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Talismani
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E-book772 pagine10 ore

Talismani

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Info su questo ebook

Lavaur, 3 maggio 1211. Su volere di papa Innocenzo III, ben determinato ad annientare i catari e il loro credo, l’esercito cristiano ha appena fatto breccia tra le mura della città che, ormai priva di difese, sta per cadere sotto la sua furia distruttiva. Spetterà al giovane Guillaume, incaricato dal padre, il perfecto cataro Amaury, cercare di mettere in salvo se stesso e tutto il sapere delle loro genti. Una missione che lo impegnerà per tutta la vita e che lo condurrà, dopo varie vicissitudini, in una Linguadoca devastata dalle crociate. 
Estate 1438, in una Firenze pre-rinascimentale, il monaco Leonardo si reca al cospetto di Cosimo de’ Medici per portargli in dono un libro speciale: è l’inizio di un sodalizio che condurrà l’uomo di chiesa e il signore fiorentino a riscoprire un antico e ai più sconosciuto sapere volto alla ricerca della vera essenza di Dio.
Isola d’Elba, estate 2018. Il giovane Lorenzo affronta tre cene durante le quali risponde sinceramente a ogni domanda che gli viene posta. Non può ancora saperlo, ma presto intraprenderà un percorso che lo porterà a rinascere a nuova vita.  
Talismani di Davide Pelliccioni è un libro di domande e riflessioni che trascendono l’aspetto umano e volano alla ricerca del divino.

Davide Pelliccioni, impiegato presso la Cassa di Risparmio di Volterra S.P.A., è nato a Portoferraio l’11 gennaio 1977.  
Già autore de I custodi del Vello edito Myra edizioni, un primo romanzo storico ambientato nella sua terra natia, si avvicina nuovamente a quel genere con Talismani, un attento lavoro di ricerca di Dio tra le righe di meravigliosi testi antichi.
 
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788830619753
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    Anteprima del libro

    Talismani - Davide Pelliccioni

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-1975-3

    I edizione elettronica aprile 2020

    A mio padre, l'essenza della mia anima...

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Il monaco

    PROLOGO

    Campagna fiorentina, estate 1460

    I primi caldi raggi del sole mattutino sembravano giocare tra le rughe del suo volto stanco, disegnando piccole ombre in continuo movimento. L’uomo aveva dormito poco quella notte e, così, anche durante quelle precedenti. L’ansia di portare a termine la sua missione e il desiderio di condividere le sue scoperte gli avevano strappato il sonno, donandogli quella resistenza fisica che possedeva un tempo, durante la sua rimpianta gioventù. Adesso, ormai prossimo alla sua meta, sulle spalle portava il fardello di quel difficile viaggio dal quale stava facendo ritorno e, nel cuore, l’immensa fierezza per ciò che era riuscito a recuperare.

    Lentamente, in groppa al somaro che cavalcava, si avvicinò una mano agli occhi per proteggerli dalla luce accecante e lasciò vagare lo sguardo nella campagna circostante. Osservò, curioso, un gruppo di contadini intenti a trasportare alcuni utensili, necessari per il duro lavoro nei campi. Ne seguì con lo sguardo uno, basso e robusto, mentre invano cercava di acciuffare una gallina fuggita da chissà quale pollaio. Poi, divertito, osservò un grosso casolare che dominava incontrastato una collinetta colorata con il giallognolo di un’erba arsa dal sole.

    Si chiamava Leonardo e proveniva da Pistoia. Era un vecchio monaco toscano che, ormai da anni, lavorava al servizio di Cosimo de’ Medici, signore di Firenze, che lo aveva assoldato per procurarsi alcuni manoscritti rari e secolari custodi dell’antica conoscenza ormai perduta. Per il suo signore, più volte, aveva calpestato terre straniere facendo sempre ritorno a Firenze per consegnargli il suo bottino ma, questa volta, quell’ultimo e difficile viaggio in Macedonia aveva superato tutte le aspettative. Pur pagando una cifra esorbitante per quell’epoca, aveva ottenuto alcuni testi particolari, un tempo conosciuti e diffusi ma, da più di mille anni, proibiti e censurati dalla Chiesa.

    Come per rassicurarsi su ciò che trasportava, l’uomo torse il busto e, con una mano, frugò ansiosamente in uno dei due fagotti legati ben saldi ai fianchi dell’animale. Con soddisfazione sentì i lisci contorni del meraviglioso libro che esso conteneva e, per un attimo, si abbandonò al piacere di accarezzarlo un poco, poi, sorridendo, richiuse la sacca e osservò la villa di campagna del suo signore dove, presto, lo avrebbe consegnato.

    Non poteva saperlo, ma quel testo era stato scritto ad Alessandria durante i primi secoli dell’era cristiana e trattava della scienza tramandata da Toth, il dio egizio della saggezza, colui che i greci identificarono con Ermete Trismegisto.

    Grazie a quel suo ultimo viaggio, ben presto, la ricca Firenze, sarebbe stata inondata da una straordinaria rivoluzione intellettuale.

    La breccia

    CAPITOLO I

    Cittadina di Lavaur, 3 maggio 1211

    Un boato scosse la campagna di Lavaur, seguito dalle urla di gioia di centinaia di soldati.

    Non appena la porzione di mura cedette ai continui e possenti attacchi delle catapulte, decine e decine di palle infuocate illuminarono la città. Preferite ai pesanti macigni utilizzati sino a quel momento per arrecare più distruzione possibile tra le abitazioni degli assediati, sfere imbevute di olio o di pece, come piccole meteore, dapprima graffiarono il cielo avvolto dall’oscurità più totale e poi, quasi all’unisono, iniziarono a cadere sugli obiettivi seminando terrore e distruzione. Per intimorire i residenti, dal cielo caddero persino i corpi dei compaesani catturati e torturati nei giorni addietro; anche alle carcasse dei cavalli, che questi cavalcavano, non venne risparmiato quel macabro scempio. Gli assedianti avevano già utilizzato quella metodologia, ottima per incrinare il morale degli assediati e per scatenare epidemie all’interno delle mura della città qualora questa fosse restia a cadere ma, quella notte, decisero di farlo al solo scopo di mostrare la loro supremazia, la loro potenza, il potere dell’unico vero Dio che essi rappresentavano. Non ci fu altro scopo. Il breve assedio era già giunto al termine, il momento tanto temuto dai cittadini di Lavaur era appena iniziato.

    L’imminente arrivo dell’esercito crociato era già stato annunciato qualche mese addietro quando, nelle campagne, alcuni contadini avevano scorto un nutrito gruppo di uomini che procedevano lentamente, uno dietro l’altro, legati tra loro con pesanti catene. Provenivano da Minerve¹, l’ultima cittadina catara appena caduta sotto le mani dei crociati e del loro capo Simon de Montfort². Tutti avevano subito le medesime torture: gli erano stati cavati entrambi gli occhi, mozzato il naso e il labbro superiore, recise le orecchie. Solo a uno di essi, il primo della fila, gli era stato lasciato un occhio. Non certo per compassione, ma per il solo scopo di guidare ciò che rimaneva degli uomini al suo seguito verso la città e qui recapitare ai difensori di quella roccaforte il chiaro messaggio dei soldati della Chiesa Romana.

    Solo uno di questi, distrutto nel fisico e nell’animo, era riuscito a sopravvivere, grazie alle cure ricevute dai cittadini di Lavaur e adesso, vittima per la seconda volta della vendetta del Dio cristiano, urlava e si contorceva al suolo invocando una morte rapida e indolore, unica via di fuga per la sua anima da quel mondo materiale dominato dal male.

    Nel XII secolo, in Provenza e in Linguadoca, si era sviluppata una religione che era riuscita, rapidamente e con successo, a spiazzare la Chiesa Cattolica Romana in regioni tanto vicine alla sede del suo potere. Questo nuovo Credo si basava essenzialmente sull’interpretazione differente di alcuni concetti basilari della cristianità. Infatti, pur riconoscendo Gesù Cristo così come i cattolici, sino al punto di autodefinirsi buoni cristiani, i catari³ o albigesi⁴ relegavano a questa figura un ruolo radicalmente diverso, venerandolo come essere di puro spirito nato da una derivazione dell’unico Dio Buono.

    Alla base della loro religione, vi erano due divinità ben contrapposte, un Dio del Bene che regnava sul regno spirituale, immateriale, immerso nella luce, unico capace di creare, come emanazione della sua stessa essenza, le anime degli uomini, e un Dio del Male che invece dominava il mondo materiale soggetto alle leggi della fisica. Già questa prima ferma convinzione comportava una grande differenza dal credo cristiano. Difatti, mentre per questi ultimi la terra era stata creata da Dio e qui vi aveva creato l’uomo per abitarla e goderne dei frutti, per i catari la terra non era altro che il regno del Dio del Male, un luogo dove vigevano le sue leggi. Su questo mondo, Satana era riuscito, con l’inganno, a far cadere l’uomo riuscendo a convincere il Dio del Bene a elargire delle anime pure che subito aveva imprigionato in corpi di fango e acqua. Il genere umano quindi, in origine creato come emanazione del bene sommo, con l’inganno, fu relegato a vivere un’esistenza in un mondo dominato dal male⁵. Ecco perché i catari rinnegavano categoricamente l’incarnazione sulla terra del figlio di Dio (la sua decisione di abitare un misero corpo fatto di carne e ossa per vivere tra gli uomini nel regno dominato dal suo opposto) e, conseguentemente, gli insegnamenti della sua vita. Di conseguenza, anche la crocifissione era, per loro, un evento in realtà mai avvenuto. Il mondo, ai loro occhi, non era altro che un luogo di sofferenza, castigo, iniquo e crudele, dove l’anima pura imprigionata nel corpo, doveva operarsi per rifiutare quelle tentazioni materiali, doveva districarsi nel male per purificarsi al fine di riunirsi nell’immane luce del Dio buono. Nel pensiero cataro, per raggiungere quell’unico primario fine, non bastava una sola vita, ma occorrevano più reincarnazioni. Solo nell’arco di più esistenze vissute con un comportamento giusto, corretto e nella costante ricerca della conoscenza, della rivelazione individuale e sull’espressione di sé, l’anima avrebbe raggiunto il grado di purificazione necessario per ottenere il suo scopo. L’ignoranza, per gli eretici, altro non era che la madre di tutti i mali, uno status che rendeva l’uomo schiavo; solo la conoscenza consentiva la libertà, dava la capacità di fuggire dall’oblio nel quale erano caduti gli esseri viventi.

    Reincarnazione, libertà e conoscenza. Concetti in netto contrasto con la chiesa di Roma. Il primo, ovviamente rifiutato seppur a livello concettuale, non rappresentava di per sé un vero problema per il mondo cristiano, il secondo e il terzo invece sì. Ricercare la conoscenza significava, per il cristianesimo, far togliere quelle stesse bende che, nei secoli, la Chiesa era riuscita a imporre sugli occhi dei suoi seguaci. Troppi sforzi erano stati fatti per sottomettere i popoli, troppe verità erano state celate o distrutte e, adesso, quelle stesse verità non potevano presentarsi e diffondersi nuovamente. L’insegnamento rivoluzionario cataro era estremamente pericoloso e, per questo, doveva essere soppresso il prima possibile e con l’unico mezzo adatto a tale scopo. Il totale annientamento dei miscredenti e di ogni elemento che conducesse al loro credo.

    Era questa la profonda convinzione anche del Papa, rappresentante di Dio in terra per i cristiani, primario simbolo del Dio del Male in terra secondo l’eretica religione.

    Per questi e molti altri motivi, il 24 giugno 1209, un possente esercito era uscito dalle porte di Lione e, per espressa volontà di papa Innocenzo III⁶, aveva iniziato a invadere l’Occitania.

    Questa forza demoniaca o esercito di coraggiosi crociati, a seconda dei punti di vista, seminò morte e distruzione ovunque mostrando una ferocia che mai le terre d’Europa ebbero la sfortuna di vedere.

    I primi insediamenti urbani, incapaci di difendersi, erano stati estirpati in pochissimo tempo. I ventimila uomini capitanati da Arnaud-Amalric⁷, legato pontificio che ben si era distinto per le sue predicazioni a favore dello sterminio dei catari, erano riusciti a lasciarsi alle spalle il minor numero possibile di superstiti torturando e uccidendo ogni eretico senza curarsi né dell’età né del sesso.

    La prima città a cadere era stata la prospera Béziers⁸. Le sue mura alte e ben difese nulla avevano potuto contro la furia crociata. Dopo un lungo assedio, l’esercito di Dio era entrato in città e aveva compiuto un massacro. Erano stati passati alle armi tutti. Vecchi, donne e bambini erano morti tra le più atroci sofferenze. Ovunque enormi roghi avevano accolto corpi sempre in vita, mentre teste mozzate e infilzate sopra lunghe aste di legno sembravano osservarli in silenzio.

    Anche ai cristiani che abitavano nella cittadella era toccata la stessa sorte. Incapace di riconoscere chi appartenesse a quale religione, spinto dal desiderio di uccidere comunque ogni cataro, Arnaud-Amalric aveva ordinato ai suoi uomini di ucciderli tutti, delegando al regno dei cieli il compito di riconoscere le anime⁹.

    Era venuta, poi, la volta di Carcassonne, che si era arresa quasi subito. L’anno seguente, lo stesso esercito capitanato da Simon de Montfort¹⁰, motivato dalla nuova crociata indetta dal Papa, aveva distrutto la fortezza di Bram, poi aveva devastato Caberet e la città fortificata di Minerve. E adesso, con la stessa ferocia, stava per conquistare Lavaur.

    I primi ad entrare dalla breccia furono i ribauds, civili non pagati al seguito dell’esercito aggregatisi alla crociata per fini meramente materiali. Un’accozzaglia di balordi, assassini, ladri e stupratori armatisi dello scopo di far proprio tutto ciò che valeva la pena di rubare o di soddisfare la loro voglia omicida. Scalzi e vestiti con pochi stracci, brandivano come arma ogni oggetto che poteva tornare utile per uccidere una persona. Certo, alcuni avevano delle spade sottratte a qualche cadavere durante gli assedi precedenti, ma i più utilizzavano vecchie asce arrugginite o rozzi bastoni chiodati assemblati per l’occasione. Uccisero ogni abitante che gli si presentò davanti. E, ogni volta che un nemico cadeva a terra, in molti si gettavano sul corpo orrendamente mutilato e, come cani randagi sulla preda, cercavano di accaparrarsi ogni bene di valore. L’esercito cristiano si annunciò così, mostrando il peggio che il genere umano poteva offrire.

    Al loro seguito i routiers, temibili mercenari assoldati per la ferocia priva di scrupoli; urlavano e incitavano l’ammasso di gentaglia inferocita che compiva un così grande scempio, mentre qua e là qualche santo vagabondo se ne stava in disparte intento ad accendere dei falò sui quali avrebbero ben presto gettato il corpo di ogni infante eretico che avrebbero trovato tra le macerie, nella sicura convinzione che, con simili gesti, si sarebbero guadagnati una speciale indulgenza in paradiso.

    Urla, sangue, ferro e fuoco dominavano incontrastati sulla città.

    «Sono entrati! Hanno aperto una breccia!».

    Sfruttando l’ottima visuale concessa dalla sua abitazione, un giovane cataro di nome Guillaume Ginestre osservava, stupito, ciò che stava succedendo ai suoi compaesani e riferiva, con dovizia di particolari, tutto quello che poteva scorgere tra le vie della città. Era figlio di Amaury, un perfecto¹¹ cataro che in silenzio, seduto poco distante, bisbigliava una preghiera a bassa voce assieme a un altro suo pari e a una donna di nome Guiraude, appartenente all’aristocrazia locale. Era stata lei a convocare, in quell’elegante dimora, i due catari con i quali amava affrontare le più attente conversazioni in merito ai più svariati argomenti che spaziavano dalla matematica all’astrologia, dalla medicina alla politica. Amaury, come spesso faceva quando ritornava in visita nella sua città natale, aveva portato con sé il figlio Guillaume per iniziarlo alla scienza del vero e del giusto.

    Contrariamente ai vizi, alle abitudini sessuali, al lusso di cui amavano inebriarsi i vescovi cristiani del tempo, i perfecti catari praticavano la castità, l’umiltà, l’estrema povertà. Refrattari alla guerra e dediti a lunghi digiuni, avevano lo scopo di viaggiare continuamente per evangelizzare quanti più credenti possibili. Quando ricevevano questo incarico, abbandonavano ogni bene materiale e concentravano la loro esistenza alla sola crescita spirituale e culturale nel rispetto dell’essenza del loro credo. Così aveva fatto Amaury. Pur amando sua moglie, aveva lasciato ai suoi due figli la sua abitazione e un modesto terreno coltivato per mettere a disposizione il suo sapere, la sua concezione di Dio e dell’universo a tutti. Aveva deciso di far ritorno solo pochi giorni addietro quando aveva saputo che l’esercito cristiano stava marciando verso la sua città natale. Certo che non avrebbe combattuto, atto indegno per un uomo del suo rango, aveva cavalcato senza sosta per una notte e un giorno per affrontare quella catastrofe assieme ai suoi cari.

    Guillaume si voltò nuovamente e diresse lo sguardo al di fuori della finestra. Casualmente, scorse un corpo informe piombare dal cielo e lo seguì con lo sguardo sino a che si sfracellò sul tetto della casa sottostante. Le membra di quello che pochi istanti prima era un uomo, si sparpagliarono sulle tegole dismesse e un rivolo di sangue iniziò a colare lungo la parete laterale di quell’abitazione. Il ragazzo osservò incredulo quel liquido rosso scuro farsi strada tra i mattoni sino a quando scorse, attraverso una finestra poco distante, la figura di una giovane donna che, in lacrime, con il volto sfigurato dal terrore, stringeva al petto il corpo di un bambino che incredulo si guardava attorno.

    Quell’immagine s’impresse nella mente del giovane come le molte altre che, di lì a poco, ebbe la sfortuna di osservare.

    Alcune grida catturarono la sua attenzione. Guillaume si sporse un poco dalla finestra e diresse lo sguardo verso una stradina circostante. Poco oltre una stalla in fiamme, cinque uomini, più simili a demoni che a creature di Dio, stavano strattonando una giovane donna vestita con una vestaglia candida. Uno di essi la prese con forza e la appoggiò con il petto sul tavolo di legno di quella che, fino a pochi momenti prima, era un’osteria. Con violenza inaudita afferrò un lungo coltello arrugginito, che teneva legato alla cintura dei pantaloni, e lo conficcò nella spalla della sua vittima. Compì quel gesto con forza. Voleva assicurarsi che la punta della lama, oltrepassato il corpo della donna, potesse penetrare anche il legno della tavola sì da immobilizzare la sua preda. Poi le alzò le vesti e, incurante delle grida di terrore, si calò le braghe e iniziò a violentarla. Poco dopo, senza un’apparente ragione, il più grassottello alzò la sua spada al cielo e, con un movimento brusco, tagliò di netto la testa della ragazza suscitando altre risa nei compagni e lo stupore di quello che stava approfittando di lei.

    «Oh mio Dio!» la reazione di Guillaume non mancò. Come per purificarsi da quella visione, il ragazzo serrò con forza le palpebre degli occhi e portò entrambe le mani al volto. Si allontanò dalla finestra e si rivolse a una figura poco distante: «Padre! Ci stanno massacrando! Dobbiamo fare qualcosa!».

    «Non possiamo fare nulla figlio mio, se non pregare e attendere che la nostra anima si ricongiunga a Dio».

    «Ma cosa state dicendo? Quei soldati stanno facendo scempio della nostra gente e voi non avete intenzione di reagire? Perché non combattete? Voi, un tempo, eravate un ottimo uomo d’arme; cosa aspettate a brandire la vostra spada contro questi demoni?». Guillaume, pur sapendo quale risposta avrebbe ottenuto a quelle domande, non riuscì a trattenere la rabbia che gli ardeva dentro.

    «Figliolo, come ben sai, ho rinnegato il mio passato per seguire gli insegnamenti di Dio...».

    «Vi prego smettetela!» lo interruppe il ragazzo. «Quella gente, non solo ci sta uccidendo uno per uno ma sta annientando la nostra cultura, sta soffocando il nostro credo, la nostra anima; non potete non far niente di fronte a questo! Ovunque, assieme alle persone, hanno bruciato ogni documento, ogni libro che ci appartiene! Tra non molto, non esisteremo più!».

    Udite quelle parole il vecchio Amaury, ancora seduto, alzò lo sguardo dal suolo e osservò suo figlio primogenito di appena quindici anni. Ben sapendo che quella sarebbe stata l’ultima volta, accarezzò con lo sguardo i dolci lineamenti di quel viso bianco come il latte e, con l’amore che solo un padre può provare, si immerse in quegli occhi scuri lasciando che le immagini di un passato ormai lontano gli offuscassero la mente. Lo ricordò bambino, in fasce, cullato tra le sue braccia, e giovane ragazzino intento a giocare spensierato con gli amici. Rivisse le prime letture fatte assieme, le disquisizioni sulla religione. Mai, come in quell’occasione, si rese conto quanto fosse orgoglioso di lui. Pianse non appena riportò alla mente i fatti di quella notte. Ben presto i soldati crociati avrebbero posto la parola fine a quella vita assieme. Quel pensiero lo fece sobbalzare:

    «No. Non combatterò!» esordì. «Non rinnegherò il mio Dio, la mia parola! Se vorranno strappare la mia anima al mio misero corpo glielo lascerò fare. Sarò alla loro mercé, ma lo sarò soltanto io! Per te, figlio mio, ho riservato un altro compito. La nostra fede non morirà né questa notte né mai!».

    L’uomo si alzò e, frettolosamente, raggiunse la porta d’ingresso dell’abitazione. La aprì e si sporse un poco per assicurarsi che la strada antistante fosse deserta, poi si voltò verso gli altri e ordinò:

    «Presto, seguitemi! Forse siamo ancora in tempo!».


    1 Fu proprio Minerve la prima città a cadere sotto l’esercito della Santa Romana Chiesa. In quell’occasione, più di 150 catari si gettarono spontaneamente tra le fiamme dei roghi che erano stati preparati dai crociati.

    2 Simone di Montfort prese il comando dell’esercito crociato nell’agosto 1209. Spietato e crudele, morì la mattina del 25 giugno 1218 colpito da un proiettile scagliato da una catapulta posta sulle mura di Tolosa.

    3 Dal greco katharos ovvero puro.

    4 Da Albi, città della Linguadoca, importante sede del nuovo movimento.

    5 I miti dualistici catari raccontano che, dopo che il Dio del Male aveva creato la terra, non soddisfatto di ciò che aveva compiuto, cercò di modellare (con acqua e fango) degli uomini. Tuttavia, per quanto tentasse, non riusciva a infondere lo spirito della vita in quei corpi. Per tale motivo, mosse una delegazione di demoni al Padre Buono, unico essere capace di elargire lo spirito della vita. Proprio per la sua natura benevola questi acconsentì e le molte statue di fango create dal Dio del Male presero vita. Un numero consistente di anime cadde sulla terra e vi rimase imprigionato. Queste, per il pensiero cataro, riusciranno a sconfiggere il male solo quando, da sole, riusciranno nuovamente ad ottenere, nel corso di più vite, quella purezza che persero in quell’occasione.

    6 Già nel 1204-1207, papa Innocenzo III aveva proposto al re di Francia, Filippo Augusto, di aiutarlo a estirpare l’eresia che stava dilagando a sud del paese, ma senza ottenere risultati. Il re, infatti, era troppo occupato a combattere il re d’Inghilterra, Giovanni Senza Terra, per impegnarsi in una crociata. Per tali motivi, inizialmente, il padre della chiesa romana, si limitò a distribuire scomuniche (tra le più famose quella a Raimondo di Tolosa, signore di una delle principali città in mano catara) e a contrastare la crescita del movimento eretico inviando gruppi di missionari in Linguadoca che, tuttavia, non riuscirono ad ottenere il risultato sperato. Fu proprio l’assassino di uno di questi, il legato papale Pierre de Castelnau a scatenare la furia omicida del Papa.

    7 Arnaud Amalric o Amaury o, in italiano Almarico, abate di Cîteaux e legato pontificio di papa Innocenzo III.

    8 Città situata nella pianura dell’Herault a una decina di chilometri dal mar Mediterraneo.

    9 Una canzone di Guiraut Riquier di Narbonne, uno degli ultimi trovatori occitani, riuscì bene a descrivere le dimensioni della tragedia:

    «Béziers è caduta. Sono morti.

    Chierici, donne, bambini. Senza pietà.

    Uccisero anche i cristiani.

    Uscii a cavallo. Non potevo sentire o vedere anima viva...

    Ne uccisero settemila,

    Settemila anime che cercarono rifugio in Santa Maddalena.

    I gradini dell’altare

    Erano bagnati di sangue.

    La chiesa echeggiava di grida.

    Dopo massacrarono i monaci

    Che suonavano le campane.

    Usarono una croce d’argento

    Come ceppo per decapitarli».

    10 Simone IV di Montfort, in francese Simon IV de Montfort (1165 circa – Tolosa, 25 giugno 1218), fu signore di Montfort-l’Amaury e quinto conte di Leicester, conte di Tolosa, duca di Narbona, visconte di Béziers e visconte di Carcassonne. Fu al comando della crociata albigese dal 1209 al 1218.

    11 I Perfecti ripugnavano la guerra e non potevano brandire armi neanche per difesa personale. Solo i credentes potevano farlo.

    Uccideteli tutti!

    CAPITOLO II

    Cittadina di Lavaur, 3 maggio 1211

    Pressoché equidistante tra le città di Albi e di Tolosa, il borgo di Lavaur sorgeva immerso nel verde della campagna francese, sulla sponda sinistra del fiume Agout, uno degli affluenti del Tarn nel quale confluiva, nei pressi di Saint-Sulpice. La città, che radicava le fondamenta sui resti di un antico insediamento romano, poteva godere quindi di un duplice beneficio: nei periodi di pace, aveva l’opportunità di sfruttare al meglio i vantaggi commerciali che un sì vicino corso d’acqua offriva per il trasporto delle merci e, nei periodi di guerra, poteva garantirsi una buona protezione di fronte a un eventuale attacco nemico.

    Anche quella notte, l’Agout aveva svolto appieno il suo compito. L’esercito crociato, infatti, aveva preferito concentrare le sue forze nei tre lati del borgo protetti soltanto dalle mura e lasciare poche centinaia di soldati, perlopiù arcieri e cavalieri, al lato est, dove il fiume faceva da padrone. Agli occhi di Simone di Montfort, sarebbe stato inutile concentrare un attacco alla città da quella zona. Pochi uomini, le catapulte e i trabucchi sarebbero bastati a difendere la sponda e a seminare morte tra le case.

    Tra le vicine urla dei concittadini morenti e dei loro carnefici, celate costantemente dal rumore sordo delle mura che si sgretolavano sotto i colpi dei trabucchi, quattro sagome avanzavano protette dal buio di una viuzza e, una dietro l’altra, stavano procedendo verso est. Amaury sapeva bene quale doveva essere la loro meta ma, a stento, cercava di trattenere il timore di non riuscire a portare a termine il piano che si era prefissato.

    «Presto! Fate presto! Da questa parte!» disse a bassa voce mentre indicava una stradina colma di macerie: «Dobbiamo passare di qua! Non possiamo permetterci di perdere tempo!».

    «Eretici!» le grida di un gruppo di ribauds catturò l’attenzione dei fuggiaschi.

    Guillaume, d’istinto, si voltò e osservò terrorizzato quella marmaglia di demoni vestiti del sangue delle loro vittime, che procedeva verso di loro.

    «Ci hanno visto!» urlò mentre sentiva la paura che prendeva possesso del suo corpo. «Sono troppo vicini, ci raggiungeranno!» continuò ormai certo dell’imminente fine.

    Udite quelle parole, il secondo perfecto si fermò e si rivolse ai compagni che lo precedevano. «Voi andate!» esclamò. «Per un poco li tratterrò io!» disse prima di iniziare a correre verso i nemici.

    Riuscì a percorrere solo pochi metri. Una lancia rudimentale lo colse in pieno petto e gli trafisse il cuore. Quell’impatto inaspettato fermò la sua corsa lasciandogli solo la forza di lanciare un ultimo sguardo al cielo nella speranza di osservare ancora una volta quel luogo ove presto la sua anima sarebbe ritornata. Poi cadde sulle sue ginocchia e, immobile, così rimase sino a che uno degli inseguitori lo colpì al capo con un bastone chiodato. Un misto di sangue, ossa e cervella si mischiarono al suolo fangoso della via.

    Poco dopo, nei pressi di una piccola piazza, toccò a Madame Guiraude. Due uomini sbucati dalle tenebre la immobilizzarono gettandosi sopra di lei. Altri la accerchiarono.

    La cattura di una sì elegante preda femminile distrasse i soldati che interruppero l’inseguimento ben consci che le altre due figure non avrebbero avuto modo di fuggire a lungo dalla mano vendicatrice del loro Dio.

    Madame Guiraude subì dapprima le violenze sessuali di una parte di quei rozzi uomini, che dopo, esaltati dalle grida della donna e per mero divertimento, decisero di gettarla, ancora viva, in un pozzo poco distante e lapidarla utilizzando delle pietre raccolte tra i calcinacci disseminati per tutta la piazzetta¹².

    Mentre fuggiva, ben consapevole che non avrebbe potuto far nulla per salvare quella compagna di piacevoli conversazioni, Amaury lasciò che lacrime amare gli inumidissero il volto rugoso. Per un istante, volse lo sguardo in direzione di quel branco di bestie che si accanivano sulla donna. Li vide farsi beffa di quel corpo inerme abbandonato alla loro mercé, alla loro follia. Il pensiero di non averle potuto conferire il consolamentum gli trafisse il cuore. In piena concezione dualistica, infatti, parallelamente al battesimo, per i catari questo sacramento da elargire al morente, era un atto di estrema importanza che colmava il ricevente di Spirito Santo e ai più meritevoli poteva persino aprire la porta del Regno dei Cieli interrompendo il ciclo di reincarnazioni alle quali era costretta la povera anima per purificarsi.¹³ Ancora una volta, il Dio del Male aveva trionfato privando per sempre la terra dell’enorme cultura che quell’esile dama possedeva e divulgava agli altri. Un sacrificio inutile e ingiusto che, tuttavia, donò all’uomo e al suo giovane figlio il tempo necessario per attraversare un vasto spazio privo di case e raggiungere, sulla sommità della piccola collinetta, l’ingresso dell’imponente cattedrale, costruita decenni addietro dai monaci di Saint-Pons-de-Thomières sopra ciò che rimaneva di una vecchia chiesa in stato d’abbandono.¹⁴

    Affidandosi al volere del loro Dio, corsero senza curarsi di evitare le enormi palle infuocate che cadevano dal cielo e si sfracellavano ovunque. Guillaume ne vide una infrangersi contro il monastero già in fiamme adiacente alla casa di Dio, mentre un’altra si disintegrò sulle mura dell’unico campanile che crollò su se stesso. Non vi era più fede, rispetto per questa o quella religione, quell’attacco altro non era che un immane massacro che ogni vero Dio avrebbe ripudiato.

    Giunti di fronte a un piccolo ingresso secondario, Amaury estrasse una chiave dall’unica tasca della tunica nera, tipico abbigliamento della categoria di uomini ai quali fiero apparteneva, e la infilò nella serratura. Gli attimi seguenti sembrarono interminabili; Guillaume, in preda al terrore più puro, continuò a guardare la piazza continuamente bombardata dai trabucchi poco distanti, nella paura di intravedere nuovamente gli assalitori, lasciando vagare lo sguardo in ogni dove. Con attenzione, osservò tra le mura diroccate delle case poco distanti, illuminate dalle fiamme che ovunque imperversavano, o tra le tenebre che avvolgevano alcune viuzze della città. Fu proprio da una di queste che, impietrito, riuscì a intravedere un piccolo gruppo di crociati che procedeva verso di lui.

    «Fate presto, padre, ci hanno visto!» a stento riuscì a trattenere le urla che bramavano di uscirgli dalla bocca. «Vi prego, ho... ho paura!» balbettò.

    Il tanto desiderato scricchiolio causato dalla rotazione della chiave tra gli ingranaggi della serratura non fu sufficiente a calmare il ragazzo. Quel branco di uomini aveva appena iniziato a correre verso i due catari, ben riconoscendo, in uno di esso, le vesti tipiche del perfecto e dunque dell’ambita preda.

    Con un movimento tanto repentino quanto inatteso, Amaury afferrò suo figlio per un braccio e lo strattonò all’interno della cattedrale e, non appena anche l’uomo guadagnò quell’ingresso, chiuse con foga la piccola porta per poi assicurarla con una serie di giri di chiave. Poi, indicò una zona poco distante dall’altare principale in parte distrutto da un macigno lanciato da una catapulta che aveva sfondato la porzione di tetto poco sopra quella sacra tavola di marmo.

    «Non abbiamo molto tempo, seguimi!» ordinò.

    «Dove padre?».

    «Fidati delle mie parole e seguimi senza discutere!» rispose l’uomo prima di iniziare a correre verso la zona appena indicata.

    Guillaume seguì il padre senza proferir parola. Si fidava ciecamente di quell’uomo, nonché maestro di vita e di conoscenza, ma non poté fare a meno di esprimere tutto il suo disagio non appena raggiunse la meta prefissata.

    «Ma qui non c’è niente!» esclamò deluso mentre i violenti colpi dati alla porta dal gruppo di crociati risuonavano all’interno dell’edificio.

    «Osserva figliolo, ascolta e taci!» serio in volto, con lo sguardo fisso sugli occhi intrisi di paura del figlio, l’uomo pronunciò quelle poche parole poi, in silenzio, si chinò sulle ginocchia e con le mani iniziò a togliere una buona parte del pulviscolo che celava la pavimentazione della casa del Signore: «Devi sapere, Guillaume, che questa cattedrale è sorta sopra i resti di un’antica chiesetta abbandonata e quest’ultima, a sua volta, venne eretta sopra ciò che rimaneva di un antico insediamento romano. Gli architetti del tempo, ben capaci nel loro mestiere e in ugual misura consci di quanto fosse importante mantenere in essere alcune stanze interrate di quelle antiche costruzioni, ne preservarono alcune. Una di queste, quella che si trova proprio sotto i nostri piedi, da anni è stata utilizzata da noi catari come nascondiglio dei testi a noi più cari, libri che racchiudono gran parte della nostra essenza, del nostro credo, dei nostri segreti; antichi testi scritti in lingue ai più sconosciute, che incarnano e soddisfano parte della nostra sete di conoscenza e che, per nessuna ragione al mondo, devono cadere nelle mani dei crociati. Io adesso li affido a te, alla tua protezione. Consegno nelle tue mani la nostra storia, il sapere che alimenta le nostre anime, fa’ in modo che questo non lasci il mondo materiale questa notte e proteggilo con tutte le forze che hai! Forse impiegherai tutta la vita per eseguire questo compito, ma sappi, sin da ora, che solo la ferma volontà e la fede in te stesso, guidati dalla ragione e dall’amore della giustizia, ti condurranno allo scopo che io oggi ti affido e ti preserveranno dai pericoli che incontrerai nel tuo cammino».

    Udite quelle parole, Guillaume rimase stupito. Mai, nel corso della sua breve esistenza, aveva messo in dubbio le affermazioni del padre ma, in quella particolare circostanza, con l’arrivo di quei demoniaci macellai, non riuscì a comprendere appieno il motivo dell’incarico che gli era appena stato affidato. «Padre – iniziò a parlare –, vi prego di scusarmi, ma non vi comprendo. Questi libri sono già ben al sicuro dai nostri assalitori, non riesco a capire in che modo io possa...».

    «Lo farai un giorno, ma solo se riuscirai a salvarti la vita adesso!» lo interruppe Amaury. «Adesso non hai né il tempo né le capacità per comprendere interamente le mie parole!» aggiunse l’uomo mentre, con fatica, spostava una lastra di marmo usata per la pavimentazione dell’edificio rivelando un piccolo pertugio immerso nell’oscurità. Poi, non appena si riprese dallo sforzo, continuò indicando il passaggio appena indicato. «Voglio che tu ci entri adesso figlio mio. Là sotto troverai la nostra biblioteca. Non perdere del tempo a osservare i libri, ma dirigiti verso la parete rivolta a est, là scorgerai un piccolo accesso a una grotta che ti permetterà di uscire tra i massi posti sulla sponda del fiume. Laggiù, approfittando delle tenebre, dovrai cercare di non farti vedere dai soldati di guardia nei pressi del corso d’acqua e dovrai raggiungere, nuotando, il borgo più vicino».

    «E i libri? Come posso trasportare i libri?» domandò Guillaume.

    «Come ti ho già detto non dovrai toccarli!» ripeté l’uomo. «Per adesso devi cercare di salvarti la vita e tenere questo segreto per te. Solo quando questo massacro smetterà di insanguinare l’Occitania dovrai tornare a Lavaur e prenderli tutti. In quel preciso istante avrà inizio il compito che ti ho assegnato!».

    «Prenderli? E cosa ci dovrò fare? Dove li dovrò portare?».

    «La luce di Dio, unita al tuo vero io, ti guideranno nelle decisioni!». Fu l’enigmatica risposta di Amaury.

    «E voi, padre, perché non venite con me?».

    L’uomo lasciò che alcune lacrime gli inumidissero gli occhi e, a bassa voce, sussurrò ciò che Guillaume in cuor suo già sapeva: «Io non posso accompagnarti figlio mio!».

    «Perché, perché volete sacrificarvi? Fuggite con me padre, vi prego! Non lasciatemi!».

    «Perché ho già seguito la parola di Dio! Sai figlio mio, il sacrificio è una legge divina dalla quale nessuno è dispensato. Per tale ragione è necessario tenere la nostra anima sempre pronta a render conto all’Eterno, perché se la morte violenta interrompe il nostro cammino o se il mondo attenta alle nostre vite terrestri, non si può cedere alla morte senza prima accettare con rassegnazione questa brusca interruzione voluta da Dio. Io, già da tempo, l’ho accettata. È necessario, inoltre, perdonare i nemici anche se così crudeli. Infatti, chi non perdonerà qua sulla terra, sarà condannato nell’aldilà a un’eterna solitudine¹⁵».

    Udite quelle parole, Guillaume non seppe trattenere le lacrime. Singhiozzando, pur ben sapendo che non avrebbe in alcun modo persuaso suo padre a ritrattare le sue convinzioni, lo supplicò di seguirlo con tutte le sue forze, ma invano. Intanto, poco distante, i cardini della porta stavano iniziando a cedere sotto i pesanti colpi inferti dai soldati.

    «Non piangere, figlio mio!» disse Amaury mentre invitava il ragazzo a scendere all’interno del piccolo passaggio. «Non abbiamo altro tempo per noi, devi fuggire» aggiunse mentre osservava il volto del giovane ormai quasi completamente immerso nel buio di quel nuovo ambiente.

    Frettolosamente, raccolse una torcia che accese e la passò al ragazzo, poi gli regalò il suo ultimo insegnamento: «Ricorda, Guillaume, nulla può resistere a una volontà ferma che ha per leva la scienza del Vero e del Giusto. Combattere per assicurarsene la realizzazione, più che un diritto è un dovere. L’uomo in questa lotta non fa altro che compiere la sua missione terrestre; colui il quale soccombe sacrificandosi, acquisisce l’immortalità. La realizzazione dei tuoi compiti e in particolare, di quello che ti ho appena affidato, dipende da un essere più potente di te: cerca di conoscerlo e avrai il suo appoggio¹⁶. Addio, figlio mio! Ci rincontreremo in un’altra vita. Se Dio lo vorrà!».

    Per non cedere alla tristezza, Amaury non attese neppure una risposta, ma si limitò a baciare sulla fronte il ragazzo prima di richiudere, con la stessa lastra di marmo, quell’unico passaggio. Ebbe appena il tempo necessario per coprire quel piccolo spazio con le macerie raccolte poco distante, che la porta cedette e cadde al suolo con un tonfo. I soldati cristiani entrarono nella casa di Dio. Uno di essi, con il volto parzialmente celato da una sudicia barba nera, lo fissò negli occhi e, con un ghigno di soddisfazione, gli rivolse poche, terribili parole:

    «Che piacere, un altro perfecto! Abbiamo altra carne da mettere al fuoco!».


    12 Inserita in questa occasione al solo scopo di ricordarne la figura, Dame Guiraude de Lavaur fu una donna emblematica del 1200. Personaggio rappresentativo dell’aristocrazia della Linguadoca, sposò la fede catara sin dalla giovane età. Colta e raffinata, morì uccisa quella stessa notte dopo essere stata gettata in un pozzo e lapidata dai crociati. L’episodio tutt’oggi è commemorato nella città di Lavaur ed è simbolo degli immani massacri compiuti dai cristiani durante le crociate contro i catari.

    13 Il Consolamentum, rito in parte simile all’estrema unzione cristiana, veniva praticato dal perfecto al morente mediante l’imposizione delle mani sulla fronte. Il rituale era considerato così potente che, da solo, poteva innalzare il credente in punto di morte, al rango di perfecto. Se quest’ultimo si riprendeva, poteva tornare alla vita normale nel mondo materiale e continuare ad impegnarsi pienamente nel mondo.

    14 In quello stesso luogo, oggi, è possibile ammirare la cattedrale di Saint-Alain, capolavoro dell’architettura gotica, eretta pochi decenni dopo quella terribile notte.

    Nel XII secolo, il signore del castello di Lavaur aveva donato, ai religiosi della vicina Saint-Pons-de-Thomières, la vecchia chiesa diroccata che un tempo sorgeva sulle sponde del fiume Agout, affidandogli il compito di restaurarla ed ampliarla costruendovi anche un monastero. La cattedrale che venne eretta fu completamente distrutta, quella notte, dall’esercito cristiano.

    15 Alcuni studiosi tendono a includere il testo, da cui liberamente sono tratte queste parole, nei testi di Thot; libri mitici che sarebbero stati redatti e lasciati sulla terra dal Dio egizio Thot e nei quali si troverebbero i misteri dei cieli e predizioni di eventi planetari futuri. Si pensa, inoltre, che, dai suddetti testi, derivino le 22 figure principali dei tarocchi (o meglio che le figure in essi rappresentate non siano altro che pagine staccate da uno dei libri). Nel dettaglio qui si richiama la figura n° 12 «l’Appeso».

    16 Tarocco n° 4 l’Imperatore.

    Riconoscenza

    CAPITOLO III

    Firenze, colle di Monterivecchi. Estate 1438

    «Altolà!».

    Uno dei due uomini di guardia all’unico accesso della villa medicea gli ordinò di fermarsi, mentre l’altro, con la spada ben salda in mano, continuava a fissarlo minaccioso.

    «Chi siete? Che cosa volete?» aggiunse questi.

    Il monaco esitò. Di certo, durante la sua vita monastica, non era solito osservare simili comportamenti. Sospirò nell’intento di tenere a freno la paura e finalmente rispose.

    «Mi chiamo Leonardo e provengo dal monastero di Pistoia. Ho fatto questo viaggio per conferire, ove ne fosse possibile, con il Signor Cosimo¹⁷. Ho avuto modo di sapere che oggi si trova in questa sua villa di campagna per cercare un poco di ristoro dalla vita cittadina».

    Per un attimo, la guardia rimase in silenzio limitandosi a scrutarlo da capo a piedi poi, quando ebbe la certezza che quell’uomo non poteva celare alcuna minaccia, rivolse un cenno all’altro uomo d’armi che, riposta la spada dentro l’elsa, voltò le spalle e varcò l’unico accesso al giardino della villa.

    «Il signor Cosimo non sa della vostra visita vero?» domandò sicuro.

    «Purtroppo no, non ho avuto modo di informarlo».

    «E cosa vi fa pensare che egli possa essere disposto a incontrarvi?» tuonò minaccioso.

    «Comprendo bene la vostra osservazione, ma confido nella sua benevolenza e nella volontà di Nostro Signore Gesù» rispose il monaco.

    Poco dopo, il soldato tornò e, senza rivolgere neppure uno sguardo all’inatteso visitatore, bisbigliò alcune parole all’orecchio dell’altro poi, in silenzio, riprese il suo posto di guardia.

    «A quanto pare, il Signore Dio vi ha concesso una nobile grazia!» disse questi prima di continuare: «Il signor Cosimo vi concede un breve colloquio. Dunque, seguitemi!» ordinò mentre, con un gesto della mano, gli indicava l’accesso al giardino.

    I due percorsero assieme un breve stradello immerso nella piacevole ombra di molte grosse piante che ne adornavano i lati e, dopo alcune decine di metri, raggiunsero un piccolo spiazzo avvolto da una moltitudine di piante da fiori.

    «Bene, attendete qua! Il signor Cosimo vi raggiungerà non appena gli sarà possibile» si limitò a dire la guardia prima di percorrere a ritroso il tratto appena terminato.

    Passò del tempo durante il quale l’uomo si inebriò dei piacevoli odori di quel luogo. Inspirò a pieni polmoni e, per quanto gli fu possibile, trattenne il fiato come per cercar di immagazzinare dentro di sé una piccola parte della bellezza sprigionata da quel giardino sapientemente ornato. Poi, iniziò a girovagare e osservò con piacere alcuni fiori che accarezzò con le dita e scrutò in ogni minimo particolare. A suo parere, la magnificenza del creato la si poteva osservare soprattutto in quelle piccole cose, in quelle opere della natura. Ogni uomo è in grado di ammirare il bello dove esso si mostra palese, in pochi, invece, riescono a percepirlo dove esso si cela pensò.

    Distrattamente, Leonardo volse lo sguardo verso una pianticella di melograno che, in attesa di essere piantata nel giardino, era stata momentaneamente posta all’interno di un vaso di terracotta troppo piccolo e colmo di terra sino all’estremità.

    Curioso, il monaco si avvicinò e ne osservò le peculiari caratteristiche estetiche. Con una mano accarezzò alcune foglie strette e allungate e ne ammirò l’intensa lucidità accentuata dai raggi caldi del sole di mezzogiorno, poi, tra alcune di esse, scorse un piccolo frutto maturo che con interesse accolse nel palmo della mano.

    Quella semplice bacca dotata di una robusta consistenza, quella buccia molto dura e coriacea lo invogliarono a stringerla con forza fino a che non riuscì a scoprirne l’interno.

    Solo allora l’uomo si lasciò andare a una serie di osservazioni che, senza alcun motivo, quella singola melagrana gli aveva fatto palesare nella mente.

    Leonardo pensò a come la pianta era riuscita ad assorbire dalla poca terra del vaso tutte le sostanze nutritive necessarie, non solo per mantenersi in vita, ma anche per produrre quella splendida bacca che dentro di sé custodiva, mantenendoli ben saldi grazie a una fibra leggera come l’aria, quella moltitudine di semi rossi come il fuoco; sembravano cullati da quella polpa traslucida colma di acqua che li avvolgeva.

    Tutti alimentati in ugual modo dal piccolo arbusto crescevano assieme e, allo stesso tempo, indipendentemente l’uno dall’altro come un gruppo di uomini uniti da uno stesso fine, una medesima ideologia dalla quale traevano l’energia vitale, vivevano per far sì che la loro breve esistenza non fosse vana, e che da questa, ne potesse nascere un’altra.

    Certo, gran parte di quei piccoli semi, in un prossimo futuro, sarebbero sicuramente marciti, altri probabilmente avrebbero costituito un semplice pasto per uno dei molti merli della zona e forse solo uno, caduto al suolo, avrebbe trovato quelle condizioni ottimali per produrre altra vita. Per rinascere come nuova pianticella che, a sua volta, avrebbe consentito il proseguimento della sua specie abbellendosi con altre bacche. Ma ciò, qualora si fosse avverato, sarebbe stato inscindibile dal contributo donato dagli altri semi che sino a quel momento lo avevano protetto sacrificandosi per consentire la sua germogliazione.

    Tutti uguali. Tutti uniti per un unico fine, tutti disposti a sacrificarsi per consentire, anche a uno solo di essi, di raggiungere lo scopo condiviso.

    «Quella melagrana ha attirato la vostra attenzione? È da qualche minuto che vi osservo e non l’avete mai abbandonata con lo sguardo».

    Una voce lo distrasse da quei pensieri e, con un movimento brusco del corpo, il monaco si voltò verso l’uomo che stava alle sue spalle.

    «Sì... Sì...» balbettò prima di giustificare il suo comportamento «Sto aspettando il signor Cosimo e, nell’attesa, mi sono distratto nell’osservare questa splendida pianta» aggiunse indicando il piccolo arbusto.

    «Vi capisco!» rispose l’uomo mentre un leggero sorriso gli illuminava il volto. «Anche io ne sono affascinato. Ammiro la forza che esse hanno nell’adattarsi ai differenti spazi e alle diverse situazioni climatiche, nonché la bellezza insita nella sua natura ornamentale che impreziosisce e arricchisce lo spazio in cui crescono e infine, se consentite, la saggezza alla quale i loro frutti inducono gli uomini che, come voi, riescono a scorgervi altro oltre l’aspetto meramente materiale. È soprattutto per tale ragione che ho dato ordine di piantarle nel mio giardino».

    Udite quelle parole, un brivido freddo percorse la schiena del monaco che, d’impeto, chiese ciò che in realtà aveva già compreso.

    «Dunque siete voi il signor Cosimo de’ Medici?».

    L’uomo sorrise nuovamente e, senza fornire alcuna ovvia risposta, indicò una panca situata sotto l’ombra di un imponente albero. Poi si portò entrambe le mani dietro la schiena e iniziò a camminare in quella direzione. «Accomodiamoci!» disse «Mi è stato riferito che avete fatto molta strada per conferire con me!».

    Non appena si sedettero, Cosimo accavallò le gambe e posati i gomiti sulle cosce, congiunse le mani e le portò all’altezza delle labbra. In silenzio, rimase per un attimo in quella posizione mentre fissava intensamente il suo interlocutore. Teneva spesso quello strano comportamento perché se, da un lato, così facendo si concedeva del tempo prezioso per recepire quelle prime impressioni che gli fornivano la fisionomia e la gestualità della persona che aveva di fronte, dall’altro poneva in questi una leggera sensazione di disagio, utile per infondere psicologicamente la sua superiorità.

    «Quindi ditemi!» finalmente quell’insopportabile silenzio cessò.

    «Mi chiamo Leonardo e, come avete avuto modo di notare...» disse indicando la tunica che indossava, «Sono un monaco e provengo dalla vicina Pistoia per ringraziare personalmente la vostra nobile famiglia».

    Udite quelle parole, Cosimo rimase per un attimo sbigottito e, senza lasciar che l’espressione del suo volto lasciasse trapelare ciò che scuoteva il suo animo, chiese delle precisazioni.

    «Leonardo, abbiate la bontà di spiegarvi!».

    «Come ben sapete, vostro padre Giovanni¹⁸, mai ambizioso di successo e potere, ha guadagnato in questi anni un enorme prestigio grazie alla sua nobile bontà d’animo destinando, a tutti i cittadini fiorentini, quella immensa benevolenza che adorna il suo cuore, e che, non sempre, alcune famiglie o per voglia di potere o per semplice invidia, hanno avuto modo di riconoscere¹⁹».

    «Le vostre veritiere parole mi lusingano Leonardo» quelle semplici frasi, catturarono il cuore di Cosimo che, da sempre, nutriva una profonda ammirazione verso il padre, tuttavia, come spesso era solito fare per risparmiare del tempo a lui prezioso, cercò di portare il monaco al nocciolo della questione. «E in che modo ciò che avete appena detto si lega alla vostra visita?».

    Leonardo sospirò e, per un attimo, distrasse lo sguardo da quello del suo interlocutore e osservò il bellissimo giardino in cui si trovava. Poi si fece coraggio e, dopo aver incrociato nuovamente gli occhi di Cosimo, iniziò a parlare.

    «Voi ben ricordate la grande epidemia di peste che, anni or sono, decimò la cittadina di Firenze²⁰».

    «Non potrei mai scordare un accadimento così nefasto!» lo interruppe Cosimo.

    «Ebbene, mia madre ne fu vittima e, ormai certa di morte sicura, venne salvata grazie alle cure mediche poste in essere grazie alle somme elargite da vostro padre per soccorrere gli ammalati della città. Quel nobile gesto, unito alla volontà di Nostro Signore, ha salvato mia madre ed ella ha potuto trascorrere altri anni di vita su questa terra in pace e serenità. Di questo, ve ne sarò eternamente grato!». L’uomo cercò invano di nascondere le lacrime che avevano iniziato a inumidirgli le guance. Sospirò come per trovare nuova forza per terminare la spiegazione poi, finalmente, parlò.

    «Sapete, ero in fasce quando persi mio padre e quella donna mi allevò con tutto l’amore che solo una buona madre sa donare. Con lei ho trascorso tutta la vita fidandomi ciecamente dei suoi consigli e facendo tesoro dei suoi insegnamenti. Per tale ragione sono venuto a Firenze, per sdebitarmi con la vostra famiglia per un sì grande dono e, dato che, troppo presto, Nostro Signore ha accolto l’anima di vostro padre tra le sue braccia ho deciso di consegnarlo a voi!».

    «Vi ringrazio, Leonardo, per il vostro pensiero ma, credetemi, sono sufficienti le vostre parole, non vi dovete sentire in obbligo di sdebitarvi in alcun modo. Anzi, se lo desiderate, posso farvi preparare un pasto che sicuramente gradirete vista l’ora del giorno».

    «No!» lo interruppe il monaco. «Vi ho già arrecato eccessivo disturbo! Se permettete vorrei rimettermi in viaggio quanto prima» aggiunse mentre, con una mano, slacciava la cinghia della pesante sacca in cuoio che portava a tracolla.

    Poi, prima di estrarne il contenuto, accennò altre parole: «A tutti è noto il vostro interesse per i testi antichi, per tale ragione, non potendovi donare altro bene materiale che, data la mia condizione non possiedo, ho deciso di lasciarvi questo...» disse mentre estraeva un grosso libro dalla sacca e lo porgeva al suo interlocutore che lo osservava stupito.

    «Alcuni anni or sono, durante un pellegrinaggio in Terra Santa, mi fu regalato questo tomo. È una versione particolare dell’opera tutta del grande filosofo Platone e, a detta di chi me ne fece dono, dovrebbe risalire al tredicesimo secolo».

    Cosimo rimase senza parole. Per un lungo istante osservò la copertina del pesante volume egregiamente rilegato e foderato con della pelle di capra scurita dagli effetti del tempo. Con entusiasmo ne accarezzò i bordi rigidi e seguì con lo sguardo il motivo floreale dipinto in oro che ornava gran parte della copertina poi, curioso, concentrò la sua attenzione su sei stelle incise a fuoco sulla dura pelle dell’animale. Erano poste in maniera circolare e, unite da un leggero tratto dorato, presentavano tutte la stessa dimensione a eccezione di una, decisamente più grande delle altre.

    «Che cosa rappresentano queste stelle?» Domandò incapace di tenere a freno la sua innata curiosità.

    «Perdonatemi, signore, non so dirle niente» Rispose il monaco stringendo la testa tra le spalle.

    Deluso per quella risposta, Cosimo tornò a fissare il libro che custodiva sulle gambe come il più prezioso dei tesori.

    «Che strano!» sussurrò. «Non ho mai visto nulla di simile in un libro!».

    «Già!» lo interruppe l’uomo di chiesa. «E come potete vedere, le stelle non sono l’unica stranezza della copertina, sicuramente lo avrete già notato, ma manca persino il titolo dell’opera e il nome del traduttore».

    «Esatto, mio caro monaco! Due elementi decisamente interessanti!» rispose Cosimo. «Chissà per quale ragione...».

    Mentre era intento nel cercare di dare una prima, seppur approssimata, risposta a quelle osservazioni, l’uomo pose una mano sul bordo del vecchio libro e, dopo aver accarezzato con i polpastrelli delle dita i margini delle pagine, cercò di aprirlo.

    «Vi prego, mio signore, non fatelo adesso!» Leonardo lo fermò suscitando lo stupore del suo interlocutore che non poté fare a meno di domandare:

    «Per quale ragione? Non vi capisco!».

    L’uomo di chiesa sorrise, poi cercò con lo sguardo gli occhi dell’uomo che aveva davanti e, nuovamente serio in volto, sussurrò qualche parola.

    «Come vi ho già detto, questo testo è un po’particolare, anzi oserei dire unico nel suo genere e, se mi permettete, vorrei lasciare che voi possiate godere di queste sue caratteristiche, in privato, senza la mia o altra presenza. Consideratela una mia umile richiesta che, credetemi, avrete modo di comprendere».

    Udite quelle parole, l’uomo aggrottò la fronte e, pur non comprendendone il motivo, decise di assecondare la richiesta del monaco.

    «Come desiderate, Leonardo!» disse mentre allontanava la mano dal libro. «Anche se non ne capisco il motivo, farò come chiedete!».

    «Vi ringrazio!» si limitò a sussurrare il monaco compiaciuto.

    Poi, si alzò in piedi e salutò con riverenza quel grande uomo fiorentino. «Adesso, se mi consentite, vorrei lasciarvi ai vostri affari e non disturbarvi oltre».

    Senza essere in grado di dire altro, con il pesante libro posato sulle cosce, Cosimo osservò quell’esile uomo di chiesa incamminarsi verso il cancello di uscita della residenza e, quando sparì dalla sua vista, abbandonò quella visione per osservare quell’inatteso quanto prezioso dono. Sospirò un poco, poi si alzò pensieroso. Con la mente turbata

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