sporcato.
A Massimo venne in mente la grande festa dedicata a Santa