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Blood and Breakfast
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E-book187 pagine2 ore

Blood and Breakfast

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Carl, studente di medicina fallito, decide di avviare un bed & breakfast nella villetta ricevuta in eredità dalla nonna, una donna cattiva verso la quale non nutre il minimo affetto. L’inaugurazione dell’attività non avviene però nel modo previsto: i primi due ospiti scompaiono nel nulla e Carl sente montare dentro di sé una sempre maggiore attrazione verso la violenza, tanto da cominciare ad architettare il modo migliore per togliere di mezzo anche i clienti successivi. Ma dove sono finiti i primi due ospiti? Qualcuno verrà a chiederne notizie? E come mai l’indole docile di Carl si è trasformata in indifferenza verso la morte? Una scia di sangue invade la casa, mentre l’estate si fa sempre più torrida e la birra doppio malto scorre a fiumi nelle tarde serate adriatiche.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2014
ISBN9788868810627
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    Anteprima del libro

    Blood and Breakfast - Riccardo de Torrebruna

    Èchos

    Carl

    Da un certo momento della sua vita non aveva più saputo dire se quello fosse un sogno o un fatto realmente accaduto.

    C’era un bambino, lui, non poteva essere che lui, nella vecchia casa di sua nonna; avrà avuto sì e no cinque anni. Stava in piedi davanti a una stufa a legna. È possibile che fosse di terracotta. In ogni caso sprigionava un intenso calore che gli arrivava dritto fino alla schiena. Sua nonna era seduta, questo lo ricordava con esattezza, in attesa di una tetra sera invernale. Forse sferruzzava tirando ogni tanto il filo dal gomitolo di lana, anche se questo ritratto pacato cozzava contro l’alterigia da nobildonna decaduta che emanava. Magari era semplicemente lì, in agguato sul limitare del buio che incombeva nella casa, a luci ancora spente per tirare al massimo sulla bolletta. Tra quelle mura domestiche senza gioia imperversava la tirchieria. Nella stufa doveva esserci un solo ciocco di legna, e l’unica fonte di calore si trovava a meno di un metro da lui.

    Aspettava suo padre, di ritorno dal lavoro, più per rompere il gelo imbarazzante da cui si sentiva circondato che per la voglia di vederlo. Anche sua nonna l’aspettava. L’aspettavano insieme e non parlavano. Tra loro non c’era confidenza, solo l’eco del crepitio del fuoco. Non amava sua nonna, non l’aveva mai amata e non poteva amarla per ragioni che ancora non era in grado di esprimere. La temeva, questo era indubbio. Sapeva con certezza che anche lei non lo amava e forse questo era il motivo per cui non le parlava e non la guardava. Accanto alla stufa ognuno aspettava nella semioscurità, lui suo padre, lei suo figlio, senza condividere il desiderio di sentirlo entrare dalla porta di casa. Non riuscivano a essere complici neanche in questo.

    «Non stare così vicino alla stufa, o ti scotterai» sentì dire dalla sua voce aspra.

    In un solo colpo la tregua s’incrinò. Era il segnale che aveva atteso, lo squillo di tromba che annunciava l’assalto al cuore del nemico. Portava i pantaloni corti e, quasi senza muoversi, fece arretrare il polpaccio fino alla superficie rovente della stufa. La carne sfrigolò nel silenzio, ma lui non emise neanche un gemito. L’odio lo rendeva misteriosamente immune al dolore. Lei impiegò del tempo a rendersene conto; forse fu l’odore penetrante di carne bruciata a metterla in allarme. Ad ogni modo, la sua bocca si arricciò come una vecchia serranda sui canini ingialliti, scoprendo un vuoto che lui riconobbe: era lo stesso con cui, assai di rado, per la verità, lei credeva di sorridergli. Da lì, un attimo dopo, uscì quel grido.

    Perché i pensieri che lo assalivano di notte erano così affilati da trinciare le persone, senza concedere né scampo né compassione? Perché, mentre si rigirava sfibrato dall’insonnia e da un’attività che per assurdo faceva a meno di lui, sentiva di essere come sopravvissuto a un’ecatombe? Perché doveva ripartire ogni volta dalla spossatezza di quella battaglia?

    Poi, attraverso la vibrazione della finestra, l’affanno delle prime auto penetrava nella stanza, e la sua guerra subiva un rinvio, almeno fino alla notte successiva.

    Prima di alzarsi dal letto, soppesava le piccole gratificazioni che lo avrebbero guidato come un analgesico a non patire il dolore della sua condizione di studente senza qualità: il giornale, il caffè di metà mattina, la musica di Keith Jarrett, le notizie sportive. Solo dopo aver riconfermato questo patto con se stesso e col mondo riusciva a infilarsi in bagno.

    Giunto al terzo anno di medicina, si trascinava dietro buona parte degli esami del secondo. Biochimica e Microbiologia erano dei massi pericolanti che prima o poi lo avrebbero travolto; quanto meno gli profilavano l’opzione di mollare. Il giuramento di Ippocrate, il tirocinio in ospedale, il sangue, la visione di budella straziate non riuscivano a radicarsi in pianta stabile nella disordinata prospettiva del suo futuro. Dal flipper di quelle decisioni prese, rinviate, rimuginate e rimpiante, la pallina schizzò fuori all’improvviso.

    In un’opaca mattina di novembre, la postina venne a recapitargli una raccomandata.

    Era riuscito a prendere sonno solo verso le sei, quindi si era alzato tardi. La lezione di Anatomia Due era andata, amen. Sapeva che, vedendolo passare a quell’ora, alcuni negozianti sotto casa lo avrebbero guardato con ostilità, altri con indulgenza. Ma tutti sembravano concordi nel dirgli: Sei un lavativo, un parassita, e per te la pacchia si avvicina alla fine. Perciò decise di farsi il caffè in cucina, al riparo da quelle malelingue, dove avrebbe fatto colazione con pane duro e miele, tutto lì.

    Ad aprire la porta andò in maglietta. Portava dei pantaloni larghi di cotone, sdruciti in più punti, tenuti su da un elastico, e un paio di Birkenstock fuori corso quanto lui.

    La postina aveva la faccia rotonda, grassottella, precocemente invecchiata da un lavoro che, secondo la sua opinione, non era adatto a una donna. Girare in motorino con una cartella pesante a tracolla, d’inverno, citofonando col rischio di sentirsi rispondere male o di non farsi aprire affatto; intrattenersi con degli sconosciuti sulla soglia di appartamenti da cui emanava odore di chiuso e di cipolla, dovendo ricordare a tutti che la penna era sua.

    Carl firmò fronte e retro, prima di tornare nella sua camera in subaffitto.

    La condivisione, meta dell’utopia socialista che fu, era un’altra tappa obbligata a cui non era riuscito a sottrarsi per mancanza di fondi. I palazzi del quartiere periferico dove abitava, a Roma, pullulavano di quelle stanzette in cui gli studenti fuori sede mescolano le carte del proprio destino e barano, prima che il gioco si faccia duro sul serio.

    Vegetava da un anno nel suo antro, tarlato come un legno giovane a cui non hanno dato l’impregnante. Di lì a qualche mese, il paragone gli sarebbe sembrato perfettamente a filo, come un muro ben rasato.

    Quella raccomandata veniva dall’avvocato garante delle disposizioni testamentarie.

    Dopo le inevitabili formalità, era entrato in possesso dell’immobile sito in via dei Cacciatori 128, almeno sulla carta. In pratica, doveva scavalcare l’Appennino per trovarsi di fronte alla realtà.

    Comprò il biglietto e si mise in viaggio, sbirciando dalla corriera le gobbe scarne del Gran Sasso gravate di nuvole al cobalto, i paesini arroccati al di fuori di ogni rotta turistica, i cartelli triangolari che segnalavano il possibile attraversamento di animali selvatici, daini che spiccano un salto e che nessuno riesce mai a vedere. Normale, perché un animale intelligente dovrebbe razzolare vicino all’autostrada?

    Un’ora più tardi era a destinazione, calato in un paesaggio senza fili di raccordo con la topografia che teneva in serbo nella memoria. Per trovare la casa − difficile chiamarla villetta dato lo stato in cui si presentava − gli ci volle più tempo che per tutto il viaggio.

    L’area era circondata da piloni di cemento armato su cui si reggeva il nuovo corso della viabilità: una sopraelevata capace di scavalcare la pericolosa lentezza dell’Adriatica, permettendo alle auto dirette in paese di piombarci dall’alto, come uccelli predatori. A piedi diventava difficile raggiungere la casa; si finiva intrappolati in un labirinto, con le macchine razzenti ai fianchi.

    La vecchia casa di sua nonna sembrava un fungo raro, o il corpo affiorante di un cadavere, secondo il punto di vista. Ci pioveva dentro da più parti, e una trave del solaio si era così impregnata d’acqua che rischiava di cedere se non si fosse intervenuti in tempo.

    Però, un’eredità non si rifiuta mai.

    In poco meno di due settimane si trasferì con l’intenzione di fare ritorno in città appena fosse riuscito a dare un assetto migliore alla propria condizione, senza un’idea precisa su nulla.

    Farsi coinvolgere dall’idea di risistemare il villino era quasi un passaggio obbligato, considerata la situazione delle sue finanze. Mettere in vendita la proprietà così com’era poteva essere un affare solo per gli squali delle agenzie immobiliari che avevano già fatto razzia dei vecchi casali e di ogni rudere della zona. In pochi anni un’intera area rurale era stata deturpata dalla mole dei megastores, iperdiscount, supermercati, stock house, concessionari di auto nuove e usate, con tutto il corollario di palazzine, depositi di autotreni, parcheggi e cementificazioni sotto ai quali si era deciso di seppellire il grano e le colture che un tempo avevano reso florida quella terra. Il mare distava meno di un chilometro, ma immaginarlo richiedeva uno sforzo sovrumano.

    In poco tempo le magagne della casa a due piani, affacciata su tutte le possibili tonalità di grigio, vennero fuori, ma gli interventi di ristrutturazione necessari trovarono il loro limite nella scarsezza delle sue risorse. Carl imparò a dare l’intonaco quando si accorse che non poteva permettersi operai, nemmeno con le paghe relativamente basse dei rumeni che lavoravano da quelle parti.

    La fatica, tenendo conto delle sue abitudini, lo rese più forte, rinvigorendo il suo aspetto e soprattutto trasformando le sue mani. Erano sempre screpolate, e la velatura bianca dell’intonaco aveva nidificato negli interstizi della pelle, sotto le unghie. Bastava un’occhiata per capire che non erano più le mani di una promessa della chirurgia.

    Aveva scartavetrato, imbiancato, scrostato i pavimenti, dato l’impregnante agli infissi, stuccato a fondo i pori e le crepe. Gli piaceva lavorare col legno, e in quella casa, di legno, ce n’era parecchio. Gli veniva spontaneo ridonare vita ai mobili ancora buoni, dandoci dentro con l’antitarlo e la cera d’api. Quando s’incaponiva a sfregarla, per cavarne il massimo della lucentezza, pareva un invasato. Il pianoforte, però, non riuscì a salvarlo. Un’infiltrazione d’acqua nell’angolo del salotto gli era stata fatale, e ormai alcuni tasti rimanevano sordi. Oltre a essere scordato, sembrava che inghiottisse il suono riducendolo a un rantolo.

    Da bambino quel pianoforte lo ipnotizzava, e si era convinto che dare vita a musiche celestiali sarebbe stato il suo destino. Se glielo avessero lasciato toccare e studiare, avrebbero fatto grandi cose insieme. Invece, perché sei piccolo e lo strumento si rovina, lo tenevano alla larga. Ora che lo aveva ritrovato, il pianoforte era in disfacimento. Lui invece godeva di una verve apparente a causa degli obblighi manuali; in realtà, arrancava alla ricerca di un filo logico. Si sentiva guidato da una mano invisibile, ma nelle pause gli capitava di chiedersi perché stesse facendo tutto quel lavoro.

    All’accendersi della primavera, la villetta era abitabile, benché conservasse un aspetto provvisorio. Le assi di legno del solaio scricchiolavano, dando una concreta sensazione di pericolo. Ma che bisogno c’era di salire in solaio.

    Dalla sopraelevata che dominava la zona, quella scheggia di passato compariva all’improvviso nell’inquadratura dei finestrini delle auto, nell’ingorgo feroce dei rimorchi che la facevano da padroni.

    L’idea di avviarci un bed and breakfast era un’assurdità. Da dove gli era venuta?

    La prima domenica in cui la gente si era riversata sulla spiaggia, convinta che l’inverno fosse davvero finito, anche Carl si era affacciato a guardare il mare. Alcuni gironzolavano a piedi nudi sul bagnasciuga, rabbrividendo per la temperatura dell’acqua, altri si erano tolti soltanto il maglione per prendere il sole.

    Un manipolo di barche in secca con la pancia all’aria, e un corredo di nasse, funi, boe e bandierine corredavano il giorno di festa. Due anziani pescatori discutevano nel loro strettissimo dialetto, finché quello senza passamontagna di lana si chinò sulla sabbia e con un pezzo di legno tracciò delle linee. Spiegava come si arrivava a una certa zona di acque profonde e Carl, per le quattro parole che riuscì a cogliere, capì che si trattava di pesca, ma c’era di mezzo anche il relitto di una nave.

    Le famiglie dell’entroterra, proprietarie della casa al mare, s’intrattenevano sui balconi dando una parvenza di vita alle palazzine a schiera, ai condomini a tappeto, presi in prestito da una qualsiasi periferia urbana e trapiantati sulla costa. All’ora di pranzo, il cielo si era annuvolato e dalla spiaggia erano spariti tutti.

    Kareem comparve dopo aver percorso il litorale per tutto il giorno senza fare un centesimo. Era del Senegal, vendeva asciugamani di spugna pesante, qualche pareo e un numero di borsettine la cui pelle non aveva ricevuto una conciatura adeguata e quindi si lasciava dietro uno strascico asfissiante. Dimostrandosi conscio del problema, lui aveva cercato di camuffarlo con essenze dolciastre, col risultato che il tanfo della morte sembrava rivestito da un aroma di zucchero filato.

    Quando Kareem era andato a ripararsi sotto la veranda di Carl dal puntuale acquazzone di aprile, la pellaccia di quelle capre africane, risvegliata dalla pioggia, mandava un fetore della gittata di almeno cinque metri.

    «Ti posso vendere dei tappeti per la casa» gli aveva subito proposto, sorprendendolo a pulire un pennello fuori della porta d’ingresso. Dalla cura con cui lo intingeva nell’acqua ragia, gli era chiaro che Carl non fosse un operaio, ma il padrone di casa in fuga dalle esalazioni della vernice con cui pitturava la balaustra della scala interna. «Ti faccio un buon prezzo» aveva aggiunto.

    Niente da fare, non attaccava. Carl rimase impassibile. Anche se un tappeto, per coprire una larga zona del parquet dissestato in soggiorno, poteva fargli comodo. Il pensiero durò un battito di ciglia, poi prese a studiare l’inatteso ospite africano. Era alto, dinoccolato, intraprendente ma privo di quell’ansietà con cui gli ambulanti hanno il vizio di perseguitarti.

    Kareem, intanto, aveva tirato fuori il tabacco e si era arrotolato una sigaretta, poggiandosi contro la parete. Si guardava la pioggia, divertito, compiaciuto di non essersela beccata, ma soprattutto felice di vederla.

    «La pioggia mi fa sentire un bambino» disse. «Qui da voi è più fredda, ma mi piace lo stesso. Vuoi fumare dell’erba?» gli chiese. Carl esitò.

    «Non voglio vendertela, la fumiamo insieme. Poi, se ti va, ne parliamo, ok?».

    «Ok» disse Carl.

    L’erba era fortissima e Kareem dimostrò di saperne abbastanza dei materiali che servono a costruire una casa. Non una capanna, una casa. Tuttavia non si lasciò andare a nessuna puntata nostalgica sulla sua terra d’origine. Il fatto che non si piangesse addosso diede un certo sollievo a Carl, sollevandolo dall’obbligo di fare il numero del bravo ragazzo con un negro morto di fame.

    Quando la pioggia cessò, oltre ad aver incamerato nuove nozioni per ripulire l’esterno, Carl decise di accogliere il consiglio di Kareem. Insieme all’effetto del tetracannabinolo, sentì che gli argomenti dell’ambulante africano erano affilati come pugnali. Poteva affittare la stanza al piano di sopra per il periodo estivo, tanto per rifarsi dei soldi spesi, poi vendere tutto e, perché no, tentare la scalata al settore alberghiero. Kareem ventilò opportunità di facili investimenti in Senegal, dalle sue parti: villaggi turistici, lotti a buon mercato, conoscenze, tutta la sfilza delle occasioni offerte ai neocolonizzatori con la grana.

    Carl pensò

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