Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Another Sky
Another Sky
Another Sky
E-book307 pagine4 ore

Another Sky

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Kula, Dranea e Bafyo, tre inseparabili amici, si ritroveranno catapultati in un mondo sconosciuto, pieno di minacce e sfide.

Il lussureggiante mondo alieno nasconde insidie e pericoli che, se liberati, potrebbero decretare la fine dell'intero universo.

L'unica soluzione è andare avanti, farsi carico di un pesante fardello da portare per i tre ragazzi, soprattutto quando la loro stessa amicizia verrà messa in gioco. Non sono eroi, probabilmente non lo saranno mai, eppure potrebbero cambiare il corso degli eventi.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2018
ISBN9788827807934
Another Sky

Correlato a Another Sky

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Another Sky

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Another Sky - Andrea Piunno

    Eco)

    I

    La fuga di Jago

    «E CHE CAVOLO, SPARA!»

    L’ennesimo lampo rosso che segnava la sua fine e l’ennesima imprecazione urlata contro lo schermo, su cui con tetra lentezza appariva ancora una volta la scritta Sei morto, impressa negli stessi schizzi di sangue che il suo alter ego virtuale aveva scagliato al momento della dipartita. Nel frattempo, a centinaia – se non a migliaia – di fibre ottiche di distanza, altri giocatori erano costretti ad abbassare o escludere l’audio per non sentire la sua rosa esternazione.

    Quest’ultimo, in effetti, non si stava dimostrando un compagno di squadra particolarmente gradevole: del resto, nemmeno dal vivo lo si poteva considerare un adone.

    In quel piccolo studio, un ragazzo fin troppo vicino alla trentina era intento a giocare – e a perdere – l’ennesima partita a EvilFortress. Centoventi chili di ingenua bontà adagiati in maniera scomposta su una sofferente sedia girevole. La faccia ruvida, consumata dall’acne e dal caldo generato dall’ingombrante computer. Il sudore gli inzuppava il viso e i vestiti, producendo una quantità di vapore acqueo sufficiente a trasformare quel normalissimo sgabuzzino in un piccolo scorcio di foresta pluviale.

    L’elevato tasso di umidità, tuttavia, era nulla in confronto all’inquinamento acustico: non solo l’inquilino esternava in maniera eloquente ogni suo sentimento, ma lo stesso macchinario con cui giocava emetteva un costante e insopportabile rumore. Quel computer, a conti fatti, non era che un altro parto delle sue esagerazioni, una versione elettronica del mostro del dottor Frankenstein,caratterizzata da spropositati consumi energetici e assoluta inefficienza. La sua disastrosa combinazione di componenti funzionava nel peggior modo possibile, eccellendo solo nel convertire l’energia elettrica in puro calore, che veniva disperso da una grossa ventola in grado di emettere un fracasso da segheria.

    La somma di quel reattore mancato e della voluminosa stazza del ragazzo dava vita a un sistema ecologico unico nel minuscolo spazio adibito a sua stanza privata.

    I funghi prosperavano sulle pile di libri e sul ciarpame che affollavano l’ambiente, fornendo il necessario nutrimento alle più disparate popolazioni di acari. Questi ultimi venivano predati dai minuscoli artropodi che trovavano riparo nelle confezioni vuote di yogurt lasciate sparse sul pavimento e sui mobili, dove si raccoglieva la rugiada formata dal sudore.

    Nonostante ciò, quel mostro di tecnologia avanzata deliziava il suo proprietario, era una sua creazione, quasi un figlio per lui, e l'amava particolarmente, proprio perché il suo motto era: Più costa, più è potente.

    Bafyo non era un cattivo ragazzo, per carità, ma pretendeva da sestesso una bravura e una sapienza che non possedeva e non avrebbe mai raggiunto. Giocava con il mero intento di passare il tempo e di cambiare umore, cercando non tanto di risollevarlo quanto di estraniarsi dai suoi problemi, reali o immaginari che fossero, sfuggendo all'autocommiserazione, che era diventata una costante nella sua vita.

    Quando si ritrovava con gli amici non faceva che lamentarsi delle sue presunte sfortune, eppure non riusciva ad accettare alcun errore: qualunque cosa facesse doveva avere uno scopo recondito, una giustificazione. Doveva mantenere ordine e controllo nel suo mondo, per mascherare le sue tante, troppe, insicurezze.

    Purtroppo questo suo modo di fare si traduceva in arroganza, una mania di perfezionismo costantemente delusa da immancabili disastri che mai avrebbe ammesso, tanto da rendersi insopportabile anche ai suoi amici più cari, che al massimo ormai lo incontravano una o due volte l'anno: un giorno di sacrificio per deliziare il suo animo frustrato.

    Pensava che tutto il mondo ce l'avesse con lui e forse non aveva torto, visto che era veramente sfortunato: si trovava sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Incidenti, disastri ferroviari, collisioni con ogni tipo di veicolo, impatti contro vetrate blindate ed edifici, treni che gli finivano in giardino (e lui che finiva dentro ai treni), cadute da ogni tipo di altezza, un paio di aggressioni (di cui non era l’obbiettivo, ovviamente, ma solo uno sfortunato spettatore) e perfino un naufragio. Ne avrebbe potute raccontare di tutti i colori… se solo se le fosse ricordate. Il bello era che ne usciva sempre incolume, cosa che non si poteva dire di quelli che gli stavano intorno: per il momento, almeno, non aveva fatto vittime.

    «Bafyo!»

    Una voce sgraziata rimbombò tra le mura di casa, intrufolandosi sotto le sue grosse cuffie. Rabbrividì mentre cercava di mantenere la concentrazione sulla partita online, sperando di aver avuto solo un’allucinazione uditiva.

    «BAAFYOO!»

    Il secondo urlo fu semplicemente impossibile da ignorare. Tremando di rabbia e frustrazione, il ragazzo sbatté le cuffie sul tavolino.

    «Jago è scappato un'altra volta! Muoviti invece di stare sempre al computer!» continuò a gracchiare sua madre dal pianoterra, facendolo innervosire ancora di più.

    «EH CHE PALLE, MA’!»

    I dialoghi tra lui e i suoi familiari erano più o meno tutti di questo tipo. Tuttavia, non si poteva dire che non si volessero bene: erano semplicemente troppo simili. Se Bafyo era un insicuro arrogante, tendente a combinare disastri, i suoi genitori erano persone grezze e bigotte, abbrutite da una vita dura che incredibilmente non era riuscita a inculcarein loro alcuna virtù, rendendoli anzi, negli anni, invidiosi e meschini.

    Perfino il loro aspetto ricalcava il loro modo di essere: somigliavano a degli orchi emersi direttamente dalle pagine di un libro dei fratelli Grimm per aggiungere un po' di fango alla sporcizia del mondo reale.

    La madre era bassa, magrissima, dall'aspetto consunto e famelico. La sua figura scarna aveva sembianze quasi spettrali quando si muoveva. Ostentava sempre abiti eleganti, che però, su di lei, sembravano strane toghe che l'avvolgevano come le fasce di una mummia.

    Il viso, nonostante il corpo gracile, era grassoccio, solcato da un’incredibile quantità di rughe. Aveva gli occhi incavati e porcini, con grosse occhiaie violacee e sopracciglia folte, che sembravano unirsi direttamente ai capelli, ispidi e ricci, mezzi neri e mezzi grigi.

    La sua caratteristica più appariscente, però, era la voce: un misto tra una vecchia cornamusa sfiatata e il gracchiare di un corvo, conseguenza di una tracheotomia subita molti anni prima, quando la ventesima sigaretta della giornata e un terribile attacco d'asma si erano messi d'accordo per cercare di farla passare a miglior vita.

    Per sua fortuna i medici erano riusciti a strapparla dalle fumose mani del Caronte incatramato, che però si era portato via le sue corde vocali, a monito del fatto che presto sarebbe tornato a riscuotere il resto. Ovviamente la donna non aveva smesso di fumare ma ora, ogni volta che le veniva un colpo di tosse, aspirava avidamente, quasi istericamente, da un piccolo inalatore per l'asma che portava sempre con sé, ingrigito dalla cenere della sigaretta che stringeva con la stessa mano.

    Il padre di Bafyo era, se possibile, ancora più strano: sembrava veramente un uomo d’altri tempi, dalla fisicità ingombrante come quella del figlio, unita a una particolare passione per gli abiti in stile vittoriano e per i baffi a manubrio. Sembrava un incrocio piuttosto buffo tra un Nietzsche particolarmente grasso e uno Sherlock Holmes invecchiato, soprattutto da quando aveva preso l'abitudine di portare antidiluviani cappelli per coprire l’oramai vistosa calvizie.

    Questa era la famiglia che occupava la piccola casa a metà strada tra campagna e città, appena sotto un passaggio a livello che sosteneva una delle più grandi autostrade di Vietoro. I suoi componenti – Ernestonio, Mandragloria e infine il giovane rampollo Bafyo – erano tutti ufficialmente disoccupati e impiegati nei più disparati lavori in nero. Girava voce che Mandragloria, di tanto in tanto, si spacciasse per uno dei medici dell'ospedale locale, somministrando caramelle al posto di farmaci di ultima generazione. Comunque, nessuno era mai riuscito a coglierla sul fatto, forse perché le bastava appendersi a un attaccapanni con il camice indosso per sparire letteralmente alla vista.

    Per quanto riguardava il padre, invece, in città giravano foto di repertorio in cui appariva un losco individuo dagli improbabili baffi, intento a declamare discorsi per la candidatura sia nelle vesti del precedente sindaco, sia del suo avversario: qualcuno giurava di averlo avvistato perfino in parlamento.

    Probabilmente erano tutte chiacchiere, eppure i panciotti di seta di Ernestonio e il costoso balsamo per baffi, di cui abusava, da qualche parte dovevano venire.

    Dopo che fu tornato alla realtà, Bafyo si alzò con incredibile gioia dalla sedia, pronunciando nella mente irripetibili epiteti nei confronti di Jago.

    Jago, l'ultimo di un’impressionante dinastia di cani pseudo-pastori, imparentati con Lessie, Rin Tin Tin, Nebbia e anche con il commissario Rex, era il canide che la famiglia di Bafyo ostentava davanti a tutta la cittadina di Vietoro.

    Il vero nome di quella palla di pelo nera e marrone era Jago XII, e la dinastia non accennava ad arrestarsi, dato che tutti finivano con il suicidarsi spontaneamente facendosi investire dagli autotreni.

    La più grande passione di Jago, dopo la gomma dei copertoni, era la libertà: se la prendeva ogni volta che qualcuno, sbadatamente, lasciava il cancello di casa aperto, lanciandosi nell'esplorazione di qualunque cosa ci fosse nei paraggi. Puntualmente, un membro della famiglia doveva andare a recuperarlo prima che si avvicinasse troppo alla ferrovia, luogo in cui era morto il suo predecessore, Jago XI.

    Così, senza nemmeno rispondere alla madre, che comunque si era già ritirata con il marito in cucina, Bafyo si alzò dalla sedia, facendola scricchiolare rumorosamente dopo ore di onesto servizio sotto il suo ingombrante fondoschiena.

    Il ragazzone espresse tutto il suo disappunto bofonchiando tra sé e sé risposte che la madre non avrebbe mai sentito, muovendosi con la consueta, esasperata teatralità.

    La casa, malamente progettata da un inabile architetto, era immersa nel verde e al tempo stesso soffocata dai miasmi della strada e delle fabbriche adiacenti: una dicotomia che la rendeva al tempo stesso accogliente e inquietante. Tutto sommato, però, poteva anche essere carina: dislocata su due piani, arredata in stile rustico, aveva un ampio giardino e un orto, posto proprio accanto a una gigantesca bombola di metano. Peccato solo che fosse un’abitazione abusiva, ubicata tra una strada provinciale e un mattatoio.

    Dietro casa c'erano diversi boschetti: in uno di essi scorreva un fiumiciattolo ed era là che Bafyo aveva trascorso la maggior parte del suo tempo da piccolo. A volte aveva trascinato i suoi amici in folli avventure, a bordo di un trattorino modificato; altre volte aveva vagato in bicicletta, giocando per conto suo. Ormai conosceva quei luoghi come le sue tasche, ogni singolo pezzo di terra e le piccole stradine, tanto da poterle percorrere anche a occhi chiusi.

    «Jagoooo!» urlò Bafyo, ansimando e rantolando per il terribile sforzo fisico a cui dopo tanto tempo stava sottoponendo il suo corpo.

    Procedendo a passo lento, scrutò la boscaglia, frustrato dal pensiero del suo cane e dalla sua assurda tendenza a perdersi.

    Di solito non si allontanava molto da casa, limitandosi ad annusare l'ambiente nelle vicinanze e a cacciare la rara fauna che vi si poteva trovare, tuttavia questa volta non sembrava essere nei paraggi: i ripetuti richiami del ragazzo non sortirono alcun effetto.

    «Chissà dove cavolo è andato a cacciarsi stavolta...» pensò a voce alta, continuando ad avanzare nel bosco, guidato dall’arguto sesto senso che più di una volta lo aveva spinto in situazioni bizzarre, come la volta in cui era rimasto bloccato con la propria auto all'interno di una cava abbandonata, scambiata per una scorciatoia, o quella in cui aveva continuato a proseguire in linea retta in prossimità di una curva per osservare un gruppo di scout.

    I raggi del sole stavano diventando tiepidi mentre Bafyo si muoveva attraverso il fogliame sempre più fitto. Il sottobosco, caratterizzato da erbe e fiori, stava cedendo il posto a edere dall'aspetto famelico, che si avviluppavano intorno a tronchi nodosi.

    Non riusciva a ricordare quella parte del bosco: pensava di aver visitato ogni anfratto di quella zona, eppure non ricordava niente di quello che stava vedendo. Gli alberi stavano diventando strani, avevano foglie dai colori grigiastri e grandi gambi bulbosi, sormontati da grossi baccelli di forma irregolare, che ricordavano vagamente un occhio chiuso. Ancor più inquietante era il modo in cui si muovevano: probabilmente dipendeva solo dal vento, ma sembrava che respirassero, spostandosi all’unisono, quasi lo stessero controllando nella grottesca parodia di un grigio girasole.

    Perfino il suo animo coriaceo iniziò a essere turbato da quella situazione: si sentiva totalmente spaesato e non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che qualcuno lo stesse osservando.

    «Ma che diavolo...» disse notando un sentiero mai visto prima, poco battuto ma ben definito, come se fosse stato percorso di recente.

    Qualunque persona normale avrebbe forse rinunciato a quel punto: era passata quasi un’ora da quando aveva iniziato la ricerca e non solo non aveva trovato alcuna traccia del cane, ma non riusciva più a capire dove fosse finito lui stesso. Avrebbe dovuto fare dietrofront, seguendo la scia di erba e rametti distrutti dal suo incedere ma, come al solito, un ben noto pensiero emerse dai meandri della sua coscienza: PERSO?! Sei un ex scout. Cosa penserebbero gli altri se sapessero che ti sei perso?

    Poco importava che fosse da solo e che effettivamente nessuno se ne sarebbe preoccupato, neanche se lo avesse raccontato.

    Sospinto dalla folle necessità di dimostrare qualcosa, si immerse ancor di più nella boscaglia, avventurandosi lungo un piccolo sentiero dismesso e fangoso, mentre il cielo si faceva sempre più rosso e scuro.

    «Forse Jago è passato di qui» farfugliò.

    La via era stretta e circondata da arbusti spinosi, che si chiudevano sopra di lui a formare un opprimente arco di rovi sempre più basso, come se il bosco stesso si stesse restringendo per poterlo schiacciare.

    Jago non si vedeva, eppure il ragazzo continuava a scorgere delle impronte, dei rami spezzati, gli sembrava perfino di sentirne l’odore.

    Devi proseguire si disse, di sicuro è passato di qua.

    Non si poteva dire che lui e quel cane avessero chissà quale profondo rapporto: Jago vedeva troppo poco il suo padroncino per poter nutrire affetto nei suoi confronti, mentre Bafyo perlopiù lo ignorava, tuttavia, per qualche ignota ragione lo considerava un animale fedelissimo e incredibilmente affezionato. Spesso lasciava interdetti amici e familiari raccontando di imprese incredibili, prove di addestramento, e perfino atti eroici, come aver fatto scappare un giaguaro da uno zoo o aver salvato un bambino caduto in un pozzo.

    Ormai anche i suoi genitori si erano convinti che il ragazzo traesse ispirazione dalle puntate di qualche telefilm, sostituendone il protagonista con la povera, ottusa, palla di pelo.

    Per questo motivo Bafyo non era in crisi per la sorte del suo miglior amico, era preoccupato, sì, ma soprattutto per gli insulti che suo padre gli avrebbe lanciato contro per averlo perso.

    Così continuò a camminare lungo quel sentiero sconosciuto, arrancando tra gli sterpi che, di tanto in tanto, riuscivano a farsi strada sotto i suoi vestiti e a graffiarlo, causando imprecazioni e scatti d’ira.

    Le ombre di rami e foglie sembravano muoversi intorno a lui, reagendo ai suoi insulti, ai calci immotivati che tirava a erba e pietre, come se la natura stessa, prima indifferente, si stesse destando al suono di quella fastidiosa e confusionaria presenza.

    Accelerò il passo, iniziando a guardarsi intorno.

    Fu a quel punto che il viottolo semplicemente finì e Bafyo si ritrovò di fronte a un muro di alberi e arbusti troppo fitto per permettere a chiunque di oltrepassarlo: una muraglia vegetale che sembrava essere stata fatta crescere appositamente per intralciargli il passo.

    Anche le tracce di Jago parevano essersi dissolte nel nulla.

    Forse mi sono allontanato dalla pista giusta pensò, ma quando si voltò per ritornare sui propri passi non riuscì più a riconoscere il sentiero che aveva appena percorso. Era circondato da quegli acuminati sterpi che gli si stringevano addosso in maniera soffocante.

    Dopo ore di cammino, la consapevolezza di essersi veramente perso raggiunse la sua coscienza con l’intensità di un colpo di pistola.

    Il panico lo colse. Si girò e si lanciò contro la barriera vegetale che gli bloccava il passaggio, arrancando in mezzo al groviglio di rami e foglie morte, che emanavano uno strano fetore. Spinse con tutte le sue forze e finalmente sentì il muro cedere, cadendo a terra dall’altra parte.

    Per qualche lugubre istante si ritrovò a fissare il cielo, accarezzando con la mano l’erba morbida di un normale prato.

    Lentamente si alzò, osservando con aria stralunata la villetta di fronte a lui.

    In un modo o nell’altro, era tornato a casa.

    II

    Spuntino di mezzanotte

    In una notte buia e tempestosa, in una spelonca di pietra, vagava senza meta un troll…

    Così sarebbe potuta iniziare – e così in effetti comincia – la storia di un grasso, buffo omaccione che si muoveva circospetto tra le pareti di una vecchia casa, immaginandosi, con la testa tra le nuvole, come un irrequieto mostro delle fiabe, alla ricerca di una piccola saporita vittima con cui pasteggiare.

    La sua preda era già decisa: una grande scatola refrigerata a poche stanze di distanza, ripiena delle più squisite leccornie. Doveva solo fare attenzione a muoversi in silenzio, per non svegliare nessuno.

    Poteva sentire il profondo russare del suo genitore far tremare la porta socchiusa della stanza, però sapeva che il minimo scricchiolio avrebbe scatenato l’ira della creatura.

    Per questo, nonostante la sua mole massiccia, aveva imparato a muoversi con la leggerezza di un gatto.

    Gli bastava togliersi le scarpe per divenire in un istante silenzioso come un fantasma.

    Dovrebbe essere buona… pensò Dranea scrutando il frigorifero che, come una bianca cornucopia, straripava di ogni genere di cibarie – dalle conserve sott’olio ai freschi stinchi di maiale – il cui grasso risplendeva alla tenue luce del led azionatosi all’apertura dello sportello.

    Dranea si strofinò le mani con golosità, setacciando il tesoro che aveva faticosamente conquistato, per poi iniziare a scegliere gli ingredienti più ghiotti e più genuini.

    Un po’ di ceci, un po' di latte, un po' di maionese... ecco fatto!

    No, decisamente no. Lui univa una particolare predilezione per la sperimentazione a una decisa mancanza di buongusto, almeno quando preparava da mangiare per se stesso.

    In effetti, riusciva a essere un discreto cuoco quando ci si metteva d’impegno – più volte aveva preparato degli ottimi manicaretti per i suoi amici – ma quando si trattava di sé... beh, bastava guardare la sua aria soddisfatta mentre si sistemava gli occhiali che gli erano scivolati sul naso fissando, quasi rapito, l’improbabile serie di ingredienti. Continuò ad armeggiare all'interno degli scaffali finché non ebbe recuperato tutto il necessario per uno spuntino.

    In pochi istanti l’operazione fu conclusa: una padella prese a sfrigolare, colma di legumi conditi con una sapiente scelta di erbette. Un classico della cucina vietorana, insomma!

    L’eccelso razziatore di derrate alimentari mise il tutto dentro il suo porta pranzo in ottone, antica reliquia di quando ancora andava all’asilo: gliel’avevano regalato i suoi genitori che, a loro volta, lo avevano trafugato dopo la dipartita della nonna paterna, cui era appartenuto in prigione.

    Dranea sapeva che si trattava dell’ennesimo regalo riciclato, come la bicicletta ricevuta da piccolo, identica a quella di suo fratello Bob o, in epoca più recente, un Gelphone così originale da avere impressa una papera bianca al posto del classico ornitorinco metallizzato.

    Comunque, il ragazzone non se l’era mai presa, non era mai stato venale, anzi, tendeva ad affezionarsi in maniera quasi morbosa alle cose che già possedeva, provando un acuto senso di disagio quando si ritrovava tra le mani qualche nuovo oggetto che non conosceva e di cui non sentiva minimamente il bisogno.

    Ovviamente, superato il primo impatto, la sua mania da accumulo prendeva il sopravvento e finiva per legarsi anche alle cose nuove.

    Era stato così per il porta pranzo in ottone, per la tuta che fino all’età di dodici anni si era tolto a malincuore solo quando doveva essere lavata, per la polverosa console Blockbox 63 che prendeva muffa sul suo comodino da dieci anni insieme a un televisore a Cannone catodico modello Chernobilly.

    Insomma, l’unica cosa che gli impediva di diventare un accumulatore compulsivo erano le retate dei suoi familiari in camera sua quando lui non c’era, che culminavano sempre in un letto rifatto, in un ordine restaurato e in un inestimabile ninnolo perso per sempre. Ormai non si arrabbiava nemmeno più: in quella famiglia nessuno ascoltava mai (e lo stesso Dranea non faceva eccezione), così qualunque sua parola o imprecazione finiva in un nulla di fatto, con sua madre che inventava una scusa facendolo arrabbiare ancora di più.

    Alla fine aveva imparato semplicemente a nascondere le cose a cui teneva maggiormente, ricavando nascondigli segreti sul fondo di armadi e dietro piastrelle traballanti. A tutti gli effetti, aveva trasformato casa sua in un groviera, senza che nessuno se ne rendesse conto per via della comune tendenza dei suoi abitanti a vivere ciascuno in un mondo tutto suo, solo parzialmente connesso con la realtà.

    Ma tornando al presente, Dranea era riuscito a tornare con il lauto pasto nella sua personale Camera dei Segreti, muovendosi al buio come un gatto, tra i mucchi di oggetti meticolosamente ammassati. Pile di fumetti e riviste di videogame ormai vetuste si ergevano come torrioni in quella fortezza domestica, circondando

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1