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I casi della vita
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I casi della vita
E-book309 pagine4 ore

I casi della vita

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Info su questo ebook

Milano, primi anni 70.

Un ragazzo e una ragazza: le loro frustrazioni giovanili si fondono in una perfetta simbiosi di emozioni e sentimenti.

Passione, piacere, rabbia, rancore, bugie, tradimenti, nostalgia, gelosia, disperazione...

L'amore tra due adolescenti vissuto, oltre quarant'anni fa, anche attraverso un'infinità di lettere d'amore che ci fanno ricordare, adesso che non si usano più, un'epoca in cui scrivere era un'arte.

Una storia intensissima che lascerà, però, nei protagonisti, ricordi diversi.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2018
ISBN9788827808368
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    Anteprima del libro

    I casi della vita - Ferdinando Savarese

    esteriore.

    Parte prima

    Il diario

    Milano, 22 ottobre 1972

    Oggi è domenica.Un'altra triste, noiosa, interminabile e odiosa domenica; naturalmente, sono in casa per studiare.

    Tutto questo si ripete da sempre e ogni volta, però, qualcosa cambia, o meglio si dilata, assumendo àimensioni grandi, sempre più grandi, addirittura immense.

    Sono la mia malinconia, la mia tristezza, la mia solitudine, la mia sfiducia che diventano gigantesche, pesanti e insopportabili. Davvero, non so fino a quando resisterò; prima o poi, il loro peso mi schiaccerà, ne sono certa. Ho bisogno di parlare con qualcuno che sappia capirmi e consigliarmi, ma per fare ciò dovrei trovare una persona che mi voglia bene. Conosco tanta gente, ma fra questa non c'é nessuno che mi possa aiutare per il semplice fatto che nessuno mi ama.

    È una triste, ma vera constatazione.

    Del resto, per il mio carattere, i miei innumerevoli difetti, la mia stupida introversione, è impossibile che qualcuno senta per me un sentimento simile. Ed é proprio questa spaventosa certezza che mi fa paura, una paura terribile che mi fa desiderare di non essere mai esistita.

    È terribile avere sete di affetto, comprensione, AMORE, e non potersi dissetare.

    Ho bisogno di spazio, tanto spazio, per scrivere quello che sento, quello che ho dentro di me in questo momento. Sono sempre più giù di corda. I minuti scorrono velocemente e con la stessa velocità anche il mio morale precipita; c'é da stupirsi per il fatto che non tocchi mai il fondo, come se sprofondasse in un burrone senza termine, in un qualcosa di tragicamente infinito.

    Certo, il diario mi aiuta a sfogarmi, ma queste pagine prive di anima non sapranno mai capirmi, per cui un giorno o l'altro mi stancherò davvero di continuare a scrivere, anziché parlare.

    E allora, cosa accadrà? Ho il cuore gonfio di malinconia, ma anche di tanto AMORE, di un amore pulito e sincero che non voglio sciupare donandolo alla prima persona che incontrerò. Mi piacerebbe poterlo dare a chi sapesse apprezzarlo per quella semplice, ma pura e magica cosa che é. Purtroppo, come ho scritto prima, non interessa a nessuno, né mai interesserà; quindi il mio amore é sprecato. Forse dovrei chiudere e stringere il mio cuore in una gelida morsa, così finirei di patire e direi basta alla mia stupida e dannosa sensibilità.

    Per quante volte io abbia provato, però, non sono mai riuscita a farlo.

    Quando smetterò di soffrire?

    Milano, 24 Ottobre 1972

    Mi sento inutile.

    Sono veramente un qualcosa che non ha scopo di esistere, totalmente disgustata da tutto ciò che mi accade, da ciò che sento nel mio cuore. Sono stanca dei continui problemi che il mio pessimismo crea, sono stanca del modo passivo con cui trascorro la mia vita, sono stanca della tristezza e dell'abulia che mi opprimono.

    Sono Stanca di essere stanca.

    Vorrei essere spensierata e forse anche leggera, come lo sono tante altre ragazze della mia età, Vorrei... Vorrei non essere quella che Sono.

    Vorrei che non fosse mai esistita quella Sara che é in me.

    Basta con le delusioni, la sfiducia! Ho bisogno di un AMORE puro e sincero.

    Possibile che non ci sia nessuno in grado di offrirmelo insieme alla sua comprensione?

    lo non voglio solo avere; ho anche tanto, tanto da donare, ma purtroppo nessuno prende in considerazione una ragazza... del passato!

    Mi sento veramente fuori tempo; sono costretta a vivere in una società che non approvo e che, anzi, mi disgusta. Odio la slealtà, l'egoismo, il male. Amo la purezza e la sincerità, anche se ormai, non esistono quasi più.

    Il turbamento

    La prima volta che scoprii sulla mia tempia sinistra, un capello bianco, ne fui molto fiero.

    Avevo diciassette anni, era autunno inoltrato, un ottobre bello, per niente piovoso, con un bel clima secco, insolito per una città come Milano. Il caldo tiepido e confortante dei primi giorni del mese, ultimo ricordo di una lunga estate, aveva lasciato posto ai primi freddi, ma di quelli frizzanti, stimolanti, che fanno venire voglia di andare in giro, camminare, crogiolarsi in un caldo maglione di cachemire ed aspettare che succeda qualcosa di positivo, perchè ci si sente pieni di mille energie, mille potenzialità da far esplodere.

    Avere un capello bianco era poi una scoperta sensazionale:stavo veramente diventando un uomo. Avevo sempre avuto una fretta terribile di crescere e questi particolari, come quando avevo fatto per la prima volta la barba, mi eccitavano, trasportandomi sull'onda di mille progetti, aspettative,sogni e speranze.

    Pensare queste cose mi serviva, un realtà, per accantonare gli aspetti inquietanti del mio modo di essere.Mi chiudevo in bagno, mi guardavo allo specchio, mi appoggiavo sul bordo della vasca, pensando, sognando, cercando di buttare alle spalle tutte le angosce, le insicurezze e soprattutto quei libri di scuola che mi aspettavano oltre la soglia, nella stanza accanto.

    All'improvviso, un urlo da lontano.

    Luca, cosa fai lì dentro? E' tardi, devi studiare, sbrigati!.

    Era la nonna che mi chiamava, con la sua innata dolcezza, ma anche con la fermezza e la preoccupazione di chi doveva svolgere una missione, di chi aveva la responsabilità impostale da altri e dal suo cuore generoso, di occuparsi di qualcosa più grande di lei.

    La sua figura, peraltro, era stata fondamentale nel contesto di tutta la mia adolescenza e prima giovinezza. Qualsivoglia aspetto del mio modo di essere risentiva profondamente della sua vicinanza.

    Ella aveva cominciato a curarmi fin dalla prima notte che ero stato portato dalla clinica, dove ero venuto alla luce, alla residenza dei miei genitori.

    Mio padre, uomo abbastanza severo e molto legato al lavoro, dopo pochi minuti di pianti infantili, nella camera nuziale, decise di alzarmi dalla culla, portarmi dalla suocera ed affidarmi a lei dicendo: Concettina, io domani devo andare a lavorare; curalo tu per favore, perchè vorrei dormire.

    Così, sin dai primissimi giorni di vita, il mio fresco e, già allora, ombroso musino, cominciò a imprimersi nella mente gli occhi tristi di quella dolce, tenera, meravigliosa signora dai lunghi capelli bianchi.

    A quell'epoca, la nonna aveva 58 anni, ma i primi segnali tangibili della sua presenza cominciarono a cinque anni; purtroppo, in quel periodo, una brutta forma di artrite reumatica stava causandole gravi deformazioni agli arti, ma ciò non le impedì di accogliere con grande entusiasmo il fatto che, dopo la separazione dei miei genitori, le fossi stato affidato. Fu così che mi ritrovai a vivere con lei, il nonno, suo marito e la zia, sorella di mia madre, zitella.

    In quegli anni, si formò dentro di me un attaccamento veramente morboso per la nonna e, man mano che la mia mente assumeva il suo naturale contorno, cresceva sempre più, dentro di me, un bisogno estremo del suo amore, del suo affetto, del suo desiderio di avermi vicino.

    La mia angoscia più grande, allora, era che la nonna potesse morire; non sopportavo l'idea che qualcuno o qualcosa ci avrebbe, un giorno, separati.

    Ad un certo momento, per riuscire a placare quell'ansia infinita, mi autoconvinsi che lei avrebbe vissuto sino a 129 anni, in modo tale che, accontentandomi io di 71 anni di vita, avremmo potuto andare in Paradiso nello stesso istante.

    Il mio ego si plasmò, così, come quello di una vecchietta indifesa, benché la nonna fosse tutt'altro che tale, in quanto dotata di un suo carattere forte e ben definito.

    Forse, tale immagine di debolezza mi derivava dai suoi problemi fisici, forse dal fatto che, al di là della sua acuta personalità, scaricasse su di me, in fase di grande ricezione, le sue ansie più nascoste.

    La fragilità della mia mente fu così, sempre, uno dei miei problemi più seri, condizionandomi in maniera importante e imponendomi, talora, atteggiamenti di apparente disinteresse verso aspetti della vita che avrei voluto cogliere diversamente.

    Rimase emblematico il fatto accaduto quando la nonna decise di regalarmi un tenero canarino giallo.

    Stavo per compiere dieci anni e, per la prima volta, possedevo un animaletto. Tale circostanza, unita a quella che il dono fosse pervenuto dalla persona cui maggiormente volevo bene, fece sì che conferissi a quel gioioso pennuto un significato particolare.

    Il volatile viveva in una gabbietta, dove passava le sue giornate sull'altalena e saltando nei vari angoli della sua casa; la sua presenza e il suo allegro cinguettio allietavano i miei pomeriggi. Mi piaceva, ogni giorno, cambiargli il biscottino e la lattuga, sostituirgli il fondale dove faceva i suoi piccoli bisogni, parlargli come se fosse un essere umano. Tutto questo, ancorché semplice, mi rendeva felice.

    Ma tale gioia durò ben poco, perchè ben presto l'animaletto si ammalò e cominciò per lui una lenta, ma inesorabile agonia.

    Per molti giorni, il mio primo pensiero mattutino fu per le sue condizioni di salute, nella speranza che la notte avesse portato una parvenza di miglioramento. A scuola, non facevo altro che pensare al momento in cui sarei potuto tornare a casa per accudirlo e curarlo, anche se, per la verità, non si poteva fare altro che rimanere passivi in attesa di un miracolo. Pregai perfino Dio affinché non mi portasse via quell'esserino a cui volevo tantissimo bene, ma non ci fu nulla da fare e così, gradualmente, il suo cinguettio si fece sempre più flebile, le sue permanenze sull'altalena sempre meno frequenti. Nei suoi ultimi giorni di vita era sempre sul fondo della gabbietta, rincantucciato, come se il fatto di cercare di scomparire dalla nostra visuale fosse il suo desiderio estremo per non farci troppo soffrire della sua agonia. Una mattina, la nonna lo trovò stecchito, con le gambe per aria. Fu un'autentica tragedia e dopo averlo pianto a lungo, pretesi una solenne sepoltura in uno dei gerani sul balcone della cucina. Giurai a me stesso che, mai, nella vita, mi sarei più affezionato a qualsivoglia tipo di animalino.

    Tutto il contesto intorno a me era, in ogni caso, un po' particolare, come ad esempio la mia povera, infelice, sfortunata, predestinata zia.

    Tale anomala creatura, sorella maggiore di mia mamma, era solita girare per casa con un fazzoletto bianco arrotolato intorno alla testa.

    Ella aveva avuto nella sua vita, ed in quel momento aveva già quasi cinquant'anni, una sola grande storia sentimentale. Tale amore, platonico, era stato ardentemente consumato quando lei, poco più che tredicenne, si era perdutamente invaghita di un giovane studente veneziano. Una passione nata alla finestra, poiché il caso aveva voluto che, di fronte alla camera dell'allora vispa ragazzina, ci fosse un pensionato universitario.

    Purtroppo Antonio, questo era il suo nome, come tanti giovani di belle speranze, partì nel 1942 per l'inutile e sanguinosa guerra, saltando, dopo poco tempo, su una mina che cercava coraggiosamente di disinnescare. Fu allora che la zia decise che mai avrebbe dato il suo cuore, ed ovviamente il suo corpo, a nessun altro e si aggregò a una sorta di associazione di consorelle: in pratica delle suore laiche.

    Quella scelta di vita, unita a un'innata paura nei confronti del mondo, condizionò pesantemente la mente della poveretta. Cominciarono, allora, i primi acciacchi, i primi malanni, i primi desideri di sentire pronunciare le magiche parole.

    Forse, signorina, sarebbe meglio che si facesse ricoverare in ospedale, per qualche accertamento.

    Questo era veramente, per lei, l'istante di maggior soddisfazione: il raggiungimento dei suoi desideri, il massimo appagamento spirituale e fisico.

    Una perfetta simbiosi di sensazioni represse si scaricavano nella più totale purificazione liberatoria.

    Nessuno potrà mai dire con certezza quanto fosse realmente malata; non c'era comunque giorno, settimana o mese che la zia non avesse qualche acciacco da esternare, qualche lamentela da farci pervenire con la sua voce stridula e sofferente.

    Sicuramente, prima che io entrassi a far parte in pianta stabile della famiglia, i suoi malanni e i suoi ricoveri erano meno frequenti. Era facile, per lei, trovare rifugio nella psiche paziente e amorevole della madre. La mia presenza doveva averle creato ulteriori squilibri, mancanza di appoggi, punti di riferimento. Il fatto che la nonna dedicasse quasi tutto il suo tempo a me, invece che alle sue malattie, l'aveva ulteriormente indebolita, fatta sentire ancor più fragile rispetto all'universo. E aveva aumentato il suo bisogno di rinchiudersi in qualche oasi protetta.

    Ogni volta che la vedevamo preparare la valigia per entrare in questo o quell'ospedale, il suo volto si illuminava come se stesse partendo per una meravigliosa vacanza, mentre, al ritorno, quando dopo non molto veniva inevitabilmente dimessa, si coglieva nel suo sguardo il solito terrore, la solita angoscia infinita.

    Il mio atteggiamento nei confronti della zia era di aperto conflitto. Il mio astio si manifestava in una sorta di piccoli dispetti infiniti con cui cercavo di esorcizzare quel senso di disagio costante che emanava dalla sua presenza opprimente.

    Una delle cose che più mi divertiva era di entrare nella sua stanza, mentre dormiva, e farla svegliare di soprassalto gettando sul pavimento di legno un coperchio di pentola. Il suono metallico che ne scaturiva era inizialmente violentissimo, per poi proseguire sempre meno intenso, ma prolungato nel tempo. Le vibrazioni dell'acciaio, mentre si attenuavano a contatto con il parquet, creavano un suono particolare, quasi celestiale, e il tutto, al di là del fastidio che le procurava, evocava nella poveretta chissà quali ispirazioni supreme.

    Forse, però, era solo che si sentiva, almeno per un attimo, al centro di un'attenzione sia pur negativa. Non era bello essere così dispettoso, ma era uno dei pochi modi per esprimere la mia vitalità compressa da quel contesto vetusto che, pur se ricco di tanto affetto nei miei confronti, mi offriva una visione distorta del mondo circostante.

    E, a tal proposito, non potevo evitare che una certa insofferenza mi derivasse pure dall'ultimo componente quel vecchio ingranaggio in cui batteva il mio giovane motore: il nonno.

    Non c'era alcun motivo per nutrire verso quell'uomo, particolarmente vivace e attivo per la sua età, alcun tipo di astio: non dava nessun tipo di fastidio, quasi come se non esistesse, ma il problema era proprio questo. La sua vita aveva inciso su tutti quelli che lo avevano circondato come avrebbe potuto influire nella mente di un alcolizzato un bicchiere di acqua fresca. Il difetto maggiore che tutti gli avevano sempre rimproverato, e che mi era stato inculcato, era quello di non aver mai fatto valere, nel giusto modo, il proprio ruolo paterno, prediligendo pratiche più piacevoli quali le donne e il gioco.

    La verità era che la nonna, al di là della visione di vecchietta indifesa che la mia psiche si era costruita, era sempre stata il vero uomo di casa. Donna energica e autoritaria, di profondissima ispirazione cristiana, doveva aver avuto poca predisposizione per le normali pratiche matrimoniali, espletate probabilmente al buio con indosso la mitica camicia da notte con il buco.

    Non lo fò per piacer mio, ma per dare dei figli a Dio.

    Lei stessa, una volta, pur essendo io ancora ragazzino, ebbe l'ardire di confidarmi che mai si era mostrata nuda davanti al consorte.

    Questa cosa, al di là del farmi giustificare il nonno per le scappatelle di cui sempre aveva goduto criticata fama, mi causò i primi sintomi di grande morbosità. Sentivo, cioè, che vedere una donna nuda, poichè ritenuta così proibita dalla nonna, doveva essere oltremodo piacevole.

    Fu così che, quando giunsero per me gli anni dell'adolescenza, e con essi l'età dei primi pruriti, cominciai a considerare la donna come un fiore proibito: la mela nel paradiso terrestre.

    Le mie normali manifestazioni di desiderio cercarono ragione nell'ambiente che le circondava e il tutto mi portò a ritenerle qualcosa di estremamente grave e sbagliato, ma nello stesso tempo di straordinariamente allettante.

    Dopo poco tempo, decisi allora di confidare il mio crescente turbamento alla persona che istituzionalmente avrebbe dovuto rappresentare il faro dell'adolescenza: il papà. Il mio, omone molto alto e grosso, era persona austera, anche se dotata di una spiccata carica di simpatia. Ma le occasioni per esternare tali sue doti non erano molte, poiché le sue visite, nel corso degli anni dopo la separazione dalla mamma, si erano molto diradate.

    Peraltro, in una di tali rare occasioni, ebbi finalmente modo di esternare i miei interrogativi, permettendo al genitore di farmi capire come i quarant'anni che ci dividevano rappresentassero un incolmabile abisso.

    Mi raccomando, Luca, non devi assolutamente, per nessuna ragione al mondo, masturbarti, in quanto nulla può essere più nocivo per la tua salute e il tuo equilibrio psichico. Se tu lo facessi, la tua mente verrebbe devastata da influssi negativi e ne risentiresti le conseguenze per anni e anni salvo, forse, non riuscire mai a smaltirle per tutta la vita.

    Tali lapidarie affermazioni mi scossero profondamente e a poco valsero i miei timidi tentativi di reazione per chiedere cosa avrei dovuto fare se l'intensità dei pruriti fosse aumentata.

    Non ti preoccupare! Quando i tuoi desideri diverranno pressanti e incontrollabili, ci penserò io a farti avere un rapporto sessuale. Per adesso, però, sei solo un ragazzo, non hai nemmeno dodici anni e non ti devi preoccupare di queste cose. Ma, ti ripeto, non masturbarti mai!.

    Naturalmente mio padre non si preoccupò realmente delle mie esigenze e i miei anni successivi trascorsero in maniera anomala, totalmente condizionati da quell'autoritaria imposizione.

    Il mio sesso, peraltro, continuava sempre di più a subire gli influssi stimolanti dei sensi ma io,pur avendo erezioni sempre più frequenti, avevo addirittura paura di toccarmi, sfiorare quella parte del mio corpo che rappresentava l'oscuro oggetto del desiderio. Le parole paterne riecheggiavano nella mia mente e la massima trasgressione che mi concedevo stava nello stringere, tra la mia mano, il membro, fino a procurarmi un sottile dolore misto a piacere.

    I contatti veri e propri con l'altro sesso, poi, erano un vero disastro. Il termine 'limonare' era molto frequente tra i miei compagni di scuola i quali, spesso, si vantavano di essersi fatta questa o quella ragazza alle feste varie che, ogni sabato pomeriggio, venivano organizzate in casa di qualche fortunato con un grande salone.

    Questo genere di situazioni mi condizionavano negativamente e non solo per il fatto che il mio contesto familiare mi facesse apparire l'altro sesso come qualcosa di proibito. Vi era dentro di me anche un complesso d'inferiorità determinato, per colmo di espressione, dal mio spropositato sviluppo. A sedici anni, nel 1971, ero già alto 193 centimetri, con le scapole alate, la pancia pronunciata, gli arti lunghissimi e magrissimi. Eunica cosa carina che avevo era il viso, ma era sempre cupo, forse per tutti i complessi che mi portavo dietro.

    Non riscontravo alcun tipo di interesse, nei miei confronti, da parte delle ragazze che conoscevo. Ero proprio un disastro, ma forse... al di là di tutto, il mio problema era solo la testa, quella stessa testa sulla cui tempia sinistra era apparso, all'improvviso, quel luccicante capello bianco che stavo guardando, con grande orgoglio, davanti allo specchio, in quella calda giornata del 24 ottobre 1972.

    E allora, in un attimo, ebbi il desiderio improvviso di celebrare quell'evento, di esorcizzare ogni possibile depressione che mi sfiorasse la mente.

    Un raptus e, in men che non si dicesse, mi sfilai ogni indumento di dosso. Fuori dalla porta chiusa la nonna tornò a chiamarmi.

    Luca, sbrigati, devi studiare!. "

    Un attimo, sto facendo una cosa; adesso esco".

    Mi adagiai a pancia in giù, in bilico sul bordo della vasca e cominciai, con la mano, a menarmi il membro in maniera ritmata, senza una logica, quasi guidato da una forza misteriosa. Tutto questo durò pochissimi secondi e, a un certo punto, quasi per magia, vidi uscire dalla punta del mio sesso un liquido denso e biancastro. Era un'emozione fantastica, semplicemente irripetibile. Masturbarsi era stupendo e tutti i divieti e le paure derivanti da mio padre potevano andare al diavolo.

    Mi rivestii in un istante, aprii finalmente la porta del bagno ed uscii con aria composta, rilassata.

    Cosa ti è successo? gridò la nonna dal fondo del corridoio.

    Niente... Ho scoperto un capello bianco e sono rimasto un po' a rimirarlo. Credo proprio di essere diventato un uomo.

    L'appuntamento

    L'aver scoperto il piacere, sia pur autonomamente e ben in ritardo rispetto alla media, avevo diciassette anni, generò in me diversi proponimenti nei confronti dell'altro sesso, con la precisa idea di affrontare il problema in maniera decisa e determinata.

    Negli ultimi mesi, poi, i miei complessi fisici si erano un pochino attenuati, lo spropositato sviluppo in altezza si era fortunatamente arrestato e la pancia, grazie ad una dieta ferrea, totalmente sparita.

    Vi era un desiderio nuovo in me ora, la voglia di telefonare a una ragazza ed invitarla a uscire. Era una cosa che non avevo mai fatto, ma anche il momento di continuare a fare tante cose mai provate prima.

    La maggiore preoccupazione del papà per il mio futuro professionale era che imparassi perfettamente l'inglese.

    Qualsiasi attività svolgerai nella vita amava ripetere quelle poche volte che ci incontravamo sarai vincente solo se conoscerai bene le lingue.

    Purtroppo per lui e per me, il liceo classico voluto da mia madre non annoverava, tra le sue materie, alcuna lingua moderna. Così, due volte alla settimana, oltre al già abituale, insopportabile studio pomeridiano, dovevo farmi un bel corso d'inglese, in una prestigiosa palazzina di via Montenapoleone.

    Mi era capitato così di conoscere una ragazza, anzi una giovane donna. si chiamava Anna, aveva ventidue anni: carina, simpatica e sensuale che, vista con i miei occhi da diciassettenne, voleva dire che mi faceva venire una voglia incredibile di fare sesso.

    Entrambi eravamo alla prima esperienza in quella scuola, con la differenza che lei non aveva mai aperto un libro d'inglese in vita sua, mentre io, pur con scarsi risultati, avevo già frequentato, l'anno prima, un altro corso simile, in un'altra scuola.

    Naturalmente, durante le prime lezioni, ero sembrato un genio rispetto al resto della classe e questo aveva colpito Anna che mi si era subito avvicinata per fare amicizia e chiedermi qualche spiegazione. Questo particolare, unito al fatto che io fossi, in realtà, l'unico ragazzo giovane di tutta la classe, aveva fatto sì che lei mostrasse nei miei confronti grande simpatia e disponibilità.

    Pensavo, già da qualche giorno, di telefonare a casa di Anna per chiederle se volesse uscire con me, ma tale idea mi sembrava alquanto dura da realizzare. Perchè mai una ragazza così piacevole avrebbe dovuto uscire proprio con un ragazzino come me? Ma quel giorno d'ottobre mi sentivo speciale. Avevo scoperto il mio primo capello bianco, ero diventato uomo e qualsiasi altra magia poteva accadere.

    Dissi alla nonna che sarei uscito per comprare un quaderno. Non avrei mai avuto il coraggio di fare una simile chiamata in casa, dove il telefono si trovava in anticamera, luogo di frequente passaggio per tutti i componenti della

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