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L’amore eterno
L’amore eterno
L’amore eterno
E-book203 pagine2 ore

L’amore eterno

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Info su questo ebook

Bruno Portanova, recentissimo vedovo, si rivolge alla impresa funebre Dignitas che ha realizzato un programma innovativo di realtà virtuale denominato Ridare vita ai propri cari. In sostanza, la Dignitas promette all’inconsolabile vedovo di far rivivere la defunta creando, in base ai ricordi in video o fotografie, un perfetto avatar di lei. Ricorrendo ad un evoluto software che sfrutta il principio delle reti neuronali, l’avatar non è solo una fotografia animata della morta ma è anche in grado di interagire: parla e risponde, attingendo ad un database di reazioni teoricamente illimitato. Questa brillante e costosa risorsa, concepita per essere un “effetto di realtà” destinato ad annullare gli effetti depressivi della vedovanza, finisce per andare molto oltre le aspettative e diventa, poco a poco, una finestra innaturalmente aperta sull’al di là.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2018
ISBN9788868152772
L’amore eterno

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    L’amore eterno - Franco Garofalo

    L’amore eterno

    Franco Garofalo

    Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2018

    Copyright Franco Garofalo, 2018

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868152772

    In copertina:

    Ofelia di J. Everett Millais, Tate Gallery di Londra

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Franco Garofalo

    Copertina

    Dedica

    L’amore eterno

    Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, è necessario acquistare una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, siete pregati di acquistare la vostra copia.

    Grazie per il rispetto verso il duro lavoro di questo autore.

    Franco Garofalo

    Franco Garofalo (1957), autore di testi letterari, teatrali, cinematografici e saggistici da vari decenni, insegna Filosofia e Storia nei Licei. A 16 anni vince il Premio CE.SI. di narrativa giovanile a Palermo, membri della giuria Carlo Bo e Giorgio Saviane, con il racconto Il quarto illogico, replica l’anno dopo, 1975, nel medesimo premio dietro a Raffaele Nigro. Si laurea in Filosofia all’Università di Bari e si diploma presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (poi Scuola Nazionale di Cinema). Prima di compiere 30 anni è stato autore drammatico sulla scena sperimentale romana, con recensioni favorevoli dalle colonne di grandi testate come: Repubblica, Corriere della Sera, Messaggero, Espresso, Manifesto, Paese Sera e Gazzetta del Mezzogiorno. Regista collaboratore a RAI TRE (Il Sale della Satira, 1985) e RAI UNO (Più grandi insieme – Anteprime cinema, 1987). Maggiore evidenza in ambito teatrale nel 1989, con la messinscena del suo dramma La politica dei sentimenti presso la Sala Orfeo del Teatro dell’Orologio di Roma. Negli anni ‘90 scrive numerose opere narrative a carattere fantastico, e conduce in varie sedi un seminario di linguaggio cinematografico, per 3 mesi anche all’Istituto Italiano di Cultura di Madrid (2000). Dopo una significativa esperienza di insegnamento nel Liceo Italiano C. Colombo di Buenos Aires per conto del Ministero degli Affari Esteri, rientra in Italia nel 2008. Autore di Antiestetica (2000), saggio di filosofia estetica pubblicato per i tipi della Casa Editrice La Bautta (Matera/Ferrara), con saggio in prefazione di Enzo Biffi Gentili.

    Contattalo: fr.garofalo@libero.it

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    A chi è capace di rendermi felice.

    Capitolo primo

    PER QUEST’ANNO attendo che il mio genio torni a risorgere. Che torni a risorgere la vita interiore, intossicata dalla convivenza con la malattia e con gli ultimi giorni di mia moglie.

    Il genio, io lo conosco ormai, si è rincantucciato, ha scelto un angolo, mi ha elargito doni finché ha potuto, poi è tornato bruciato e ferito (da chissà quale attacco invisibile) a chiudersi in se stesso, sicuro che non lo volessi più. È una vita che mi rimprovera questo: il suo carattere è suscettibile e gli ripugna l’idea di trasmigrare in un altro corpo.

    Solo i discorsi e i ragionamenti sulla bellezza tornano ad attirare la sua attenzione. In realtà senza di lui non saprei vivere; anzi, devo dire meglio, che senza di lui la mia vita sarebbe senza scopo.

    Gli atti dei morenti sono sempre un vero spettacolo. Quante morti sperimentiamo, nel nostro cuore? Una, la più rattristante, è quando siamo superati irrimediabilmente, quando gli eventi corrono troppo per il nostro respiro.

    La vita da vedovo, quasi inutile dirlo, è la cosa più dura: si scivola ai margini della società. E non mi sorprende, dato che su quei margini ci ha piantato le tende la maggior parte delle persone. Nessuno più vive al centro, all’infuori di una esigua pattuglia di ultraricchi, quasi estranei alle tribolazioni dell’essere umano. Il vecchio e il vedovo sono caduchi, nel vero senso della parola: cadono sulla società come foglie morte, non servono, non producono né altri figli né nuovi redditi. Pure, stanno nel nostro panorama urbano. Ma solo per caso, perché si trovano a passare: sono anime perdute, inutile chiedere di far bene una qualunque cosa.

    Un mio fatto tipico, è un certo modo di ricordare la sua carne in silenzio. Per me è una specie di religiosità, mi piaceva e l’amavo, eppure negli ultimi giorni il corpo della mia povera Natalia era martoriato. Mi sforzavo di non pensare a cosa ci fosse sotto la camicia, quella tunica incolore della terapia intensiva che aveva preso il posto del pigiama della clinica, verde con lo scollo a V bordato da una sottile riga bianca. La tunica era invece una specie di grembiule, aperta sulla schiena dove si annodavano alcuni laccetti.

    Mi sforzavo di non guardare per non dover poi pensare. Provavo una profonda vergogna per essere giaciuto con quel corpo ora martoriato dal linfoma, come se la sua verità fosse questa e non quella precedente, del corpo bello e sano, armonioso e pieno e dalla pelle vellutata.

    Pensieri strani si accavallavano nella mia testa quando sedevo, per molte ore, sulla poltrona ai piedi del letto di Natalia. Ad esempio che avrei avuto presto l’esperienza di aver amato un corpo che si sarebbe putrefatto sotto terra da qualche parte, sotto una lapide piatta secondo le ultime tendenze dei Giardini dell’Eternità, e che forse non avrebbe mai smesso di chiamarmi a sé.

    Pensavo, come molti altri, che il legame d’amore sfida anche quel definitivo distacco, e che la vera morte è soltanto la morte dell’amore, ossia il momento in cui quel legame smette di mandare segnali, interrompe la sua trasmissione. Vorrei non essere equivocato: non pensavo tutte queste cose perché sperassi segretamente nella sua fine; Natalia era condannata, ciò mi era stato detto chiaramente. Si trattava solo di tempo, in realtà neanche di troppo tempo.

    Il suo medico curante, la dottoressa Anna Speranza, era venuta a trovare Natalia in clinica fino a una settimana prima della fine. Alzandosi dal letto accanto al suo, per fortuna vuoto quel giorno e nei successivi, mi aveva confidato che quella era l’ultima visita secondo il suo giudizio; e che trovava giusto che gli ultimi bagliori di coscienza, visto che nei giorni preagonici e terminali sarebbe scivolata in un torpore confusionale, non fossero occupati dalla immagine di lei, familiare ma in fondo estranea, ma dal volto del marito, la persona per lei più cara, e che con quell’immagine dovesse lasciare il mondo.

    Mi dissi d’accordo con lei.

    Una settimana dopo, era di martedì, Natalia spirò.

    ***

    Sbrigai le formalità cliniche con svagata rapidità, un atteggiamento che era anche discretamente sollecitato dal personale della clinica. I dottori, a turno sempre presenti fino all’ultimo respiro di Natalia, dopo la sua dipartita si stavano facendo evanescenti; ed era comprensibile  il loro ruolo si era esaurito. Non so veramente dire se i medici vivessero la morte di una degente come una sconfitta, come una ferita del proprio ego professionale... È probabile che abbiano imparato ad accettare la fine quando essa è inevitabile, e a lottare con tutte le forze e le capacità finché sopravvive una minima possibilità. Consola pensare che, fra cinquant’ anni o forse meno, il tumore di mia moglie sarà considerato curabilissimo, e magari la cura non richiederà neanche il ricovero. Ma oggi per questo male si trapassa ancora, dal tempo all’eternità.

    Già. L’ eternità.

    Quando l’impresario funebre mi abboccò con i suoi stampati, ero troppo stordito per ascoltarlo davvero. Chiesi un giorno di tempo per riprendermi, e in tal senso mi accordai con la clinica. Essendo una struttura convenzionata avrebbero dovuto smaltire Natalia in quella stessa giornata; ma dato che il primario di chirurgia era un vecchio compagno di scuola mi concesse, anche se controvoglia, un giorno in più di camera mortuaria.

    Tornai a casa per fare la doccia e stendermi sul letto, con le imposte chiuse. Non servì certo per addormentarmi: ormai era giorno pieno, mezza estate, e la via quattro piani più sotto brulicava di attività.

    Ecco com’ era cominciata la mia vita da vedovo. Occupandomi di cose futili, il mio cambio di vestiti, mettere insieme un abito grazioso ed un paio di scarpe intonate per l’ultimo viaggio di Natalia; telefonare a sua madre e a mio padre per informarli, quindi staccare il telefono con il preciso scopo di rilassarmi: queste cose mi fecero proprio bene. Ma ecco poi cominciare ciò che sempre avevo temuto e che con il matrimonio speravo di aver evitato: la solitudine.

    La compagnia del mio genio. La scoperta, ormai definitiva, di dover vivere assieme a lui e non poterlo evitare.

    La solitudine del vedovo non è, come tante altre solitudini, un passaggio o un’ esperienza utile. La solitudine del vedovo ha già una forma definitiva. Vedere scomparire la propria compagna, o compagno, è un’anticipazione della propria fine. Il suo significato non è tanto che lei non c’è e non ci sarà più (questo capita anche con un divorzio ben riuscito) ma che la fine esiste, anzi, è la sola cosa che esiste, la sola che conti veramente.

    Importante è anche il suo senso politico: percepire la fine della vita rende immediatamente irrilevanti tutte le teorie sulla società.

    Poi, dopo... In verità non ne sappiamo nulla. Se esista una società angelica o degli spiriti, questo non può certo essere legato al senso della pura empatia umana, quel fatto che ci fa scoprire nel prossimo una particella di noi, cosa che è sempre una sorpresa gradita... la società degli spiriti sarà piuttosto fondata sulla purificazione dall’egoismo, essendo l’ego il più vile ed orrendo dei pesi per l’anima alata...! E quindi, anche quel tanto di egoismo necessario per apprezzare il gusto del caffè, gioire di un successo personale, inorgoglirsi per i buoni voti di un figlio a scuola, tutto questo sarà bandito, escluso, e allora?

    Da dove verrà la percezione della beatitudine, da dove la felicità?

    Non ne sappiamo veramente nulla, è inutile spaccarsi la testa.

    ***

    Essendomi impossibile prendere sonno a metà mattinata, restando a letto mi misi allora a sfogliare il materiale stampato della Impresa Dignitas, da oltre 40 anni al servizio dei dolenti.

    Il tipetto che mi aveva avvicinato mi aveva ispirato immediata simpatia. Non alto, lo avrei detto giovane; ma probabilmente m’ingannavo su questo, per via dell’abito fresco di stiro e le guance accuratamente sbarbate... era svelto di mano, e sapeva come fornire tutte le informazioni necessarie senza aver l’aria d’intrufolarsi nel mio dolore. A dirla tutta, era strano che fosse già lì, nel vestibolo della camera mortuaria; capivo che doveva avere un accordo di lunga durata con i portantini e i paramedici e che questo accordo faceva parte di una precisa spartizione dei vari padiglioni specialistici con le altre ditte, ogni padiglione con la sua morgue. Senza nessun legame logico fui assalito – come da un’onda improvvisamente gonfia e impetuosa – dalla coscienza di essere rimasto solo e, cosa ancor più dolorosa, senza che Natalia avesse potuto darmi un figlio.

    Il vedovo, anche se non ancora vecchio, è un residuo. Ma un vedovo senza figli è proprio la quintessenza del fallimento. Un’esistenza già consumata, quasi tutta dietro le spalle, ricca solo di ricordi di cose che resteranno dentro il ricordo, dunque del tutto insignificanti per chiunque altro, fosse pure il tuo più intimo amico... E poi, dov’erano tutti questi amici?

    Pensai alle vicende dei due anni trascorsi dalla prima diagnosi, dal primo sospetto di una dissonanza, del momento iniziale del calvario delle analisi ripetute ogni 15 giorni. Molti dei cosiddetti amici avevano preso presto il largo, o erano troppo occupati con i propri problemi o incapaci di continuare a trattare, come nulla fosse, una persona che stava morendo. Quanta miseria vi è nell’essere umano; che mancanza di stile, di serietà nell’amicizia! Ma certo: o ci si diverte, o si fa caciara, o se bisogna star lì a trattenere la lacrimuccia ebbene, che se la goda lo sventurato di turno! Loro cambiano giro.

    In breve tempo, eravamo rimasti soli io e lei.

    Caddi in un torpore che avevo già sperimentato nel primo pomeriggio. Quel giorno e i due seguenti avevo preso ferie per evento luttuoso. I lutti valgono tre giorni, secondo contratto. Lavoro come psicologo forense e devo riconoscere gli infermi e i seminfermi di mente. Natalia era una biologa e lavorava per la Polizia di Stato. Se ne stava abbastanza appartata nel suo gabinetto di analisi e non gradiva troppo vedere qualche risultato del suo lavoro messo sotto il faro dei media. Io ho avuto inspiegabili rovesci di carriera; secondo qualche esperto della procura opero senza comprendere appieno l’interdipendenza fra le professioni forensi. Ne era prova il fatto che molto di rado gli avvocati mi cercassero per propormi consulenze a pagamento.

    La mia impressione era diversa, ma davvero impiegherei troppo a mettere in chiaro tutte le risposte che ho elaborato nel tempo. Ho una visione ricorrente, intendo, a mente lucida. Mi sembra che tutti, una volta che siamo nati, aneliamo solo ad essere visti e riconosciuti dagli altri. Stiamo aggrappati allo sguardo, all’approccio, alla chiamata di qualcuno, cui attribuiamo un significato particolare che naturalmente non ha, e sovente non merita affatto.

    Respiriamo solo grazie al potere degli occhi che ci guardano: la nostra dipendenza dallo sguardo è totale, la libertà da esso impossibile. Ed io credo sia l’eco lontana del terrore di essere abbandonato dell’infante.

    Mio padre, ottantenne senza seri problemi di salute e ancora piuttosto robusto, entrò per portarmi la spesa ma aveva le chiavi, così non fui costretto ad alzarmi dal letto.

    «Vieni, mangia» diceva, come forma abituale di saluto, fin da quando ero andato a vivere da solo, ben prima di sposarmi. Non era smanceroso, aveva un’idea tutto sommato tradizionale dei rapporti con un figlio maschio, e con mio fratello Riccardo si regolava nello stesso modo.

    Era stato un giornalista sportivo e, negli anni giovanili, anche un discreto atleta. Nonostante questo detestava lo sport e detestava quelle pratiche con cui gli anziani si mantengono in forma, corsa o bici, se ne vedono tanti in giro direi, con il bracciale di velcro con il cardio frequenziometro e la fascia parasudore sulla pelata. Li trovava patetici, se ne incontrava uno per strada si distoglieva schifato.

    In realtà io non trovo niente di sbagliato nel curare il corpo e il fiato e il ritmo cardiaco in età avanzata. È un modo di ravvedersi dagli eccessi idioti della giovinezza, quando si seguono ipnoticamente modelli imbecilli, di persone cui si attribuisce chissà quale aura di eccezionalità, mentre il messaggio nudo e crudo è che il loro aspetto fisico ci provoca

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